domenica 24 maggio 2015

24 maggio 1914. "O Gorizia tu sei maledetta"

24 maggio 1914. "O Gorizia tu sei maledetta"
Il 24 maggio dovrebbe essere decretato giorno di lutto nazionale per rispetto di un’ intera generazione di giovani che sono stati stati trucidati senza sapere bene il perché nelle nevi delle Alpi, nelle pietre del Carso e nella pianura del Piave. 
I popoli che uscirono da anni di Grande Massacro furono i veri sconfitti, tutti. Per quello italiano la disfatta fu feroce per i morti in battaglia, la prigionia, le malattie, la vita tremenda delle donne e dei bambini, la fame, l’esodo, il saccheggio e gli stupri dopo Caporetto, le fucilazioni e le decimazioni.
I MORTI
Su un totale di 63 milioni di uomini mobilitati, 8 milioni e mezzo furono i soldati morti. I civili furono circa un milione. Il contributo di sangue dell’Italia in 3 anni di guerra fu di quasi 700.000 soldati morti – ma non esiste una contabilità precisa- e oltre un milione e mezzo di mutilati e feriti. Centinaia di morti quindi per ogni giorno di guerra. Un’intera generazione fu distrutta. L’impatto sulle comunità locali fu devastante sconvolgendo le famiglie e la demografia stessa. La battaglia di Gorizia, un massacro particolarmente assurdo in una guerra assurda, può essere considerata il simbolo di quanto accadde. La battaglia avvenne fra il 9 e il 10 agosto 1916: in poche ore costò la vita a 1.759 ufficiali e 50.000 soldati italiani e a 862 ufficiali e 40.000 soldati austriaci. La canzone «Gorizia tu sei maledetta» venne cantata per la prima volta da fanti che entrarono in città dopo l’immenso prezzo di sangue. Esprimeva un forte sentimento antimilitarista: chi veniva sorpreso a cantarla rischiava la fucilazione. Eccone alcuni versi.
O Gorizia tu sei maledetta per ogni cuore che sente coscienza dolorosa ci la partenza e il ritorno per molti non fu.
PRIGIONIA
Una delle pagine meno conosciute del Grande Massacro riguarda i prigionieri italiani, le cui sofferenze furono e sono un’infamia per l’Italia. Gabriele D’Annunzio li chiamò con una frase oltraggiosa: «Imboscati d’Oltralpe». Nei campi di prigionia finirono circa 600.000 italiani, la metà dei quali catturati dopo Caporetto. Ne morirono 100mila ma anche in questo caso la contabilità è approssimativa. Le cause delle morti furono la fame, il freddo e le malattie, principalmente la tubercolosi. I campi di prigionia furono Mathauesen Sigmundsheberg, Theresiendat, Rastat e Celle. In questi due ultimi visse lo scrittore Carlo Emilio Gadda che raccontò la sua esperienza nel «Giornale di guerra e prigionia» e in «Taccuino di Caporetto», descrivendo la fame, le condizioni terribili dei prigionieri, la tubercolosi, la morte di tanti. Va detto che Gadda era uno dei 20.000 ufficiali che potevano godere di condizioni più accettabili, con maggiori possibilità di sopravvivenza. La condizione di prigioniero di guerra era giudicata da Cadorna e dai vertici militari un fatto negativo se non una scelta voluta. E il successore di Cadorna – Armando Diaz – non mutò opinione. In pratica i Comandi Supremi assimilarono di fatto i prigionieri con i disertori e con l’ accordo del governo fecero mancare qualsiasi aiuto, sabotando anche le iniziative della Croce Rossa.
MALATTIE
 
Mi sono accoccolato vicino ai miei panni sudici di guerra (da «I fiumi» di Giuseppe Ungaretti)                                                                                                    
 Il Grande Massacro fu innanzitutto una guerra di trincea. Vere e proprie ecatombi a cielo aperto che si ricorrevano per centinaia di chilometri, tane dove i soldati vissero per 4 anni ammassati uno addosso agli altri. Oltre la guerra poco distante, uomini con diverse uniformi dovevano combattere fame e sete, pioggia e melma, la pazzia sempre in agguato, topi, cimici e scarafaggi. Alcuni erano presi da cancrene che mangiavano i corpi. La trincea produceva malattie e poi epidemie che colpivano sia i militari che i civili. Poi arrivò la “spagnola” che nel 1918 fece strage su una popolazione indebolita ma già dal 1915 si erano diffusi tifo, polmoniti, febbri ed altro.
