Il 24 maggio dovrebbe essere decretato giorno di
lutto nazionale per rispetto di un’ intera generazione di giovani che
sono stati stati trucidati senza sapere bene il perché nelle nevi delle
Alpi, nelle pietre del Carso e nella pianura del Piave.
I
popoli che uscirono da anni di Grande Massacro furono i veri sconfitti,
tutti. Per quello italiano la disfatta fu feroce per i morti in
battaglia, la prigionia, le malattie, la vita tremenda delle donne e dei
bambini, la fame, l’esodo, il saccheggio e gli stupri dopo Caporetto,
le fucilazioni e le decimazioni.
I MORTI
Su un totale di 63 milioni di uomini mobilitati, 8 milioni e mezzo
furono i soldati morti. I civili furono circa un milione. Il contributo
di sangue dell’Italia in 3 anni di guerra fu di quasi 700.000 soldati
morti – ma non esiste una contabilità precisa- e oltre un milione e
mezzo di mutilati e feriti. Centinaia di morti quindi per ogni giorno di
guerra. Un’intera generazione fu distrutta. L’impatto sulle comunità
locali fu devastante sconvolgendo le famiglie e la demografia stessa. La
battaglia di Gorizia, un massacro particolarmente assurdo in una guerra
assurda, può essere considerata il simbolo di quanto accadde. La
battaglia avvenne fra il 9 e il 10 agosto 1916: in poche ore costò la
vita a 1.759 ufficiali e 50.000 soldati italiani e a 862 ufficiali e
40.000 soldati austriaci. La canzone «Gorizia tu sei maledetta»
venne cantata per la prima volta da fanti che entrarono in città dopo
l’immenso prezzo di sangue. Esprimeva un forte sentimento
antimilitarista: chi veniva sorpreso a cantarla rischiava la
fucilazione. Eccone alcuni versi.
O Gorizia tu sei maledetta per ogni cuore che sente coscienza dolorosa ci la partenza e il ritorno per molti non fu.
PRIGIONIA
Una delle pagine meno conosciute del Grande Massacro riguarda i
prigionieri italiani, le cui sofferenze furono e sono un’infamia per
l’Italia. Gabriele D’Annunzio li chiamò con una frase oltraggiosa: «Imboscati d’Oltralpe».
Nei campi di prigionia finirono circa 600.000 italiani, la metà dei
quali catturati dopo Caporetto. Ne morirono 100mila ma anche in questo
caso la contabilità è approssimativa. Le cause delle morti furono la
fame, il freddo e le malattie, principalmente la tubercolosi. I campi di
prigionia furono Mathauesen Sigmundsheberg, Theresiendat, Rastat e
Celle. In questi due ultimi visse lo scrittore Carlo Emilio Gadda che
raccontò la sua esperienza nel «Giornale di guerra e prigionia» e in «Taccuino di Caporetto»,
descrivendo la fame, le condizioni terribili dei prigionieri, la
tubercolosi, la morte di tanti. Va detto che Gadda era uno dei 20.000
ufficiali che potevano godere di condizioni più accettabili, con
maggiori possibilità di sopravvivenza. La condizione di prigioniero di
guerra era giudicata da Cadorna e dai vertici militari un fatto negativo
se non una scelta voluta. E il successore di Cadorna – Armando Diaz –
non mutò opinione. In pratica i Comandi Supremi assimilarono di fatto i
prigionieri con i disertori e con l’ accordo del governo fecero mancare
qualsiasi aiuto, sabotando anche le iniziative della Croce Rossa.
