«Roma
ha accumulato 22 miliardi di euro di deficit ed è una città
praticamente fallita. Alessandria è stata dichiarata in default per un
debito di 200 milioni. Parma ha un buco di bilancio di 850 milioni.
Napoli è in stato di pre-dissesto. L’Aquila è ancora un cumulo di
macerie, perché la ricostruzione non ha finanziamenti adeguati. Sono 180
i comuni italiani commissariati per fallimento economico». Basta un
breve elenco per afferrare il perché del titolo dell’ultimo libro di
Paolo Berdini, urbanista, ingegnere e scrittore, da tempo impegnato
contro il consumo del suolo italiano, autore de Le città fallite, edito da Donzelli (2014).
«Le città, purtroppo e per fortuna, non sono equazioni matematiche,
dove è sufficiente far quadrare una formula per risanare i bilanci. Le
città sono, prima di tutto, luoghi ed esistenze». Così, attraverso
un’accurata parabola storica, Berdini ricostruisce l'involuzione delle
metropoli italiane, dall'avvento di Tangentopoli al recente Sblocca
Italia fino allo scempio delle grandi opere contemporanee, raccontando
come la città, vittima di una scellerata deregolamentazione, si sia
trasformata gradualmente in un conto economico, o peggio, un’impresa,
dove basta licenziare gli elementi disturbatori per risolvere il
problema.
«Le città del neoliberismo diventano sempre più grandi e più
ingiuste, perché l’economia dominante ha smesso di investire sulle città
e sui territori» che, perdendo ogni connotazione sociale, si mutano in
luoghi sempre più simili a campi neutrali dove far circolare flussi di
denaro, «esclusivi oggetti economici dominati da flussi di investimento
che prescindono dalle specificità dei luoghi e dai bisogni della
popolazione».
La decisione di innalzare nuovi immobili, invece di rimettere sul
mercato quelli già esistenti, ha fatto dell’Italia un paese con un
gigantesco cartello vendesi e quasi 7 milioni di alloggi disabitati a
carico. Il costo delle abitazioni in centro ha costretto famiglie e
lavoratori a spostarsi nelle aree della periferia, obbligandole a un
regime di pendolarismo quotidiano, ore «sottratte alla vita di relazione
e all’arricchimento culturale». In virtù di arbitrarie
liberalizzazioni, «le vetrine della città si spengono, mentre si
inaugurano centri commerciali sempre più grandi». Un fenomeno che esalta
i non-luoghi del consumismo più svogliato e porta alla morte del
tessuto commerciale urbano e locale, quello dei negozi a conduzione
familiare, delle botteghe, dei piccoli rivenditori al dettaglio, nonché
all’impossibilità dell’indipendenza per chi è sprovvisto di auto, come
anziani o studenti fuorisede. «Ciascuno è solo e non c’è più da fare
affidamento sulla rete della solidarietà urbana».
Non solo. Basta visitare il centro storico di Venezia o Firenze per
ritrovarsi di fronte a scenografie inerti del turismo di massa. E la
situazione peggiora, se possibile, a Roma. La capitale italiana, fallita
dal mese di aprile 2014, è stata dichiarata una bad company.
Affidata nelle mani di Alemanno, nella nuova forma di Roma Capitale, poi
passata sotto l’egida di Marino, ha dovuto pagare il debito, con una
parziale svendita dei trasporti, l’eliminazione di numerose linee di
collegamento e, soprattutto, una speculazione urbanistica senza
controllo.
E se le città falliscono, non se la passano meglio i centri già
angustiati da vere e proprie catastrofi ambientali: Marghera, Falconara,
Taranto, in ultimo, Casale Monferrato, vittima della tragedia
dell’eternit i cui responsabili sono stati assolti per caduta in
prescrizione dei termini lo scorso novembre, una cittadina per la quale
non sono stati trovati 18 milioni per procedere alla bonifica dei
territori interessati. Eppure, mancano davvero 18 milioni o sono stati
dirottati altrove? In fondo, come ricorda Berdini, «i diciotto milioni
indispensabili alla popolazione di Casale rappresentano forse l’incasso
delle tangenti per le più modeste pedine del sistema di potere creato
dall’ingegner Giovanni Mazzacurati nella costruzione del Mose di
Venezia». Tutto seguendo una logica mafiosa di «privatizzazione
dell’allocazione delle risorse». Pubbliche. Dal Mose alla linea C della
metropolitana di Roma, alla TAV in Val di Susa alle sconsiderate colate
di cemento riversate in tutta Italia. In ultimo, il grosso errore di
lasciare che Milano ospitasse Expo 2015, un grande evento come le
Olimpiadi invernali che hanno lasciato un buco di circa 3 miliardi di
euro nelle casse torinesi, che, a dispetto del “genio italico” così
brillantemente evocato, si presenta con un biglietto da visita che sarà
anche “very bello” ma discutibile, con promesse di posti di lavoro
finite nel solito ricatto occupazionale dell’esperienza e del
volontariato coatto, con l’abituale malaffare e l’ombra della mafia.
