Finalmente Monti è uscito al naturale e s'è rivelato per quel che è: il
rimpiazzo e l'erede di Berlusconi. Molto male ha fatto il Pd a non
accorgersene finora e a sostenere con così poche riserve il suo
governo. D'altro canto, avrebbe mai Berlusconi un successore
assolutamente altro da lui? In campagna elettorale, che un momento di
grandi menzogne ma anche di grandi sincerità, Monti, algido esponente
dell'ala "nobile" dell'imprenditoria nazionale, ha alfine confessato.
Non solo ha molto sinceramente ammesso che lui in passato votò
Berlusconi ma ha pure aggiunto che nel prossimo futuro, qualora
l'impresentabile Berlusconi uscisse di scena, lui sarebbe pronto ad
allearsi col Pdl.
Dal Pdl del resto provengono sia tanti candidati delle sue liste sia i suoi alleati Fini e Casini. È come dire che sì, uno che passa le serate con le «olgettine» è impresentabile - anche madre chiesa non è più disposta a sopportarlo - ma che i vari Formigoni, Verdini, Santanché, Ghedini, Polverini e compagnia cantando vanno benissimo.
Del tutto coerenti con questa rivelazione, che a guardare le politiche del governo Monti tanto rivelazione non è, sono gli attacchi grevi condotti da Monti stesso contro il maggior sindacato italiano e alfine direttamente contro il Pd. Per fortuna, Monti ha dissipato ogni dubbio e mostrato senza più ipocrisie quale partita si giochi alle prossime elezioni. È una partita che riguarda, fra l'altro, lo stesso regime democratico: non nascondendo il suo odio contro il sindacato, ma anche contro i partiti, Monti rivela una vena decisamente inquietante di salazarismo.
Il problema è che questa partita si sta giocando all'insaputa di uno dei suoi giocatori principali. Che Monti sia l'alternativa non a Berlusconi bensì al Pd stesso, quest'ultimo fatica a capirlo e alimenta la confusione. Le aperture a Monti dei suoi massimi esponenti - Bersani e D'Alema in testa - ne sono la ragione principale. Qualcuno s'è spinto sostenere che dopo le elezioni con Monti converrà allearsi anche se la maggioranza di centrosinistra fosse autosufficiente. Non solo, sappiamo tutti che nei ranghi del Pd si annida una robusta corrente filo-Monti, la quale non solo condivide le politiche da lui adottate ma vuole dar loro seguito.
Questa della destra (o del centrodestra) che si annida nel Pd per cavarne un po' di seggi e di prebende è un'antica questione, su cui il partito non è mai riuscito a far chiarezza. Eppure, sul piano elettorale mille indicatori mostrano l'irrilevanza di questo segmento di partito. Dove qualcuno, per fortuna, è stato un po' serio. Il professor Ichino ha fatto fagotto ed è trasmigrato dove più si sentiva a suo agio. Purtroppo ne restano tanti che dopo le elezioni, ove il Pd vincesse, inizieranno la partita dei ricatti.
C'è adesso da sperare, messe un po' in chiaro le cose da parte di Monti, che il Pd la smetta di sognare alleanze che nessuno desidera, tranne che al prezzo della sua sottomissione, e concentri la campagna elettorale sui temi che contano. Non è neanche una partita tanto complicata. L'Italia deve decidersi a un grande sforzo di riordinamento. Da vent'anni i conti pubblici fanno acqua, ma soprattutto da vent'anni l'economia non cresce.
Le ricette non sono tante e anzi sono riducibili a due. La prima prevede lo smantellamento del welfare, delle tutele sindacali, delle amministrazioni pubbliche, insieme alla desertificazione del Mezzogiorno e all'indifferenza per l'ambiente. La seconda è l'esatto contrario: prevede il rilancio della crescita attraverso l'innovazione, la scuola, la ricerca, implica la difesa del welfare universale, il risanamento ambientale, il riscatto del Mezzogiorno e via di seguito. Tertium non datur. Ovvero: qualsiasi soluzione intermedia sarebbe solo un maquillage della prima ricetta.