MALATTIE
Mi sono accoccolato vicino ai miei panni sudici di guerra (da
«I fiumi» di Giuseppe Ungaretti)
Il Grande Massacro fu innanzitutto una guerra di trincea. Vere e
proprie ecatombi a cielo aperto che si ricorrevano per centinaia di
chilometri, tane dove i soldati vissero per 4 anni ammassati uno addosso
agli altri. Oltre la guerra poco distante, uomini con diverse uniformi
dovevano combattere fame e sete, pioggia e melma, la pazzia sempre in
agguato, topi, cimici e scarafaggi. Alcuni erano presi da cancrene che
mangiavano i corpi. La trincea produceva malattie e poi epidemie che
colpivano sia i militari che i civili. Poi arrivò la “spagnola” che nel
1918 fece strage su una popolazione indebolita ma già dal 1915 si erano
diffusi tifo, polmoniti, febbri ed altro.
FAME
A Valdobbiadene, cittadina della Marca trevigiana, in una lapide che ricorda il tributo di sangue si può leggere: «Cittadini uccisi da proiettili n. 51 – Cittadini morti per fame n. 484».
Da
dati ufficiali sappiamo che i soldati di Valdobbiadene morti in
combattimento furono 214 e durante l’esodo per cause varie, malattie in
genere altri 129. I numeri quindi dicono che la causa maggiore di morte
fu la mancanza di cibo. La fame durante il Grande Massacro è raccontata
in dettaglio da Francesco Jori nel libro «Ne uccise più la fame. La
Guerra della gente comune nel Triveneto».
DONNE E BAMBINI
La guerra sconvolse anche la vita delle donne che pagarono un alto
prezzo durante il Grande Massacro. Dovettero rimpiazzare in molte
funzioni gli uomini partiti per il fronte, soprattutto operaie nelle
fabbriche a produrre per lo più materiali bellici. Ma andarono anche al
fronte come crocerossine o portatrici. Nelle retrovie furono prostitute
per “consolare” i combattenti. Dopo Caporetto furono profughe. Vale la
pena sottolineare la vicenda delle donne italiane internate in quel
periodo. Fra le migliaia di civili e italiani internati, soprattutto nel
Sud, dall’esercito italiano durante il Grande Massacro molte furono le
donne. Come gli uomini, furono accusate di spionaggio o di sentimenti
anti-patriottici. Dopo la prima fase della guerra – caratterizzata da un
gran numero di internamenti femminili, soprattutto nei territori
occupati dall’esercito italiano – la caccia al “nemico interno” crebbe
durante il periodo 1917-1918, al fine di garantire la sicurezza di
fronte a un gran numero di donne sospettate e internate come spie
nemiche pur senza indizi di colpevolezza. E analizzando le cause di
internamento femminile troviamo innanzitutto stereotipi anti-femminili.
Le memorie di un maestra di Grado, Antonia Fonzari, hanno il titolo «Ricordi amari».
Bambini e ragazzi (cioè sotto i 14 anni) erano allora 12 milioni:
vissero la guerra come figlie e figli, sorelle e fratelli di quei
soldati che combattevano. Soffrirono il Grande Massacro in tutte le
situazioni: famiglia, scuola e luoghi di lavoro. Fra i civili che
morirono durante il Grande Massacro vi sono anche molti bambini.
DOPO CAPORETTO, ESODO, SACCHEGGIO E STUPRI
La sconfitta di Caporetto fu un disastro che ancora richiede
giustizia storica. La causa fu l’incapacità militare dei generali dello
Stato Maggiore che sacrificarono decine di migliaia di uomini che poi
accusarono di essere vigliacchi. Ma non solo. Oltre l’interpretazione
militare ufficiale (che tralascio) vi fu una “versione” politica. Come
scrisse il comunista Emilio Greco nella rivista «Stato Operaio», alcuni
anni dopo: «Caporetto fu una rivolta disperata e senza meta…
Si ripete comunemente che fu una sconfitta militare. Ma questa
interpretazione è semplicistica: Caporetto è stata un’insurrezione del
popolo che non riuscì di raggiungere e spezzare lo stato». In
Russia con un partito bolscevico, comunista, il rifiuto di massa del
Grande Massacro divenne rivoluzione. Indubbiamente dietro il disastro di
Caporetto vi furono entrambi i fattori: incapacità militare dell’Alto
Comando e rigetto collettivo dei soldati a farsi assurdamente uccidere.
