Venerdì il sito del Guardian segnalava che l’immobile di Time Square nel cuore di Manhattan, sulla cui facciata è visualizzato il debito pubblico americano, non ha più abbastanza spazio per contenere la quantità astronomica di miliardi di dollari a cui ammonta, precisamente 10. 299. 050. 383, un’enormità dovuta soprattutto al finanziamento del piano Paulson e alle flebo per Freddie Mac e Fannie Mae. Si è dovuto eliminare il simbolo “$” che occupava l’ultima casella del display, in modo che il passante potesse gustare questa amara cifra fino alla feccia”2. Chi se ne ricorda più ora? La grande paura dell’ultimo ottobre sembra già più lontana che la “grande paura” degli inizi della Rivoluzione francese. Un anno fa, tuttavia, si aveva l’impressione che numerose falle si fossero aperte e che la nave colasse a picco. Si aveva anche l’impressione che tutti, senza dirlo, se lo aspettassero da tanto tempo. Gli esperti si interrogavano apertamente sulla solvibilità degli Stati, anche dei più potenti, e i giornali evocavano in prima pagina la possibilità di un fallimento a catena delle casse di risparmio in Francia. I consigli di famiglia discutevano per sapere se sarebbe stato necessario ritirare tutto il denaro dalla banca e conservarlo in casa; acquistando un biglietto in anticipo, gli utenti dei treni si domandavano se questi avrebbero ancora circolato due settimane dopo.
Parlando della crisi finanziaria, il presidente americano George Bush si indirizzava alla nazione in termini simili a quelli impiegati dopo l’11 settembre 2001, e Le Monde intitolava il suo magazine di ottobre 2008: “La fin d’un monde”. Tutti i commentatori erano d’accordo nel ritenere che quanto stava accadendo non era una semplice turbolenza passeggera dei mercati, ma la peggiore crisi dalla Seconda Guerra mondiale o dal 1929.
Era stupefacente constatare come gli stessi che, fino alla crisi, sembravano convinti che la vita capitalista ordinaria avrebbe continuato a funzionare a tempo indeterminato – dal top manager al disoccupato –, potessero convertirsi così presto all’idea di una crisi di fondamentale importanza. L’impressione generale di sentirsi sull’orlo di un precipizio era ancora più sorprendente se si pensa che, all’inizio, si trattava solo di una crisi finanziaria della quale il cittadino medio non sapeva nulla se non attraverso i media. Niente licenziamenti di massa, niente interruzione nei rifornimenti dei prodotti di prima necessità, niente bancomat che non distribuissero più soldi, niente commercianti che rifiutassero carte di credito. Dunque, ancora nessuna crisi “visibile”. E, tuttavia, un atmosfera da fine d’epoca. Un fatto che non si spiega se non ipotizzando che già prima della crisi ciascuno avvertisse vagamente, ma senza volersene rendere conto, di stare camminando sul ghiaccio sottile o sopra una corda tesa. In fondo, quando la crisi è esplosa, nessun individuo contemporaneo è stato sorpreso, non più di un grande fumatore che scopre di avere il cancro. Prima ancora che tutto apparisse chiaramente, era già largamente diffusa la sensazione che le cose non potessero continuare “così”.
Non si sa di che cosa stupirsi di più: della velocità con la quale i media hanno messo in disparte l’apocalisse per ricominciare ad occuparsi dei pescatori di ostriche (che hanno bloccato in Francia alcuni porti) o delle scappatelle di Berlusconi; degli economisti che annunciano con aplomb che è già finita e che tutto andrà di nuovo per il meglio; dei risparmiatori che si avvicinano di nuovo alla loro banca senza il minimo timore di trovarla chiusa; del cittadino medio per il quale la crisi si riduce al fatto di trascorrere vacanze più brevi quest’anno… Anche gli esperti, che ci spiegano bonari che niente è successo e che niente di spiacevole succederà, dovrebbero inquietarsi e sospettare di un sollievo e di un oblio così immediati. Ma questi continuano a fare come il malato di cancro che fuma platealmente per dimostrare a se stesso che la sua salute è eccellente. Loro si sono già abituati a tirare avanti. Per decenni un tasso di crescita economica insufficientemente elevato veniva considerato una catastrofe nazionale; oggi la crescita è davvero negativa per la prima volta dopo sessant’anni. Non importa: la crescita sarà di ritorno l’anno prossimo – assicurano imperturbabili.
