domenica 10 maggio 2015

Italicum per comandare, non per decidere di Antonio Floridia, Il Manifesto


Sull’Italicum si è già detto molto, ma sulle con­se­guenze poli­ti­che della nuova legge elet­to­rale il dibat­tito si è appena aperto. Il pro­fes­sor D’Alimonte, richia­man­dosi al modello del poli­to­logo ame­ri­cano Gary W. Cox scom­mette sulla dina­mica bipo­lare e bipar­ti­tica che prima o poi si pro­durrà, attra­verso gli effetti di appren­di­mento e di coor­di­na­mento stra­te­gico indotti dalle nuove regole del gioco. Non è que­sta la sede per discu­tere la fon­da­tezza di que­sta pre­vi­sione e se la for­mula di Cox sia repli­ca­bile ad una dimen­sione macro come quella di un’intera e unica arena com­pe­ti­tiva nazio­nale, o se essa piut­to­sto non si riveli valida solo a livello di sin­goli col­legi (nel sug­ge­rire, appunto, agli attori poli­tici, come meglio «far con­tare» i voti): appare evi­dente, comun­que, il rischio di deter­mi­ni­smo che vizia que­sto ragio­na­mento. Gli «effetti» bipar­ti­tici dell’Italicum, se mai potranno agire, saranno ben lar­ga­mente com­pen­sati da altre «varia­bili» sto­ri­che ed empi­ri­che: prime fra tutte, l’italica pro­pen­sione al tra­sfor­mi­smo, com­bi­nata con la totale assenza di par­titi in grado di svol­gere le clas­si­che fun­zioni che essi hanno svolto nella sto­ria delle demo­cra­zie parlamentari.
E così al momento appare quanto meno altret­tanto fon­data una pre­vi­sione di segno oppo­sto: l’incentivo a creare un sistema poli­tico di impronta neo-centrista, con un partito-pivot o un partito-tenda sotto le cui inse­gne si accal­che­ranno tutte le più sva­riate aggre­ga­zioni del potere nota­bi­lare (con le pre­ve­di­bili con­se­guenze sulla qua­lità della tanto ago­gnata «gover­na­bi­lità»). Da que­sto punto di vista, potremo assi­stere ad un incon­sueto «espe­ri­mento» poli­to­lo­gico sul campo: vedremo quale pre­vi­sione si rive­lerà più fon­data. Pec­cato che tutto que­sto non acca­drà in un labo­ra­to­rio di inge­gne­ria elet­to­rale, ma sulla pelle di una demo­cra­zia stre­mata e sem­pre più fra­gile.
I com­menti sulla vicenda dell’Italicum sem­brano poi divisi da un dilemma: si è trat­tato di un’estrema prova di forza di Renzi o, al con­tra­rio, di una sua prova di debo­lezza? Una vit­to­ria sulle mace­rie, o un lea­der che asfalta gli avver­sari e spiana i ruderi di un vec­chio sistema poli­tico? Que­ste domande si legano ad un altro que­sito: come mai le linee di resi­stenza, interne ed esterne al PD, si sono rive­late così fragili?
La rispo­sta che ci sem­bra più cre­di­bile è la seguente: Renzi ha sca­te­nato tutta la sua volontà di potenza, ma con ciò stesso ha pale­sato tutti i limiti della sua cul­tura poli­tica. Un lea­der capace (oggi) di espri­mere la sua capa­cità di domi­nio, ma inca­pace di eser­ci­tare una vera ege­mo­nia.
Si imma­gini uno sce­na­rio che era nell’ordine delle cose pos­si­bili: se ancora si poteva giu­sti­fi­care la prima ver­sione dell’Italicum appel­lan­dosi alla neces­sità di un com­pro­messo per garan­tire una riforma con­di­visa con una parte dell’opposizione, per­ché Renzi non ha cam­biato le carte in tavola quando il patto del Naza­reno (almeno uffi­cial­mente) era caduto? La neces­sità di tempi brevi? suv­via, sareb­bero bastati tre mesi, per ripren­dere (senza impa­lu­darsi nelle mici­diali astru­se­rie dell’Italicum) uno dei pos­si­bili modelli di sistema elet­to­rale, lineari e spe­ri­men­tati, già pronti per l’uso, per così dire; e se pro­prio si voleva ren­dere omag­gio al nefa­sto prin­ci­pio che regge tutta la costru­zione (sapere chi vince «la sera delle ele­zioni»), si pote­vano anche con­ce­pire dei sem­plici cor­ret­tivi. Nulla di tutto que­sto: Renzi e la mag­gio­ranza del Pd si sono lasciati affa­sci­nare dall’idea del pre­mio alla sin­gola lista, abba­gliati dai son­daggi e ignari dei pos­si­bili effetti impre­vi­sti che que­sto tipo di bal­lot­tag­gio può pro­durre (ed infatti, il M5S e Sal­vini già si fre­gano le mani: ma Parma e Livorno, non hanno inse­gnato nulla al Pd?)
