A Roma la Cgil sta tenendo un’importante assise programmatica
dedicata alla elaborazione di un “Piano del Lavoro”. Il nome è antico,
richiama gli anni del dopoguerra, quando la Cgil di Di Vittorio avanzò
nell’ottobre del ’49 un piano per mobilitare le forze del lavoro al fine
di partecipare alla ricostruzione del nostro paese e di imporre una
politica di piena occupazione.
Il riferimento non è casuale. E’ ormai persino inutile citare le
cifre che ci vengono fornite da diversi istituti statistici pubblici e
privati, internazionali e interni. Tutti infatti concordano nel dire che
la ripresa non si vede perché non c’è. Guai a scambiare una certa
effervescenza finanziaria, o il calo dello spread, dovuto essenzialmente
a una pur tardiva iniziativa della Bce di ritirare i titoli di stato in
difficoltà sul mercato finanziario, con l’effettiva inversione di
tendenza della crisi dell’economia reale.
Oltre tutto nel nostro paese il declino industriale e
conseguentemente dell’occupazione è ben anteriore alla grande crisi
economica internazionale che stiamo vivendo. O si riparte dalla
rimozione delle cause che bloccano uno sviluppo che per essere tale deve
cambiare modello, poiché non può basarsi su settori più stracotti che
maturi, oppure lavoro non se ne crea. Chi pensava di farlo abolendo
l’articolo 18 è stato smentito dai fatti, se mai ce ne fosse stato
bisogno.
L’appuntamento del maggiore sindacato italiano è quindi importante
per tutti e sono in molti a guardarvi con attenzione e speranza. Proprio
per questo risultano stonate alcune scelte effettuate dal gruppo
dirigente della Cgil negli inviti alle forze politiche e le polemiche
che queste hanno suscitato. Per lo più, basta scorrere i maggiori
quotidiani, queste ultime sono tutte indirizzate a sottolineare il
“pericolo” di uno schiacciamento della coalizione dei progressisti sulla
sinistra e sulla Cgil in particolare. Ovviamente tale preoccupazione
cresce in maniera direttamente proporzionale quanto più ci avviciniamo a
organi di stampa più sensibili al messaggio politico-elettorale di
Mario Monti.
Eppure tante e tali paure appaiono infondate. Se guardiamo il
programma della coalizione dei progressisti, la famosa carta di intenti,
e le liste costruite da Bersani, il rischio di uno scivolamento a
sinistra è più che scongiurato. Vi troviamo infatti i segretari della
Cisl, l’ex direttore generale di Confindustria e per quanto Ichino se ne
sia andato è stato immediatamente rimpiazzato da Carlo dell’Aringa,
giuslavorista graditissimo tanto a Cisl che a Confindustria.
Una stonatura nella stonatura. In realtà, se una critica va mossa, è
sul lato opposto. Quello della Cgil. L’invito limitato alla coalizione
dei progressisti non esaurisce l’offerta di sinistra presente nelle
prossime elezioni. Mentre è comprensibile il disco rosso a Grillo che i
sindacati vorrebbe mandarli al rogo, risulta incomprensibile
l’ostracismo verso Rivoluzione Civile, che almeno nel suo programma ha
punti di grande impatto con il tema della crescita e del lavoro, come ad
esempio la ridiscussione del fiscal compact e la reintegrazione
dell’articolo 18.
Purtroppo la scelta di Susanna Camusso e della dirigenza della Cgil
sembra prefigurare uno schema per il dopoelezioni basato sul “governo
amico”. Così effettivamente fosse, verrebbe meno uno dei pilastri del
sindacalismo italiano, almeno a partire dalle grandi trasformazioni
intervenute dall’autunno caldo, cioè dalla fine degli anni Sessanta in
poi, ovvero il rispetto dell’autonomia del sindacato dai partiti,
compreso quelli che si richiamavano al movimento operaio.
L’uso dell’imperfetto non è casuale, infatti il segretario della
Fiom, Maurizio Landini, insiste giustamente nel dire che in Italia un
partito del lavoro oggi non esiste. Tanto più, dunque, appare desolante e
impedente la mancanza di autonomia. Ma si delineerebbe un futuro
prossimo deprivato delle leve del conflitto sociale e sindacale che,
come dimostra la nostra storia, a saperla ben leggere, è stato fattore
di civiltà e di progresso economico.
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