Niente di nuovo sotto il buco dell’ozono: né la scienza ufficiale, né la coscienza quotidiana arrivano ad immaginare qualcosa di diverso da ciò che conoscono già: capitalismo dunque, e ancora capitalismo. Questo può attraversare una tempesta, può mostrare degli “eccessi”, i prossimi tempi possono essere duri, ma i responsabili ne trarranno le dovute lezioni: d’altra parte gli Americani hanno eletto un presidente ragionevole e le riforme necessarie saranno adottate; dopo la pioggia, il sereno! Non è affatto sorprendente che gli ottimisti stipendiati, i soli normalmente autorizzati ad esprimersi nelle istituzioni e nei media, annuncino così, ad ogni rondine, il ritorno della primavera. Che cos’altro potrebbero dire?
Ma all’apice della crisi del 2008 i media si sentirono obbligati a concedere ogni tanto la parola a quelli che offrivano un’interpretazione “anticapitalista”, a coloro che presentavano questa crisi come la manifestazione di una disfunzione più profonda, e che non mancavano quindi di invocare “cambiamenti radicali”. Mentre il “Nuovo partito anticapitalista”3 e i suoi consimili strillavano platealmente ai quattro venti “non pagheremo la vostra crisi”, dissotterrando dalle cantine i volantini rimasti dalle manifestazioni di dieci, venti o trent’anni fa, i rappresentanti più noti di quella che è oggi considerata come una critica implacabile della società contemporanea – cioè i Badiou, i Žižek, i Negri – hanno avuto diritto a tenere tribune più lunghe del solito nella stampa, o, ad ogni modo, hanno sentito il vento in poppa. Ciò è comunque un po’ sorprendente: la possibilità di una grande crisi del capitalismo, non provocata da una resistenza degli “sfruttati” o della “moltitudine”, ma da un inceppamento della macchina – quindi senza alcun responsabile – non era stata prevista in alcun modo nelle loro analisi. E, in effetti, anche loro hanno spiegato, a modo proprio, che bisognava circolare e che non c’era nulla da vedere; che era una crisi come un’altra, che sarebbe passata come sono passate le altre perché la crisi è il funzionamento normale del capitalismo.
Ma ciò che chiamano crisi – il crollo delle borse, la deflazione mondiale – non è in verità che un insieme di fenomeni secondari. Sono le manifestazioni visibili, l’espressione di superficie della vera crisi, di questa vera crisi che loro stessi non riescono a pensare. Gli avversari dichiarati del capitalismo – sinistra “estrema” o “radicale”, marxisti di diversa osservanza, “obiettori della crescita” o ecologisti “radicali” – si accaniscono pressoché tutti a credere nell’eternità del capitalismo e delle sue categorie, talvolta anche più di certi suoi apologeti4.
Questa critica del capitalismo prende di mira solo la finanza, considerata come la sola responsabile della crisi. L’“economia reale” sarebbe sana e solo una finanza sottratta ad ogni controllo metterebbe in pericolo l’economia mondiale. Da qui la spiegazione più sommaria – la più diffusa – che attribuisce tutta la responsabilità della crisi all’ “avidità” di un pugno di speculatori che avrebbero giocato con il denaro di tutti come se fossero al casinò. E, in effetti, ricondurre gli arcani dell’economia capitalista, quando essa si mette a funzionare male, agli intrighi di una cospirazione di malvagi si iscrive entro una tradizione lunga e pericolosa. La peggiore tra le vie d’uscita possibili sarebbe quella di additare ancora una volta dei capri espiatori, la “alta finanza ebraica” o altro, alla vendetta dell’ “onesto popolo” dei lavoratori e dei risparmiatori. E non è molto più serio opporre un “cattivo” capitalismo anglosassone, predatore e senza limiti, ad un “buon” capitalismo “continentale”, considerato più responsabile. Abbiamo visto che li distinguono solo sfumature o poco più. Tutti coloro che ora incitano a “regolamentare di più” i mercati finanziari, dall’associazione Attac a Sarkozy, vedono nelle follie delle borse solamente un “eccesso”, un’escrescenza su un corpo sano.