FAME
A Valdobbiadene, cittadina della Marca trevigiana, in una lapide che ricorda il tributo di sangue si può leggere: «Cittadini uccisi da proiettili n. 51 – Cittadini morti per fame n. 484».  
Da dati ufficiali sappiamo che i soldati di Valdobbiadene morti in combattimento furono 214 e durante l’esodo per cause varie, malattie in genere altri 129. I numeri quindi dicono che la causa maggiore di morte fu la mancanza di cibo. La fame durante il Grande Massacro è raccontata in dettaglio da Francesco Jori nel libro «Ne uccise più la fame. La Guerra della gente comune nel Triveneto».
DONNE E BAMBINI
La guerra sconvolse anche la vita delle donne che pagarono un alto prezzo durante il Grande Massacro. Dovettero rimpiazzare in molte funzioni gli uomini partiti per il fronte, soprattutto operaie nelle fabbriche a produrre per lo più materiali bellici. Ma andarono anche al fronte come crocerossine o portatrici. Nelle retrovie furono prostitute per “consolare” i combattenti. Dopo Caporetto furono profughe. Vale la pena sottolineare la vicenda delle donne italiane internate in quel periodo. Fra le migliaia di civili e italiani internati, soprattutto nel Sud, dall’esercito italiano durante il Grande Massacro molte furono le donne. Come gli uomini, furono accusate di spionaggio o di sentimenti anti-patriottici. Dopo la prima fase della guerra – caratterizzata da un gran numero di internamenti femminili, soprattutto nei territori occupati dall’esercito italiano – la caccia al “nemico interno” crebbe durante il periodo 1917-1918, al fine di garantire la sicurezza di fronte a un gran numero di donne sospettate e internate come spie nemiche pur senza indizi di colpevolezza. E analizzando le cause di internamento femminile troviamo innanzitutto stereotipi anti-femminili. Le memorie di un maestra di Grado, Antonia Fonzari, hanno il titolo «Ricordi amari».
Bambini e ragazzi (cioè sotto i 14 anni) erano allora 12 milioni: vissero la guerra come figlie e figli, sorelle e fratelli di quei soldati che combattevano. Soffrirono il Grande Massacro in tutte le situazioni: famiglia, scuola e luoghi di lavoro. Fra i civili che morirono durante il Grande Massacro vi sono anche molti bambini.
DOPO CAPORETTO, ESODO, SACCHEGGIO E STUPRI
La sconfitta di Caporetto fu un disastro che ancora richiede giustizia storica. La causa fu l’incapacità militare dei generali dello Stato Maggiore che sacrificarono decine di migliaia di uomini che poi accusarono di essere vigliacchi. Ma non solo. Oltre l’interpretazione militare ufficiale (che tralascio) vi fu una “versione” politica. Come scrisse il comunista Emilio Greco nella rivista «Stato Operaio», alcuni anni dopo: «Caporetto fu una rivolta disperata e senza meta… Si ripete comunemente che fu una sconfitta militare. Ma questa interpretazione è semplicistica: Caporetto è stata un’insurrezione del popolo che non riuscì di raggiungere e spezzare lo stato». In Russia con un partito bolscevico, comunista, il rifiuto di massa del Grande Massacro divenne rivoluzione. Indubbiamente dietro il disastro di Caporetto vi furono entrambi i fattori: incapacità militare dell’Alto Comando e rigetto collettivo dei soldati a farsi assurdamente uccidere. Dopo la rotta di Caporetto circa 600.000 civili – provenienti prevalentemente dalle provincie di Treviso, Venezia e Udine – furono costretti ad abbandonare improvvisamente il territorio invaso o minacciato da vicino dall’esercito austro-ungarico dando vita alla più grande tragedia civile collettiva che interessò la popolazione durante il Grande Massacro. Fu “la Caporetto delle famiglie”. Ci furono ovviamente atti di vandalismo e la devastazione aumentò a causa dei saccheggi perpetrati dai soldati di von Below, che entrarono vincitori in città e paesi presentandosi talora con il volto più crudele e violento dei saccheggiatori.