Questi sono solo gli esempi più lampanti e illustrano perfettamente
le conseguenze dell’intuizione sbagliata d’aver puntato tutto sulla
cementificazione. La supremazia della cultura del fare è stata,
tuttavia, accompagnata da consensi diffusi, sin dal 1994, per cause
imputabili non solo al controllo dell’informazione o a una politica
succube. Si spiega così l’affermazione della casta dei proprietari
d’alloggi: in Italia, non si direbbe, sono l’80% della popolazione
totale, contro il 55% della Germania e il 42% della Francia. Il culto
della rendita e della proprietà ha favorito la cancellazione delle leggi
a tutela dell’ambiente e del paesaggio e l’approvazione acritica di
ogni condono edilizio. Slogan moralisti e politiche bigotte e
conservatrici hanno spacciato la casa come il pilastro su cui fondare la
società, facendo passare in secondo piano i tagli delle pensioni, i
licenziamenti, il contenimento degli stipendi e la precarizzazione del
lavoro. Per finanziare l’urbanistica liberista dell’ultimo decennio,
comuni e regioni hanno dovuto subire sempre più tagli. Intere province
sono state messe in ginocchio dalla finanza internazionale e costrette a
indebitarsi per sostenere la speculazione edilizia, segnando la
definitiva svendita del patrimonio immobiliare e la cancellazione del
welfare urbano, importante conquista dello scorso secolo.
Secondo Berdini, si viaggia verso una prospettiva insostenibile.
Entro il 2020 circa l’80% della popolazione degli Stati membri della
Comunità Europea vivrà in un ambiente urbano: la sfida per il
miglioramento delle condizioni di vita passa quindi necessariamente
dalle città, ma anche dalle periferie, che in Italia sono tra le più
brutte e disorganizzate d’Europa: “abbiamo il più basso livello di
infrastrutture su ferro, il più alto numero di automobili per abitante,
con il più elevato livello di superficie urbanizzata a parità di
popolazione, e cioè un consumo di suolo senza uguali nei paesi a
economia forte. Un’immensa «non città», anonima e disordinata. Una
frammentazione che genera consumi energetici insostenibili, disfunzioni
economiche e scarsa qualità della vita”.
Avvalendosi dei pareri illustri di Paolo Maddalena e Salvatore
Settis, Berdini indica alcune linee guida per l’urbanistica del futuro:
la cosiddetta “moratoria del cemento”, cioè bloccare l’espansione e
dedicarsi a ripensare quanto è già stato costruito; ancora, la
“costruzione intelligente”, che riesca a conciliare alloggio e mezzi di
trasporto, «perché i cittadini hanno il diritto, come in ogni paese
europeo, di vivere in modo civile e non essere costretti a passare molte
ore al giorno in spostamenti in automobile»; l’aggiornamento dei
sistemi di smaltimento dei rifiuti urbani; in ultimo, il coinvolgimento
della popolazione, come avviene nelle recenti esperienze di
rigenerazione urbana.
La crisi delle città ha, infatti, avuto la conseguenza positiva di
risvegliare le coscienze cittadine e fomentare una certa partecipazione
popolare che, rivendicando il diritto alla resistenza, si è impadronita
delle tematiche urbane e ha cercato di proporre e, nella migliore delle
ipotesi, attuare una soluzione. La presenza di comitati e “comitatini”
cittadini, come ama definirli l’attuale premier, rappresenta una
concreta via d’uscita all’urbanistica soffocante e imposta dall’alto,
nonostante ci sia chi, dai piani alti, cerchi di scoraggiare anche le
prese di posizione della società civile. Un esempio è il Nimby Forum, un
sito istituzionale patrocinato dalla Presidenza del Consiglio dei
Ministri, che si presenta come un “progetto di ricerca sul fenomeno
delle contestazioni territoriali ambientali”, con l’obiettivo di
“analizzare la sindrome NIMBY” e demolire le argomentazioni di chi si batte contro gasdotti, termovalorizzatori e centrali a biomasse.
Come ha dichiarato Berdini in una recente intervista, «assistiamo
ogni giorno ad una vera istigazione alla felicità, anche per cose
futili. Dal fustino di detersivo fino ai biscotti delle nostre
frettolose colazioni mattutine, non c’è prodotto merceologico che non
venga veicolato senza far ricorso ad una promessa di straordinario
benessere. Insomma siamo in una bolla mediatica che ci impone felicità
ad ogni angolo e quando le popolazioni locali si oppongono ad
un’autostrada che passa a dieci metri dalle loro finestre o un
inceneritore che li riempirà di veleni, vengono bollati di egoismo. E
invece no, applicano il principio di felicità o almeno di minore
infelicità e questo deve essere rispettato, non demonizzato».
La consapevolezza dello spazio urbano e la sua conseguente
riappropriazione, da parte della società civile, sembrano quindi essere
il punto di partenza perché le città tornino a essere «i luoghi adatti a
consentire l’evoluzione culturale e spirituale delle popolazioni», la
scenografia ideale dove continuare a esercitare il diritto alla
resistenza e tornare a guardare il futuro.
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