L’ “anticapitalismo” della sinistra radicale è solo un “antiliberalismo”. La sola alternativa al capitalismo che essa abbia mai potuto concepire era costituita dalle dittature ad economia pianificata dell’Est e del Sud del mondo; da quando quelle hanno fatto bancarotta, hanno cambiato capo o sono diventate completamente indifendibili, la sola scelta rimasta a questi anticapitalisti è quella tra differenti modelli di capitalismo: tra liberalismo e keynesismo, tra modello continentale e modello anglosassone, tra turbocapitalismo finanziarizzato ed economia sociale di mercato, tra giubilo delle borse e “creazione di impieghi”. Ci possono essere diversi modi di valorizzazione del valore, di accumulazione del capitale, di trasformazione del denaro in più denaro; ed è soprattutto la distribuzione dei frutti di questo modo di produzione che può cambiare, profittando più a certi gruppi sociali che ad altri, a certi paesi piuttosto che ad altri. Essi prevedono che anche la crisi sarà utile al capitalismo: i capitali in eccesso sono svalutati e dopo Schumpeter si sa che la “distruzione creatrice” è la legge fondamentale del capitalismo. Se si vuole evitare di essere tacciati di utopisti sempliciotti, o di emuli di Pol Pot, cioè di partigiani della sola alternativa al capitalismo che la coscienza dominante sappia ancora evocare, è impossibile immaginare che l’umanità possa vivere altrimenti che con la valorizzazione del valore, l’accumulazione del capitale e la trasformazione del denaro in più denaro. Può esserci un limite esterno alla crescita del capitalismo, sotto forma di esaurimento delle risorse e di distruzione delle fonti naturali, ma in quanto forma di riproduzione sociale il capitalismo sarebbe insuperabile. Ciò che Il Corriere della sera dichiara apertamente, i neo-marxisti, i bourdieusiani, gli altermondialisti e i sostenitori della decrescita lo dicono con delle perifrasi: per gli uomini il mercato è naturale. Gli anticapitalisti-antiliberali propongono semplicemente di ritornare al “capitalismo sociale” degli anni ’60 (indebitamente idealizzato, va da sé), al pieno impiego e ai salari elevati, allo Stato sociale e alla Scuola “ascensore sociale”; alcuni vorrebbero aggiungergli un po’ di ecologia, di volontariato o anche di “decrescita”. In verità, devono sperare che il capitalismo riprenda ben presto i suoi spiriti e ricominci a girare a pieno regime, per poter realizzare i loro bei programmi onerosi.
Ai loro occhi la crisi attuale rappresenta l’occasione tanto attesa di trovare finalmente delle orecchie attente alle proposte che fanno da tempo. La crisi sarà salutare: costituirà certamente una piccolo salasso per alcuni, ma forzerà gli uomini e le istituzioni a rivedere le proprie nocive abitudini. Così ciascuno di questi critici benevolenti cerca di portare acqua al proprio mulino: regolazione dei mercati finanziari, limitazione dei premi dei manager, abolizione dei “paradisi fiscali”, misure di redistribuzione e, soprattutto, un “capitalismo verde” come motore di un nuovo regime di accumulazione e produttore di impiego. Per loro la questione è evidente: la crisi è l’occasione di un miglioramento del capitalismo, non di una rottura con questo.
Tuttavia, anche su questo piano, rischiano di rimanere delusi. Nel contesto della crisi si stanno producendo reazioni del tutto opposte tra loro. Così, per superarla, si possono predicare misure ecologiche (come fanno Obama o Sarkozy) o, al contrario, attaccare perfino le protezioni esistenti in nome del “rilancio della crescita” e della “creazione di posti di lavoro” (come fa Berlusconi, come chiedono l’industria – soprattutto quella edile e automobilistica – e una parte considerevole del pubblico) 5. E che dire quando degli operai licenziati, per ottenere migliori condizioni di licenziamento, minacciano di riversare prodotti tossici in un fiume, come è già capitato più volte in Francia? Vedremo degli ecologisti venire alle mani con degli operaisti? Ora la sinistra “radicale” dovrà decidersi: passare ad una critica del capitalismo tout court, anche se non si proclama più neoliberale, o partecipare alla gestione di un capitalismo che ha incorporato una parte delle critiche indirizzate ai suoi “eccessi”.