Il sito «Vecchia Conegliano e dintorni» racconta l’occupazione di Castel Roganzuolo, una frazione del comune di San Fior in provincia di Treviso: «I soldati germanici e austro-ungarici non si accontentavano di dare sfogo alla fame repressa: uccidevano il bestiame, ne consumavano una parte e lasciavano l’altra marcire nella strada; gettavano il grano sotto le zampe dei cavalli; si ubriacavano direttamente alle botti e non si davano nemmeno il disturbo di tapparle dopo essersene serviti, sicché il vino scorreva per le cantine. Il saccheggio metodico non lasciò intatta alcuna casa e la popolazione venne ridotta alla fame. Si racconta che in certi paesi la gente raccattava perfino gli escrementi dei cavalli, nella affannosa ricerca di qualche chicco di granoturco per sfamarsi. I pochi beni e la vita stessa degli abitanti erano quotidianamente appesi ad un esile filo. Ogni notte c’era il rischio che un gruppo di soldati penetrasse a forza in casa: alla ricerca di cibo o per violentare le donne che vi abitavano. Oltre allo stupro notturno, le donne erano spesso oggetto di forme di violenza più “meditate”. Povere madri, spesso profughe, che si recavano presso qualche comando locale allo scopo di ottenere un lasciapassare o una tessera annonaria, venivano costrette dagli ufficiali a subire lo sfogo delle loro basse passioni per ottenere ciò di cui avevano assoluto bisogno».
Lo «stupro del Belgio» fu all’inizio uno slogan per raccontare l’invasione tedesca, nel 1914, di quel Paese neutrale ma le atrocità – compresi gli stupri commessi dall’esercito del Kaiser – gli hanno dato un significato letterale, reale. Dopo Caporetto anche le donne dei territori invasi dagli austroungarici divennero bottino di guerra; come del resto accade per tutti gli eserciti vittoriosi. Ecco una fonte d’informazione diciamo “ufficiale”: si formò in Italia, dopo il Grande Massacro, una Commissione d’inchiesta sui crimini compiuti dall’invasore dopo Caporetto. I suoi lavori si conclusero con la pubblicazione del volume «Il martirio delle terre invase», nel quale si parlava anche dei numerosi stupri subiti da donne italiane. In seguito, la “Reale Commissione d’Inchiesta” pubblicò ben sette volumi fra il 1920 e il 1921: si tratta delle «Relazioni della Reale Commissione d’inchiesta sulle violazioni dei diritti delle genti commesse dal nemico». Il IV volume dedicava un intero capitolo alla ricostruzione delle violenze carnali inflitte a donne italiane da parte dei militari dell’esercito austroungarico: si tratta del capitolo “Delitti contro l’onore femminile.” L’argomento era ripreso nel VI volume, al cui interno si riportavano documenti, testimonianze, aneddoti.
I soli casi accertati di stupro da parte degli invasori furono 735 ma la relazione medesima ammetteva che ve ne erano stati moltissimi altri che erano “sfuggiti” anzitutto per vergogna delle vittime e delle loro famiglie.
Gli stupri erano sovente accompagnati da violenze d’altro tipo. Spesso i mariti o i padri vennero assassinati durante le aggressioni sessuali, specie se cercavano di difendere le donne ma perfino in assenza di reazione. In altri casi furono le donne a venire uccise dopo lo stupro: 53 subito dopo, mentre altre 40 morirono giorni od anche mesi dopo, in conseguenza delle violenze. Molte altre furono contagiate da malattie veneree. Le violenze avvenivano abitualmente a mano armata e in gruppo e riguardarono donne d’ogni età: dalle bambine sino a vecchie ottuagenarie. Sovente le madri furono violentate davanti ai propri figli.
Vale la pena segnalare il lavoro di Michele Strazza «Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali» del Consiglio Regionale della Basilicata 2010 (200 pagine) [http://www.ildialogo.org/Allegati/Stupri_di_Guerra.pdf] che esamina anche il tema delle violenze sessuali compiute da militari austro-ungarici.
