Dunque, alla fine è servita la campagna del manifesto - subito
aggiornata con nuovi dossier da Sbilanciamoci e sostenuta da
Rifondazione comunista e Sel - contro l'acquisto prima di 130, poi di
«soli» 90 cacciabombardieri F-35. È di martedì la tutt'altro che
scontata dichiarazione di Bersani sulla necessità di tagliare la spesa
per gli F-35. «La nostra priorità non sono i caccia - ha detto il
leader del Pd e prossimo presidente del consiglio in pectore - ma è il
lavoro, bisogna assolutamente rivedere il nostro impegno». Non è da
poco, perché è un impegno e un terreno di battaglia politica.
Anche perché l'Aeronautica militare e il ministro-ammiraglio Di Paola subito rispondono che no, «gli F35 servono, eccome».
Se vogliamo però evitare che sia solo uno slogan elettorale, insieme alla sgradevole sensazione che il tutto sia riemerso per l'allarme del Pentagono sul «rischio fulmini» per i jet acquistati dall'Italia alla «modica» cifra che si aggira tra i 10 e i 15 miliardi di euro, non possiamo che sottolineare come questa dichiarazione cada nel vuoto più assoluto di una riflessione sulla guerra. Invece, anche in campagna elettorale, vale la pena interrogarsi su quanto la scelta della guerra sia assolutamente alternativa alla democrazia. Perché, nelle stesse ore nelle quali Bersani dichiarava di volere tagliare la spesa per gli F35, il parlamento dava il suo assenso bipartisan alla partecipazione alla nuova guerra occidentale in Mali. Certo, per ora, ridotta per l'Italia, con l'invio di decine di addestratori, di un centinaio di uomini addetti ai cargo che trasporteranno mezzi e truppe. Ma è una guerra dalla durata infinita, dicono a Parigi, e che si estenderà. Ancora una volta come una coazione a ripetere, l'Italia bipartisan traccia la sua insensata approvazione della guerra, che la nostra Costituzione repubblica bandisce come «strumento per risolvere le crisi nternazionali». E, in aperto disprezzo del dettato costituzionale, copia e incolla le avventure belliche cominciate nella prima partecipazione alla guerra del Golfo nel 1991, continuate con la Somalia nel 1992-93, poi nel 1994-1995 in Bosnia Erzegovina, proseguite nel 1999 con la guerra «umanitaria» contro l'ex Jugoslavia, rafforzate dall'interventismo nella guerra di vendetta dopo l'11 settembre in Afghanistan. Ancora nel 2003 al seguito dei volenterosi di Bush (l'unica non bipartisan per la smaccata infamia delle «armi di distruzione di massa). Buona ultima quella in Libia, a cento anni esatti dall'inizio della nostra impresa coloniale.
Tutta questa litania guerrafondaia senza che mai, nessuno, tantomeno in parlamento, ne analizzasse i risultati, riflettesse davvero se fossero stati raggiunti o, al contrario, se non si verificassero contraccolpi e sconfitte. Per non dire dei costi pagati, in vite umane, le nostre ma soprattutto quelle «collaterali» e dimenticate dei civili assassinati con licenza di uccidere. Eppure è sotto gli occhi di tutti che proprio l'incapacità della guerra a risolvere alcunché ha, via via, aperto e attivato nuovi fronti. In particolare la realtà nemica dell'integralismo armato islamista, volta a volta usata come «amica» contro il nemico di turno (l'Urss, governi democratici non filo-occidentali, guerre etniche vicine, etc). Islamisti che poi invece si sono «messi in proprio» fino all'attacco alle Torri gemelle a New York del 2001. Ora siamo al paradosso che, per uscire, dall'Afghanistan la strategia degli Stati uniti e degli alleati è quella di comprare i talebani tanto odiati, di metterli nel libro paga delle intelligence occidentali. E all'altro ossimoro che, la «guerra di liberazione» della Libia sostenuta con migliaia di bombardamenti aerei della Nato, ha rafforzato a tal punto i jihadisti che ora sono il punto di riferimento dell'intera area del Sahel, così come i mega-depositi di armi derivati dalla sconfitta dell'ex raìs libico. È questo retroterra e la destituzione nel sangue di Gheddafi la vera forza dei mujaheddin della grande Africa dell'interno. Una verità che l'Amministrazione Obama ha pagato a caro prezzo con l'affaire Bengasi dell'11 settembre 2012, costato la vita all'ambasciatore Usa e la carriera a Hillary Clinton e al generale David Petraeus, il risolutore delle guerre in Iraq e Afghanistan.