Certi osservatori sembrano andare oltre: parlano di un capitalismo che distrugge il mondo ed è in procinto di autodistruggersi. Queste grida d’allarme non denotano una presa di coscienza di fronte ai disastri del capitalismo, tanto quando questo procede “normalmente” quanto nei suoi periodi di crisi? Tuttavia, nella maggior parte dei casi, questi attacchi sono diretti solo contro la recente fase “sregolata” e “selvaggia” del capitalismo, la fase neoliberale, e niente affatto contro il regime di accumulazione capitalista in quanto tale, contro la logica tautologica che richiede di trasformare un euro in due euro e che consuma il mondo concreto come semplice materiale per questo accrescimento della forma-valore. Secondo loro, un ritorno al capitalismo “saggio”, perché “regolato” e sottomesso alla “politica”, dovrebbe logicamente risolvere il problema.
Il discorso “anti-neoliberale” nega dunque che vi sia una crisi attuale? No, ma non vuole altro che la guarigione dai sintomi della malattia. D’altra parte, l’incapacità generale di immaginare che la crisi possa sfociare in qualcosa di diverso dal capitalismo, ancora e sempre, contrasta in modo impressionante con la percezione vaga, ma persistente e universale, di vivere dentro una crisi permanente. Da decenni l’atmosfera è votata al pessimismo. I giovani sanno, e accettano con rassegnazione, che vivranno peggio dei loro genitori e che le necessità di base – lavoro, casa – saranno vieppiù difficili da ottenere e conservare. L’impressione generale è quella di scivolare lungo un pendio. La sola speranza è di non farlo troppo velocemente, ma non di potere davvero risalire. C’è la sensazione diffusa che la festa sia finita e che stiano per cominciare gli anni delle vacche magre, una sensazione sovente accompagnata dalla convinzione che la generazione precedente (quella dei “baby-boomers”) ha divorato tutto e ha lasciato ben poco ai propri figli. In Francia, la maggior parte dei giovani, almeno tra quelli che strappano qualche diploma, sono ancora convinti che riusciranno a trovare un modo per sopravvivere sul piano economico: ma niente di più. Non si può più parlare di una crisi propria solo a certi settori, a vantaggio di altri che sarebbero in crescita: lo dimostra il crollo borsistico nel 2001 della “New Economy”, nonostante questa sia stata presentata per anni come il nuovo motore del capitalismo. Non assistiamo alla svalutazione di qualche mestiere a vantaggio di altri, come quando i maniscalchi sono stati rimpiazzati dai meccanici e come la mania delle “riqualificazioni” ci vorrebbe ancora far credere. Ora si tratta di una svalutazione generale di pressoché tutte le attività umane, come mostra visibilmente l’impoverimento rapido e inatteso delle “classi medie”. Se a ciò si aggiunge la coscienza, ormai ben ancorata in ogni testa, dei disastri ambientali presenti e futuri e dell’esaurimento delle risorse, si può dire che oggi la gran maggioranza delle persone guarda il futuro con paura.
Quello che può apparire strano è il fatto che l’impressione, così diffusa, di un aggravamento generale delle condizioni di vita si accompagna spesso alla convinzione che il capitalismo funziona a pieno regime, che la globalizzazione è al suo culmine, che c’è più ricchezza che mai. Il mondo sarebbe in crisi ma non il capitalismo, ovvero – come affermano Luc Boltanski e Éve Chiappello all’inizio del loro libro Le Nouvel esprit du capitalisme, pubblicato nel 1999 – il capitalismo è in espansione, mentre ciò che si degrada è la situazione sociale ed economica di tante persone. Così il capitalismo è percepito come una parte della società opposta al resto, come l’insieme degli uomini che detengono il denaro accumulato, e non come un rapporto sociale che ingloba tutti i membri dell’attuale società mondiale.
