venerdì 25 gennaio 2013

La conferenza elettorale della Cgil di Giorgio Cremaschi



Non dovrà certo lamentarsi la segreteria della CGIL se l’informazione collocherà la sua conferenza programmatica nel contesto della campagna e dei messaggi elettorali. E neppure potrà sdegnarsi se il principale sindacato italiano verrà collocato e misurato nella geografia delle correnti del centrosinistra.
È questo il ruolo assegnato da Monti, l’ala sinistra Camusso Vendola da tagliare assieme a quella destra di Maroni e forse Berlusconi. I malumori delle correnti del PD sul rinnovo della foto di Vasto, con il segretario della CGIL al posto di Di Pietro, insomma il teatrino non sarà una distorsione, ma un inevitabile effetto della scelta compiuta.
La segreteria CGIL ha convocato la conferenza, anticipandone la data rispetto a quella prevista, proprio per avere la presenza esclusiva dei leaders del centrosinistra. Un ruolo centrale nella conferenza è riservato a Giuliano Amato, sì proprio il pensionato di platino riserva della presidenza della repubblica, autore nel ‘92 di un disastroso accordo sindacale che Trentin definì come un agguato prima di firmarlo e dimettersi.
La conferenza nasce dunque così, come il lancio nel mondo del lavoro della campagna elettorale di Bersani e Vendola e di quella presidenziale di Amato.
Il Piano del Lavoro, che richiama nel titolo quello rivendicato negli anni 50 dalla CGIL di Di Vittorio, con quel piano c’entra ben poco.
La proposta è costruita tenendo ben conto del programma elettorale di Italia Bene Comune e delle sue compatibilità. I patti europei, che sono alla base delle disastrose politiche di austerità e che il Pd conferma, vengono accettati. La proposta per il lavoro si basa su misure fiscali e interventi pubblici nell’abito delle compatibilità date. Siamo dunque di fronte a una sorta di grande emendamento alle politiche di rigore del governo Monti e della Unione Europea, che comunque vengono accettate nei loro principi di fondo.
Non può che essere così se si vuol far parte di uno schieramento politico: se ne accettano i capisaldi e si lavora nel territorio da essi delimitato per allargare lo spazio per i propri interessi. La segreteria della CGIL non chiede la cancellazione per nessuna delle controriforme del lavoro e delle pensioni di questi anni, solo qualche correzione e misure aggiuntive che però partono dalla accettazione di quanto sanzionato.
Anche la CISL fa la stessa cosa con Monti e la sua agenda, che in alcuni suoi punti è indigesta persino per gli stomaci di ferro dei dirigenti di quella organizzazione : si sostiene lo schieramento elettorale e si prova a condizionarlo dall’interno.
La domanda ingenua da porsi è dunque: come mai i gruppi dirigenti dei due principali sindacati italiani salgono in politica proprio nel momento di massima caduta del consenso dei cittadini verso di essa? Perché non contano più sulla forza e il valore dell’agire sociale, perché non spendono il proprio residuo consenso, non alto ma superiore a quello dei partiti, nel far pesare per via indipendente il lavoro massacrato dalla crisi?
Perché le sconfitte del lavoro di fronte alla crisi hanno prodotto nei gruppi dirigenti sindacali la paura di perdere tutto.
Il disastroso accordo del ‘92 che abbiamo ricordato segnò per il sindacato confederale l’avvio della stagione della concertazione. Durante essa il confronto di vertice tra governo e parti sociali amministrò le politiche liberiste sul lavoro e sullo stato sociale. Il risultato fu che i lavoratori peggioravano progressivamente le loro condizioni, ma il sindacato che amministrava questa ritirata acquisiva funzioni e potere.
Con la crisi economica questo sistema è saltato e il sindacato confederale ha visto arretrare progressivamente la propria posizione di potere, assieme al nuovo peggioramento delle condizioni dei propri rappresentati.
La Cisl ha pensato di reagire con l’aziendalismo. Ma nel chiuso della sua stanzetta anche Bonanni non può fare a meno di riconoscere che in Fiat la sua organizzazione conta meno dell’ultimo caporeparto.
La CGIL ha cercato disperatamente di riconquistare un tavolo vero di concertazione e su questo si è mobilitata. Ma non ci è riuscita e l’ultimo dei governi tecnici, a differenza dei predecessori Dini e Ciampi, si è dato merito di aver soppresso la concertazione.
Alla base del neo collateralismo dei gruppi dirigenti della CGIL e della CISL sta dunque la sconfitta nelle proprie strategie. E con essa la paura di perdere tutto, di diventare completamente marginali.
Certo si potrebbe partire da questa situazione per rinnovare completamente l’azione sindacale, riorganizzarsi attorno alla sofferenza delle persone in carne ed ossa, riconquistare e comunicare voglia di conflitto, cambiare strategia e pratica dopo più di venti anni di accettazione del liberismo e delle compatibilità. Ma questo non è nella natura di gruppi dirigenti e di una struttura di apparati che è stata così educata secondo un modello sindacale istituzionale e concertativo, da non saper che fare in un diverso contesto.
Nell’attuale collateralismo di CGIL e CISL c’è dunque uno spirito rassegnato e triste, rappresentato da un concetto più volte chiaramente espresso: con l’azione sindacale non ce la facciamo più, abbiamo bisogno di partiti e governi amici.
Chi non si rassegna al declino sindacale deve dunque seguire una via completamente diversa da quella indicata da questa triste conferenza. Per quel che ci riguarda cominciamo il primo febbraio a Milano ad organizzare l’opposizione CGIL, convinti che l’indipendenza del sindacato dai padroni, dai governi e dai partiti sia oggi necessaria e vitale come non mai.

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