Una grande mio­pia poli­tica, dun­que: non la mani­fe­sta­zione di una lun­gi­mi­ranza da sta­ti­sti. Un limite di cul­tura poli­tica che, per altro verso, si è mani­fe­stato anche nella con­dotta delle mino­ranze del Pd. Al di là degli errori tat­tici e delle divi­sioni, è stato un errore pun­tare sulla que­stione delle pre­fe­renze e sulla con­trap­po­si­zione tra eletti e «nomi­nati». Non si può cedere alla vul­gata popu­li­sta: i par­titi hanno il diritto e la respon­sa­bi­lità di sce­gliere i volti di chi li rap­pre­senta di fronte agli elet­tori; ma spetta, even­tual­mente, alle loro pro­ce­dure interne (e non solo e non tanto alle pri­ma­rie), alla discus­sione e alla par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica di diri­genti e iscritti, la sele­zione del per­so­nale poli­tico chia­mato a con­cor­rere nelle ele­zioni. E agli elet­tori spetta il diritto di cono­scere e il potere di valutare.
Si pos­sono peral­tro com­pren­dere, ma non con­di­vi­dere, le ragioni che hanno spinto le mino­ranze del Pd a sce­gliere que­sto ter­reno e che, più in gene­rale, fanno rite­nere a molti il ritorno al voto di pre­fe­renza come il male minore. Se i par­titi si tra­sfor­mano in mac­chine per­so­na­liz­zate di con­senso, se non hanno più una vera vita demo­cra­tica interna; se gli orga­ni­smi diri­genti sono ora­mai solo dei meri organi di rati­fica, e non delle sedi deli­be­ra­tive; se le pri­ma­rie si sono tra­sfor­mate in uno stru­mento scri­te­riato e sre­go­lato; se tutto è que­sto è vero, si può allora essere indotti a rite­nere che l’unico ele­mento in grado di garan­tire una com­pe­ti­zione equa sia quello delle pre­fe­renze e che lo si possa con­si­de­rare come l’unico ter­reno su cui è pos­si­bile spo­stare gli equi­li­bri. Ed è com­pren­si­bile che siano guar­dati con sospetto tutti quei sistemi elet­to­rali che affi­dano la scelta delle can­di­da­ture «sicure» ai poteri esclu­sivi di chi con­trolla il par­tito. Ma è una solu­zione debole e di ripiego: per que­sta via, i par­titi saranno sem­pre più, e solo, un assem­blag­gio di comi­tati elettorali.
Il vero punto di attacco all’Italicum sarebbe stato (e dovrà essere in futuro) quello dell’idea di demo­cra­zia che esso sot­tende e pro­pu­gna: un’idea distorta e ridut­tiva di demo­cra­zia, intesa come mero atto di auto­riz­za­zione al comando; un’idea ple­bi­sci­ta­ria dell’investitura elet­to­rale; e una visione della demo­cra­zia priva di ogni ele­mento e luogo di media­zione e di rap­pre­sen­tanza. Ma è un’idea, al fondo, viziata da una sorta di illu­sione deci­sio­ni­stica e da una let­tura della crisi della demo­cra­zia come mero incep­pa­mento dei poteri di comando. Anche nel dibat­tito par­la­men­tare è risuo­nata un’orribile espres­sione: una «demo­cra­zia deci­dente». Certo, la demo­cra­zia rischia di per­dere la sua legit­ti­mità se non pro­duce deci­sioni… già, ma che tipo di decisioni?
Ciò che qua­li­fica una demo­cra­zia come tale, è pro­prio la qua­lità e la natura delle pro­ce­dure con cui si giunge ad una deci­sione. E chi appena cono­sca la realtà del cosid­detto policy-making sa bene che ciò che blocca le deci­sioni, in tanti casi, non sono certo le isti­tu­zioni che defi­ni­scono la tito­la­rità dei poteri, ma qual­cosa di tutt’altra natura, empi­ri­ca­mente impal­pa­bile, ma ben con­creto e ogget­tivo: il con­senso, la legit­ti­mità demo­cra­tica, la capa­cità di pro­porre solu­zioni ade­gua­ta­mente e pub­bli­ca­mente discusse, com­prese, per­ce­pite come giu­ste, social­mente con­di­vise, ma accet­tate anche da chi in esse magari non si rico­no­sce, ma sente come legit­timo, inclu­sivo e rap­pre­sen­ta­tivo, il pro­cesso attra­verso cui ad una con­clu­sione si è giunti. Senza tutto que­sto, non c’è Ita­li­cum che tenga: si potrà coman­dare, ma senza vera­mente deci­dere alcunché.

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