Come se tutto questo non fosse mai esistito, il «molliccio» socialista Hollande avvia la guerra della Francia neo-postcoloniale in Mali sostenuto dalle sinistre di governo europee, dal Pd di Bersani, e dai governi di mezzo mondo. A fare che? Oltre alle stragi dei caccia Mirage, a supportare gli squadroni della morte locali. «Avete fatto prigionieri?» chiede a un capitano dell'esercito maliano il bravo inviato del Tg3 Riccardo Chartroux nella città riconquistata di Diabali. Risposta: «Prigionieri, quali prigionieri? Questa non è una guerra convenzionale, il nostro scopo è sterminare i jihadisti, ucciderli tutti senza pietà». Perché «non c'era altra soluzione» hanno ripetuto i governi europei. Come per la Libia, ora santuario jihadista della crisi maliana. Come per il prossimo intervento in Siria dove i jihadisti invece li sosteniamo, in armi, addestramento e fondi.
Insomma, non basta dichiarare in campagna elettorale che si vuole «tagliare» la spesa per gli F-35, se non si riflette su quanto sia stata ed è inutile e controproducente la scelta della guerra. Perché la guerra è alternativa ai processi democratici, a partire dal territorio. Negli spazi istituzionali del Belpaese il Pd che ricorda a chiacchiere Pio La Torre, non riflette infatti sull'effetto tragico prodotto dalle basi militari della Nato sul nostro territorio deprivato di protagonismo, sulla riduzione degli spazi democratici e di ogni potenzialità di fronte alla supremazia delle nuove armi tecnologiche che ormai presidiano le città e le campagne. Una sola domanda. Perché Bersani che «taglia» la spesa per gli F35, tace sulla scelta fatta in Sicilia dal presidente del Consiglio regionale Rosario Crocetta, del Pd, che annuncia la revoca alle autorizzazioni di cotruzione a Niscemi del Muos, il Sistema satellitare della Marina militare Usa?
Se si conferma la «vocazione» di guerra del territorio disseminato di basi e «servitù», e della sua subalternità ai ministeri della difesa di turno e ai patti militari internazionali antidemocratici, che senso ha «tagliare» i cacciabombardieri? Prima o poi la guerra arriva.
Anche perché l'Aeronautica militare e il ministro-ammiraglio Di Paola subito rispondono che no, «gli F35 servono, eccome».
Se vogliamo però evitare che sia solo uno slogan elettorale, insieme alla sgradevole sensazione che il tutto sia riemerso per l'allarme del Pentagono sul «rischio fulmini» per i jet acquistati dall'Italia alla «modica» cifra che si aggira tra i 10 e i 15 miliardi di euro, non possiamo che sottolineare come questa dichiarazione cada nel vuoto più assoluto di una riflessione sulla guerra. Invece, anche in campagna elettorale, vale la pena interrogarsi su quanto la scelta della guerra sia assolutamente alternativa alla democrazia. Perché, nelle stesse ore nelle quali Bersani dichiarava di volere tagliare la spesa per gli F35, il parlamento dava il suo assenso bipartisan alla partecipazione alla nuova guerra occidentale in Mali. Certo, per ora, ridotta per l'Italia, con l'invio di decine di addestratori, di un centinaio di uomini addetti ai cargo che trasporteranno mezzi e truppe. Ma è una guerra dalla durata infinita, dicono a Parigi, e che si estenderà. Ancora una volta come una coazione a ripetere, l'Italia bipartisan traccia la sua insensata approvazione della guerra, che la nostra Costituzione repubblica bandisce come «strumento per risolvere le crisi nternazionali». E, in aperto disprezzo del dettato costituzionale, copia e incolla le avventure belliche cominciate nella prima partecipazione alla guerra del Golfo nel 1991, continuate con la Somalia nel 1992-93, poi nel 1994-1995 in Bosnia Erzegovina, proseguite nel 1999 con la guerra «umanitaria» contro l'ex Jugoslavia, rafforzate dall'interventismo nella guerra di vendetta dopo l'11 settembre in Afghanistan. Ancora nel 2003 al seguito dei volenterosi di Bush (l'unica non bipartisan per la smaccata infamia delle «armi di distruzione di massa). Buona ultima quella in Libia, a cento anni esatti dall'inizio della nostra impresa coloniale.