Bersani, finora, ha mostrato di preferire assai più la seconda che non la prima. Ma ha anche dato prova di molta cautela, accompagnata da un corteggiamento serrato (e un po' imbarazzante) a Monti, che pure, prima di respingerlo apertamente, l'aveva sempre trattato con molta degnazione. C'è da augurarsi che l'uscita di Monti al naturale spinga il segretario del Pd ad essere più chiaro, e più coraggioso, nelle sue posizioni.
Dal Pdl del resto provengono sia tanti candidati delle sue liste sia i suoi alleati Fini e Casini. È come dire che sì, uno che passa le serate con le «olgettine» è impresentabile - anche madre chiesa non è più disposta a sopportarlo - ma che i vari Formigoni, Verdini, Santanché, Ghedini, Polverini e compagnia cantando vanno benissimo.
Del tutto coerenti con questa rivelazione, che a guardare le politiche del governo Monti tanto rivelazione non è, sono gli attacchi grevi condotti da Monti stesso contro il maggior sindacato italiano e alfine direttamente contro il Pd. Per fortuna, Monti ha dissipato ogni dubbio e mostrato senza più ipocrisie quale partita si giochi alle prossime elezioni. È una partita che riguarda, fra l'altro, lo stesso regime democratico: non nascondendo il suo odio contro il sindacato, ma anche contro i partiti, Monti rivela una vena decisamente inquietante di salazarismo.
Il problema è che questa partita si sta giocando all'insaputa di uno dei suoi giocatori principali. Che Monti sia l'alternativa non a Berlusconi bensì al Pd stesso, quest'ultimo fatica a capirlo e alimenta la confusione. Le aperture a Monti dei suoi massimi esponenti - Bersani e D'Alema in testa - ne sono la ragione principale. Qualcuno s'è spinto sostenere che dopo le elezioni con Monti converrà allearsi anche se la maggioranza di centrosinistra fosse autosufficiente. Non solo, sappiamo tutti che nei ranghi del Pd si annida una robusta corrente filo-Monti, la quale non solo condivide le politiche da lui adottate ma vuole dar loro seguito.
Questa della destra (o del centrodestra) che si annida nel Pd per cavarne un po' di seggi e di prebende è un'antica questione, su cui il partito non è mai riuscito a far chiarezza. Eppure, sul piano elettorale mille indicatori mostrano l'irrilevanza di questo segmento di partito. Dove qualcuno, per fortuna, è stato un po' serio. Il professor Ichino ha fatto fagotto ed è trasmigrato dove più si sentiva a suo agio. Purtroppo ne restano tanti che dopo le elezioni, ove il Pd vincesse, inizieranno la partita dei ricatti.
C'è adesso da sperare, messe un po' in chiaro le cose da parte di Monti, che il Pd la smetta di sognare alleanze che nessuno desidera, tranne che al prezzo della sua sottomissione, e concentri la campagna elettorale sui temi che contano. Non è neanche una partita tanto complicata. L'Italia deve decidersi a un grande sforzo di riordinamento. Da vent'anni i conti pubblici fanno acqua, ma soprattutto da vent'anni l'economia non cresce.
Le ricette non sono tante e anzi sono riducibili a due. La prima prevede lo smantellamento del welfare, delle tutele sindacali, delle amministrazioni pubbliche, insieme alla desertificazione del Mezzogiorno e all'indifferenza per l'ambiente. La seconda è l'esatto contrario: prevede il rilancio della crescita attraverso l'innovazione, la scuola, la ricerca, implica la difesa del welfare universale, il risanamento ambientale, il riscatto del Mezzogiorno e via di seguito. Tertium non datur. Ovvero: qualsiasi soluzione intermedia sarebbe solo un maquillage della prima ricetta.
Bersani, finora, ha mostrato di preferire assai più la seconda che non la prima. Ma ha anche dato prova di molta cautela, accompagnata da un corteggiamento serrato (e un po' imbarazzante) a Monti, che pure, prima di respingerlo apertamente, l'aveva sempre trattato con molta degnazione. C'è da augurarsi che l'uscita di Monti al naturale spinga il segretario del Pd ad essere più chiaro, e più coraggioso, nelle sue posizioni.
di Alfio Mastropaolo, Il Manifesto
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