FUCILAZIONI E DECIMAZIONI
La rivolta dei fanti della brigata Catanzaro a Santa Maria la Longa (importante base logistica del III Corpo d’Armata) a metà luglio del 1917 fu probabilmente l’episodio più noto e significativo di rifiuto collettivo della guerra verificatosi nell’esercito italiano durante il Grande Massacro. Era domenica e nei baraccamenti posti nelle immediate vicinanze del paese friulano stavano trascorrendo un periodo di riposo i fanti della “Brigata Catanzaro”, costituita dal 141° e 142° Reggimento Fanteria. I soldati erano sfiniti per il lungo tempo trascorso in prima linea e era previsto – e promesso – per loro un periodo di riposo nelle retrovie. Ma un fonogramma, giunto nella tarda serata, richiamò in trincea la Brigata. Esplose una protesta anche violenta. Si sparò e si lanciarono bombe a mano. Si presero di mira le baracche degli ufficiali e anche chi tenta di fare da paciere. Alcuni militari si portano nei pressi dell’abitazione del conte di Colloredo Mels, dove si pensa risieda il “poeta-soldato” Gabriele D’Annunzio, sparando colpi di fucile all’indirizzo dell’abitazione. Vi furono morti e feriti. La rivolta proseguì per quasi tutta la notte fino all’arrivo di una Compagnia di Carabinieri: quattro auto mitragliatrici, due auto cannoni e reparti della cavalleria. Sedata la ribellione, il Comandante della Brigata ordinò immediatamente la fucilazione di quattro soldati, scoperti in mano armi con le canne dei fucili ancora calde. Avvenne poi la decimazione del resto della Compagnia. All’alba del 16 luglio, oltre i 4 già fucilati, vennero decimati altri 12 (ufficialmente ma è probabile fossero di più) passati per le armi a ridosso del muro di cinta del cimitero di Santa Cecilia e posti in una fossa comune.
COME TERMINÒ IL GRANDE MASSACRO
Il 4 novembre 1918 sancì ufficialmente la vittoria di alcuni eserciti su altri. Il giorno prima a villa Giusti, a Padova, era stata firmato l’armistizio fra l’Italia e i suoi alleati con l’impero austro-ungarico. Va sottolineato che la cosiddetta riscossa di Vittorio Veneto esistette solo sulla carta in quanto non ci fu nessun assalto, nessuno sfondamento. L’esercito italiano avanzò perché quello austriaco si stava ritirando, impossibilitato a continuare una guerra irrimediabilmente perduta. Il generale Armando Diaz informato di un’avanzata che non aveva né previsto – né ordinato e neppure sapeva come si stava sviluppando – dovette esaminare le carte geografiche per sapere dov’era Vittorio Veneto. Ferruccio Parri, allora ufficiale nell’Alto Comando testimoniò che Diaz esclamò in dialetto napoletano: «Addò sta stu cazzo ‘e Vittorio Veneto?».
E OGGI?
Il centenario del Grande Massacro deve essere un’occasione per fare i conti con queste pagine dolorose della storia nazionale, sopra descritte e che non a caso sono state, in parte rimosse dalla memoria e dalla coscienza collettiva. Per esempio riabilitare la memoria dei soldati fucilati e decimati durante il grande massacro 15-18 è un’ azione etica per un centenario che, altrimenti, rischia di essere solo retorico o, peggio, indirizzato al turismo sui luoghi della tragedia. In Italia c’ è un vento nuovo che spira verso la riabilitazione. Non sono più i tempi della lettera ai cappellani militari di don Lorenzo Milani, condannata per vilipendio. La sentenza toccò solo il direttore di Rinascita che l’aveva pubblicata, perché Don Milani morì prima.
Le iniziative in corso sono varie.
Alle 19 del 21 maggio (a ridosso della data del 24 maggio) la Camera ha votato, approvandola, la Proposta di Legge Scanu per la riabilitazione dei militari fucilati nella Prima Guerra. Adesso dovrà andare in Senato. Un altro passo avanti è fatto, anche se il testo della legge, probabilmente ha un limite. prevede la riabilitazione per quei fucilati con una chiara traccia, la sentenza di un tribunale militare, trascurando coloro che furono giustiziati con decisioni sommarie.
 Inoltre sarebbe opportuno che contemporaneamente a queste azioni, ve ne fosse una per la condanna ufficiale di coloro che sono stati responsabili di questi assassinii: il generale Cadorna, Graziani ed altri.
 
da www.pressenza.com

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