Tutta questa litania guerrafondaia senza che mai, nessuno, tantomeno in parlamento, ne analizzasse i risultati, riflettesse davvero se fossero stati raggiunti o, al contrario, se non si verificassero contraccolpi e sconfitte. Per non dire dei costi pagati, in vite umane, le nostre ma soprattutto quelle «collaterali» e dimenticate dei civili assassinati con licenza di uccidere. Eppure è sotto gli occhi di tutti che proprio l'incapacità della guerra a risolvere alcunché ha, via via, aperto e attivato nuovi fronti. In particolare la realtà nemica dell'integralismo armato islamista, volta a volta usata come «amica» contro il nemico di turno (l'Urss, governi democratici non filo-occidentali, guerre etniche vicine, etc). Islamisti che poi invece si sono «messi in proprio» fino all'attacco alle Torri gemelle a New York del 2001. Ora siamo al paradosso che, per uscire, dall'Afghanistan la strategia degli Stati uniti e degli alleati è quella di comprare i talebani tanto odiati, di metterli nel libro paga delle intelligence occidentali. E all'altro ossimoro che, la «guerra di liberazione» della Libia sostenuta con migliaia di bombardamenti aerei della Nato, ha rafforzato a tal punto i jihadisti che ora sono il punto di riferimento dell'intera area del Sahel, così come i mega-depositi di armi derivati dalla sconfitta dell'ex raìs libico. È questo retroterra e la destituzione nel sangue di Gheddafi la vera forza dei mujaheddin della grande Africa dell'interno. Una verità che l'Amministrazione Obama ha pagato a caro prezzo con l'affaire Bengasi dell'11 settembre 2012, costato la vita all'ambasciatore Usa e la carriera a Hillary Clinton e al generale David Petraeus, il risolutore delle guerre in Iraq e Afghanistan.
Come se tutto questo non fosse mai esistito, il «molliccio» socialista Hollande avvia la guerra della Francia neo-postcoloniale in Mali sostenuto dalle sinistre di governo europee, dal Pd di Bersani, e dai governi di mezzo mondo. A fare che? Oltre alle stragi dei caccia Mirage, a supportare gli squadroni della morte locali. «Avete fatto prigionieri?» chiede a un capitano dell'esercito maliano il bravo inviato del Tg3 Riccardo Chartroux nella città riconquistata di Diabali. Risposta: «Prigionieri, quali prigionieri? Questa non è una guerra convenzionale, il nostro scopo è sterminare i jihadisti, ucciderli tutti senza pietà». Perché «non c'era altra soluzione» hanno ripetuto i governi europei. Come per la Libia, ora santuario jihadista della crisi maliana. Come per il prossimo intervento in Siria dove i jihadisti invece li sosteniamo, in armi, addestramento e fondi.
Insomma, non basta dichiarare in campagna elettorale che si vuole «tagliare» la spesa per gli F-35, se non si riflette su quanto sia stata ed è inutile e controproducente la scelta della guerra. Perché la guerra è alternativa ai processi democratici, a partire dal territorio. Negli spazi istituzionali del Belpaese il Pd che ricorda a chiacchiere Pio La Torre, non riflette infatti sull'effetto tragico prodotto dalle basi militari della Nato sul nostro territorio deprivato di protagonismo, sulla riduzione degli spazi democratici e di ogni potenzialità di fronte alla supremazia delle nuove armi tecnologiche che ormai presidiano le città e le campagne. Una sola domanda. Perché Bersani che «taglia» la spesa per gli F35, tace sulla scelta fatta in Sicilia dal presidente del Consiglio regionale Rosario Crocetta, del Pd, che annuncia la revoca alle autorizzazioni di cotruzione a Niscemi del Muos, il Sistema satellitare della Marina militare Usa?
Se si conferma la «vocazione» di guerra del territorio disseminato di basi e «servitù», e della sua subalternità ai ministeri della difesa di turno e ai patti militari internazionali antidemocratici, che senso ha «tagliare» i cacciabombardieri? Prima o poi la guerra arriva.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua