Natale, tempo di svolta? In realtà non c'è data meno adatta per i cambiamenti drastici, semmai lo sarebbe Capodanno. Ma sui mercati finanziari globali, quest'anno, si attende la decisione della Federal Reserve statunitense, al termine dela due giorni di riunione del Fomc (Federal open market committee, il consiglio direttivo della banca centrale Usa) che si chiuderà domani pomeriggio.
La decisioni di alzare i tassi è ormai certa, Dopo oltre un anno di annunci, sempre rinviati, ne verrebbe minata la credibilità del presidente, Yanet Yellen, e di tutto il vertice. Quindi l'aumento, dall'attuale zero virgola zero cinque – fermo a questo livello da sei anni – ci sarà di sicuro.
Le domande che interessano i mercati sono perciò più specifiche: di quanto sarà il rialzo? La Yellen ha promesso un percorso lento e graduale, quindi sarebbe lecito attendersi un +0,25%. Quasi nulla, se non rappresentasse comunque un'inversione di tendenza. Quindi ci sarà molta attenzione nel leggere la comunicazione con cui la Fed accompagnerà la decisione.
La banca centrale Usa si sta muovendo, come tutte le altre, in una situazione non prevista da nessun trattato di politica monetaria. Dopo sei anni di tassi zero, infatti, ci si dovrebbe attendere una pressione inflazionistica molto forte, ben superiore a quel +2% che gli stessi manuali liberisti indicano come “fisiologica”, dunque sana e auspicabile.
Primo problema: non solo in Europa, ma neanche negli Stati Uniti l'aumento dei prezzi si avvicina minimamente a quel livello. Dunque un rialzo dei tassi, classica misura di politica monetaria tesa a contrastare l'inflazione, da questo punto di vista non ha senso.
È vero che negli Usa il tasso di disoccupazione – che rientra come secondo obiettivo nell'indirizzare le scelte della Fed, al contrario della “monotematica” Bce, interessata per statuto alla sola inflazione – è sceso al 5%, meno di quel 6% giudicato sui manuali come “fisiologico” (senza spiegare mai per quale ragione un simile livello sia da considerare ottimale). Ma tutti sanno, e in primo luogo i vertici della Fed, che quel dato è completamente fasullo. Le statistiche Usa prendono infatti in considerazione soltanto quelli che stanno cercando attivamente un lavoro, iscrivendosi agli uffici di collocamento. Tutti gli altri, i cosiddetti “scoraggiati”, quelli che hanno smesso di cercare un'occupazione perché convinti di non poterla trovare, sono res nullius, invisibili. Anche se rappresentano cifre colossali: quasi il 33 per cento degli americani sopra i 16 anni non fa parte della forza lavoro ufficialmente censita. In pratica, i senza lavoro Usa sfiorano i 100 milioni di unità.
Vi sembra impossibile? Basta fare un piccolo calcolo: rispetto al 2008, primo anno dell'attuale crisi, la popolazione residente nel paese è aumentata di oltre 16 milioni, mentre gli occupati – tra alti e bassi legati all'evoluzione della crisi – sono rimasti sostanzialmente invariati. Se le statistiche sulla disoccupazione riflettessero dunque la realtà sociale, dovremmo attenderci una cifra praticamente doppia rispetto ai quasi 9 milioni di americani ufficialmente “disoccupati”.
Anche da questo punto di vista, dunque, il rialzo dei tassi è ampiamente immotivato.
Ma ci sarà, altrimenti tutto il mondo finanziario dovebbe prendere atto che siamo in un altro mondo, e che tutte le conoscenze accumulate in quello precedente non valgono più in questo. Una constatazione da panico, diciamolo...
E qui sorge un altro problema. In realtà quasi tutto il mondo finanziario sa benissimo come stanno le cose, anche se solo da punto di vista empirico, del proprio ristretto interesse individuale (ogni società finanziaria ragiona per sé). Ma in questi sei anni di tassi zero la finanza globale ha imparato a “governare” indirettamente le banche centrali, costringendole a muoversi tutte verso il “pavimento” dei tassi zero (quasi un assurdo, in regime capitalistico) e ad andare anche oltre, con quantitative easing che di fatto equivalgono a regalare denaro alle banche private che lo chiedono in prestito (l'assurdo finale: i “tassi negativi”, per cui il capitale investito sa in partenza di non poter rientrare dell'intera cifra investita).
Ora quel mondo attende le mosse della Fed con una batteria di meccanismi – in molti casi robotizzati, automatici – che può mettere in ginocchio in un attimo anche la banca centrale Usa. IlSole24Ore di oggi, per esempio, riporta la “profezia” di Marko Kolanovic, un analista talmente rispettato da meritarsi il soprannome di Gandalf, che segnala ben 670 miliardi di “opzioni” in scadenza – sui mercati statunitensi – il giorno dopo la decisione della Fed. Si tratta di strumenti pensati per guadagnare in un mercato che crolla – fino ad un punto limite, naturalmente; in questo caso il -5% dell'indice S&P 500 – e che scatteranno quasi certamente se la Fed non accompagnerà l'annunciato rialzo con una “rassicurazione” di esser pronta a tornare indietro, se necessario, anche in tempi rapidi.
Surreale? Certo... Ma quando mai è successo che il denaro venisse prestato a costo zero per sei ani consecutivi senza che ci fosse almeno l'odore di un'inflazione alle porte?
La decisioni di alzare i tassi è ormai certa, Dopo oltre un anno di annunci, sempre rinviati, ne verrebbe minata la credibilità del presidente, Yanet Yellen, e di tutto il vertice. Quindi l'aumento, dall'attuale zero virgola zero cinque – fermo a questo livello da sei anni – ci sarà di sicuro.
Le domande che interessano i mercati sono perciò più specifiche: di quanto sarà il rialzo? La Yellen ha promesso un percorso lento e graduale, quindi sarebbe lecito attendersi un +0,25%. Quasi nulla, se non rappresentasse comunque un'inversione di tendenza. Quindi ci sarà molta attenzione nel leggere la comunicazione con cui la Fed accompagnerà la decisione.
La banca centrale Usa si sta muovendo, come tutte le altre, in una situazione non prevista da nessun trattato di politica monetaria. Dopo sei anni di tassi zero, infatti, ci si dovrebbe attendere una pressione inflazionistica molto forte, ben superiore a quel +2% che gli stessi manuali liberisti indicano come “fisiologica”, dunque sana e auspicabile.
Primo problema: non solo in Europa, ma neanche negli Stati Uniti l'aumento dei prezzi si avvicina minimamente a quel livello. Dunque un rialzo dei tassi, classica misura di politica monetaria tesa a contrastare l'inflazione, da questo punto di vista non ha senso.
È vero che negli Usa il tasso di disoccupazione – che rientra come secondo obiettivo nell'indirizzare le scelte della Fed, al contrario della “monotematica” Bce, interessata per statuto alla sola inflazione – è sceso al 5%, meno di quel 6% giudicato sui manuali come “fisiologico” (senza spiegare mai per quale ragione un simile livello sia da considerare ottimale). Ma tutti sanno, e in primo luogo i vertici della Fed, che quel dato è completamente fasullo. Le statistiche Usa prendono infatti in considerazione soltanto quelli che stanno cercando attivamente un lavoro, iscrivendosi agli uffici di collocamento. Tutti gli altri, i cosiddetti “scoraggiati”, quelli che hanno smesso di cercare un'occupazione perché convinti di non poterla trovare, sono res nullius, invisibili. Anche se rappresentano cifre colossali: quasi il 33 per cento degli americani sopra i 16 anni non fa parte della forza lavoro ufficialmente censita. In pratica, i senza lavoro Usa sfiorano i 100 milioni di unità.
Vi sembra impossibile? Basta fare un piccolo calcolo: rispetto al 2008, primo anno dell'attuale crisi, la popolazione residente nel paese è aumentata di oltre 16 milioni, mentre gli occupati – tra alti e bassi legati all'evoluzione della crisi – sono rimasti sostanzialmente invariati. Se le statistiche sulla disoccupazione riflettessero dunque la realtà sociale, dovremmo attenderci una cifra praticamente doppia rispetto ai quasi 9 milioni di americani ufficialmente “disoccupati”.
Anche da questo punto di vista, dunque, il rialzo dei tassi è ampiamente immotivato.
Ma ci sarà, altrimenti tutto il mondo finanziario dovebbe prendere atto che siamo in un altro mondo, e che tutte le conoscenze accumulate in quello precedente non valgono più in questo. Una constatazione da panico, diciamolo...
E qui sorge un altro problema. In realtà quasi tutto il mondo finanziario sa benissimo come stanno le cose, anche se solo da punto di vista empirico, del proprio ristretto interesse individuale (ogni società finanziaria ragiona per sé). Ma in questi sei anni di tassi zero la finanza globale ha imparato a “governare” indirettamente le banche centrali, costringendole a muoversi tutte verso il “pavimento” dei tassi zero (quasi un assurdo, in regime capitalistico) e ad andare anche oltre, con quantitative easing che di fatto equivalgono a regalare denaro alle banche private che lo chiedono in prestito (l'assurdo finale: i “tassi negativi”, per cui il capitale investito sa in partenza di non poter rientrare dell'intera cifra investita).
Ora quel mondo attende le mosse della Fed con una batteria di meccanismi – in molti casi robotizzati, automatici – che può mettere in ginocchio in un attimo anche la banca centrale Usa. IlSole24Ore di oggi, per esempio, riporta la “profezia” di Marko Kolanovic, un analista talmente rispettato da meritarsi il soprannome di Gandalf, che segnala ben 670 miliardi di “opzioni” in scadenza – sui mercati statunitensi – il giorno dopo la decisione della Fed. Si tratta di strumenti pensati per guadagnare in un mercato che crolla – fino ad un punto limite, naturalmente; in questo caso il -5% dell'indice S&P 500 – e che scatteranno quasi certamente se la Fed non accompagnerà l'annunciato rialzo con una “rassicurazione” di esser pronta a tornare indietro, se necessario, anche in tempi rapidi.
Surreale? Certo... Ma quando mai è successo che il denaro venisse prestato a costo zero per sei ani consecutivi senza che ci fosse almeno l'odore di un'inflazione alle porte?
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