Dopo la rotta di Caporetto circa 600.000 civili – provenienti
prevalentemente dalle provincie di Treviso, Venezia e Udine – furono
costretti ad abbandonare improvvisamente il territorio invaso o
minacciato da vicino dall’esercito austro-ungarico dando vita alla più
grande tragedia civile collettiva che interessò la popolazione durante
il Grande Massacro. Fu “la Caporetto delle famiglie”. Ci furono
ovviamente atti di vandalismo e la devastazione aumentò a causa dei
saccheggi perpetrati dai soldati di von Below, che entrarono vincitori
in città e paesi presentandosi talora con il volto più crudele e
violento dei saccheggiatori.
Il sito «Vecchia Conegliano e dintorni» racconta l’occupazione di Castel Roganzuolo, una frazione del comune di San Fior in provincia di Treviso: «I soldati germanici e austro-ungarici non si accontentavano di dare sfogo alla fame repressa: uccidevano il bestiame, ne consumavano una parte e lasciavano l’altra marcire nella strada; gettavano il grano sotto le zampe dei cavalli; si ubriacavano direttamente alle botti e non si davano nemmeno il disturbo di tapparle dopo essersene serviti, sicché il vino scorreva per le cantine. Il saccheggio metodico non lasciò intatta alcuna casa e la popolazione venne ridotta alla fame. Si racconta che in certi paesi la gente raccattava perfino gli escrementi dei cavalli, nella affannosa ricerca di qualche chicco di granoturco per sfamarsi. I pochi beni e la vita stessa degli abitanti erano quotidianamente appesi ad un esile filo. Ogni notte c’era il rischio che un gruppo di soldati penetrasse a forza in casa: alla ricerca di cibo o per violentare le donne che vi abitavano. Oltre allo stupro notturno, le donne erano spesso oggetto di forme di violenza più “meditate”. Povere madri, spesso profughe, che si recavano presso qualche comando locale allo scopo di ottenere un lasciapassare o una tessera annonaria, venivano costrette dagli ufficiali a subire lo sfogo delle loro basse passioni per ottenere ciò di cui avevano assoluto bisogno».
Il sito «Vecchia Conegliano e dintorni» racconta l’occupazione di Castel Roganzuolo, una frazione del comune di San Fior in provincia di Treviso: «I soldati germanici e austro-ungarici non si accontentavano di dare sfogo alla fame repressa: uccidevano il bestiame, ne consumavano una parte e lasciavano l’altra marcire nella strada; gettavano il grano sotto le zampe dei cavalli; si ubriacavano direttamente alle botti e non si davano nemmeno il disturbo di tapparle dopo essersene serviti, sicché il vino scorreva per le cantine. Il saccheggio metodico non lasciò intatta alcuna casa e la popolazione venne ridotta alla fame. Si racconta che in certi paesi la gente raccattava perfino gli escrementi dei cavalli, nella affannosa ricerca di qualche chicco di granoturco per sfamarsi. I pochi beni e la vita stessa degli abitanti erano quotidianamente appesi ad un esile filo. Ogni notte c’era il rischio che un gruppo di soldati penetrasse a forza in casa: alla ricerca di cibo o per violentare le donne che vi abitavano. Oltre allo stupro notturno, le donne erano spesso oggetto di forme di violenza più “meditate”. Povere madri, spesso profughe, che si recavano presso qualche comando locale allo scopo di ottenere un lasciapassare o una tessera annonaria, venivano costrette dagli ufficiali a subire lo sfogo delle loro basse passioni per ottenere ciò di cui avevano assoluto bisogno».
Lo «stupro del Belgio» fu all’inizio uno slogan per raccontare
l’invasione tedesca, nel 1914, di quel Paese neutrale ma le atrocità –
compresi gli stupri commessi dall’esercito del Kaiser – gli hanno dato
un significato letterale, reale. Dopo Caporetto anche le donne dei
territori invasi dagli austroungarici divennero bottino di guerra; come
del resto accade per tutti gli eserciti vittoriosi. Ecco una fonte
d’informazione diciamo “ufficiale”: si formò in Italia, dopo il Grande
Massacro, una Commissione d’inchiesta sui crimini compiuti dall’invasore
dopo Caporetto. I suoi lavori si conclusero con la pubblicazione del
volume «Il martirio delle terre invase», nel quale si parlava
anche dei numerosi stupri subiti da donne italiane. In seguito, la
“Reale Commissione d’Inchiesta” pubblicò ben sette volumi fra il 1920 e
il 1921: si tratta delle «Relazioni della Reale Commissione d’inchiesta
sulle violazioni dei diritti delle genti commesse dal nemico». Il IV
volume dedicava un intero capitolo alla ricostruzione delle violenze
carnali inflitte a donne italiane da parte dei militari dell’esercito
austroungarico: si tratta del capitolo “Delitti contro l’onore femminile.” L’argomento era ripreso nel VI volume, al cui interno si riportavano documenti, testimonianze, aneddoti.
I soli casi accertati di stupro da parte degli invasori furono 735 ma la relazione medesima ammetteva che ve ne erano stati moltissimi altri che erano “sfuggiti” anzitutto per vergogna delle vittime e delle loro famiglie.
Gli stupri erano sovente accompagnati da violenze d’altro tipo. Spesso i mariti o i padri vennero assassinati durante le aggressioni sessuali, specie se cercavano di difendere le donne ma perfino in assenza di reazione. In altri casi furono le donne a venire uccise dopo lo stupro: 53 subito dopo, mentre altre 40 morirono giorni od anche mesi dopo, in conseguenza delle violenze. Molte altre furono contagiate da malattie veneree. Le violenze avvenivano abitualmente a mano armata e in gruppo e riguardarono donne d’ogni età: dalle bambine sino a vecchie ottuagenarie. Sovente le madri furono violentate davanti ai propri figli.
I soli casi accertati di stupro da parte degli invasori furono 735 ma la relazione medesima ammetteva che ve ne erano stati moltissimi altri che erano “sfuggiti” anzitutto per vergogna delle vittime e delle loro famiglie.
Gli stupri erano sovente accompagnati da violenze d’altro tipo. Spesso i mariti o i padri vennero assassinati durante le aggressioni sessuali, specie se cercavano di difendere le donne ma perfino in assenza di reazione. In altri casi furono le donne a venire uccise dopo lo stupro: 53 subito dopo, mentre altre 40 morirono giorni od anche mesi dopo, in conseguenza delle violenze. Molte altre furono contagiate da malattie veneree. Le violenze avvenivano abitualmente a mano armata e in gruppo e riguardarono donne d’ogni età: dalle bambine sino a vecchie ottuagenarie. Sovente le madri furono violentate davanti ai propri figli.
Vale la pena segnalare il lavoro di Michele Strazza «Senza via di
scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali» del Consiglio Regionale della
Basilicata 2010 (200 pagine) [http://www.ildialogo.org/Allegati/Stupri_di_Guerra.pdf] che esamina anche il tema delle violenze sessuali compiute da militari austro-ungarici.
FUCILAZIONI E DECIMAZIONI
La rivolta dei fanti della brigata Catanzaro a Santa Maria la Longa
(importante base logistica del III Corpo d’Armata) a metà luglio del
1917 fu probabilmente l’episodio più noto e significativo di rifiuto
collettivo della guerra verificatosi nell’esercito italiano durante il
Grande Massacro. Era domenica e nei baraccamenti posti nelle immediate
vicinanze del paese friulano stavano trascorrendo un periodo di riposo i
fanti della “Brigata Catanzaro”, costituita dal 141° e 142° Reggimento
Fanteria. I soldati erano sfiniti per il lungo tempo trascorso in prima
linea e era previsto – e promesso – per loro un periodo di riposo nelle
retrovie. Ma un fonogramma, giunto nella tarda serata, richiamò in
trincea la Brigata. Esplose una protesta anche violenta. Si sparò e si
lanciarono bombe a mano. Si presero di mira le baracche degli ufficiali e
anche chi tenta di fare da paciere. Alcuni militari si portano nei
pressi dell’abitazione del conte di Colloredo Mels, dove si pensa
risieda il “poeta-soldato” Gabriele D’Annunzio, sparando colpi di fucile
all’indirizzo dell’abitazione. Vi furono morti e feriti. La rivolta
proseguì per quasi tutta la notte fino all’arrivo di una Compagnia di
Carabinieri: quattro auto mitragliatrici, due auto cannoni e reparti
della cavalleria. Sedata la ribellione, il Comandante della Brigata
ordinò immediatamente la fucilazione di quattro soldati, scoperti in
mano armi con le canne dei fucili ancora calde. Avvenne poi la
decimazione del resto della Compagnia. All’alba del 16 luglio, oltre i 4
già fucilati, vennero decimati altri 12 (ufficialmente ma è probabile
fossero di più) passati per le armi a ridosso del muro di cinta del
cimitero di Santa Cecilia e posti in una fossa comune.
COME TERMINÒ IL GRANDE MASSACRO
Il 4 novembre 1918 sancì ufficialmente la vittoria di alcuni eserciti
su altri. Il giorno prima a villa Giusti, a Padova, era stata firmato
l’armistizio fra l’Italia e i suoi alleati con l’impero austro-ungarico.
Va sottolineato che la cosiddetta riscossa di Vittorio Veneto esistette
solo sulla carta in quanto non ci fu nessun assalto, nessuno
sfondamento. L’esercito italiano avanzò perché quello austriaco si stava
ritirando, impossibilitato a continuare una guerra irrimediabilmente
perduta. Il generale Armando Diaz informato di un’avanzata che non aveva
né previsto – né ordinato e neppure sapeva come si stava sviluppando –
dovette esaminare le carte geografiche per sapere dov’era Vittorio
Veneto. Ferruccio Parri, allora ufficiale nell’Alto Comando testimoniò
che Diaz esclamò in dialetto napoletano: «Addò sta stu cazzo ‘e Vittorio Veneto?».
E OGGI?
Il centenario del Grande Massacro deve essere un’occasione per fare i
conti con queste pagine dolorose della storia nazionale, sopra
descritte e che non a caso sono state, in parte rimosse dalla memoria e
dalla coscienza collettiva. Per esempio riabilitare la memoria dei
soldati fucilati e decimati durante il grande massacro 15-18 è un’
azione etica per un centenario che, altrimenti, rischia di essere solo
retorico o, peggio, indirizzato al turismo sui luoghi della tragedia. In
Italia c’ è un vento nuovo che spira verso la riabilitazione. Non sono più i
tempi della lettera ai cappellani militari di don Lorenzo Milani,
condannata per vilipendio. La sentenza toccò solo il direttore di
Rinascita che l’aveva pubblicata, perché Don Milani morì prima.
Le iniziative in corso sono varie.
Alle 19 del 21 maggio (a ridosso della data del 24 maggio) la Camera
ha votato, approvandola, la Proposta di Legge Scanu per la
riabilitazione dei militari fucilati nella Prima Guerra. Adesso dovrà
andare in Senato. Un altro passo avanti è fatto, anche se il testo della
legge, probabilmente ha un limite. prevede la riabilitazione per quei
fucilati con una chiara traccia, la sentenza di un tribunale militare,
trascurando coloro che furono giustiziati con decisioni sommarie.
Inoltre sarebbe opportuno che contemporaneamente a queste
azioni, ve ne fosse una per la condanna ufficiale di coloro che sono
stati responsabili di questi assassinii: il generale Cadorna, Graziani
ed altri.
da www.pressenza.com
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