Certuni, che si credono più accorti, scorgono nel discorso della crisi una semplice invenzione: degli industriali per abbassare i salari e aumentare i profitti, o del “dominio” stesso, per giustificare lo stato di emergenza planetaria e permanente. È vero che le crisi, passate e attuali, sono servite e servono spesso da legittimazione allo Stato, soprattutto da quando questo non presenta più progetti “positivi” ma si limita ad amministrare le urgenze, mettendo esso stesso in rilevo tutto ciò che non va (a differenza della propaganda del passato, votata al motto “tutti sono felici grazie alla saggezza del governo”). Il suo compito è di creare le condizioni necessarie allo scopo ammesso, alla sola finalità riconosciuta dalla società mondiale contemporanea, dovunque essa sia (salvo in Corea del Nord, in Iran e in qualche altro paese musulmano): permettere agli individui un massimo di consumo di merci e di “sviluppo personale”. È vero, se le crisi non esistessero gli Stati le inventerebbero. Ma solamente le crisi di secondo rilievo, non quelle che minacciano le loro fondamenta. Durante questa crisi si è avuta più che mai l’impressione che le “classi dominanti” non dominassero granché, che queste fossero invece esse stesse dominate dal “soggetto automatico” (Marx) del capitale.
Tuttavia è stata avanzata anche una critica del capitalismo contemporaneo molto diversa da quelle fin qui evocate. Essa si chiede: e se la finanziarizzazione, lungi dall’aver rovinato l’economia reale, l’avesse invece aiutata a sopravvivere oltre la sua data di scadenza? Se avesse dato respiro ad un corpo moribondo? Perché si è così sicuri che lo stesso capitalismo sfugga al ciclo della nascita, della crescita e della morte? Non potrebbe contenere limiti intrinseci al proprio sviluppo, limiti che non risiedono solo nell’esistenza di un nemico dichiarato (il proletariato, i popoli oppressi), né nel solo esaurimento delle risorse naturali?
Durante la crisi, era di nuovo alla moda citare Marx. Ma il pensatore tedesco non ha parlato solamente di lotte di classe. Ha ugualmente previsto la possibilità che un giorno la macchina capitalista si arresti da sé, che la sua dinamica si esaurisca. Perché?
La produzione capitalista di merci contiene, fin dall’origine, una contraddizione interna, una vera bomba a scoppio ritardato situata nei suoi stessi fondamenti. Non si può far fruttare il capitale, e dunque accumularlo, che sfruttando la forza lavoro. Ma il lavoratore, per generare un profitto a vantaggio del suo datore di lavoro, deve essere fornito degli attrezzi necessari, e oggi delle tecnologie di punta. Ogni volta il primo datore di lavoro che ricorre a nuove tecnologie vince, perché i suoi operai producono più di quelli che non dispongono di questi attrezzi. Ma il sistema intero perde, perché le tecnologie rimpiazzano il lavoro umano. Il valore di ogni singola merce contiene quindi parti sempre più esili di lavoro umano, che è tuttavia la sola fonte del plusvalore e dunque del profitto. Lo sviluppo della tecnologia riduce i profitti nella loro totalità. Ciononostante, per un secolo e mezzo, l’estensione della produzione di merci su scala globale ha potuto compensare questa tendenza alla riduzione del valore di ogni merce particolare.
Dagli anni ’60, questo meccanismo – il quale non era già altro che una fuga in avanti permanente – si è inceppato. I guadagni di produttività permessi dalla micro-elettronica hanno paradossalmente messo in crisi il capitalismo. Erano necessari investimenti sempre più giganteschi per far lavorare i pochi operai restanti, secondo gli standard di produttività del mercato mondiale. L’accumulazione reale del capitale minacciava di arrestarsi. È in questo momento che il “capitale fittizio”, come lo chiama Marx, spicca il volo.
L’abbandono della convertibilità del dollaro in oro, nel 1971, ha eliminato l’ultima valvola di sicurezza, l’ultimo ancoraggio all’accumulazione reale. Il credito non è altro che un’anticipazione dei guadagni futuri attesi. Ma quando la produzione di valore, e dunque di plusvalore, nell’economia reale stagna (ciò che non ha nulla a che vedere con una stagnazione della produzione di cose – ma il capitalismo ruota intorno alla produzione di plusvalore e non di prodotti in quanto valori d’uso), non c’è che la finanza a permettere ai proprietari di capitale di realizzare profitti ormai impossibili da ottenere nella sfera dell’economia reale. L’ascesa del neoliberalismo a partire dal 1980 non era una sporca manovra dei capitalisti più avidi, un colpo di Stato allestito con la complicità di politici compiacenti, come la sinistra “radicale” vuole credere. Al contrario, il neoliberalismo era la sola maniera possibile di prolungare ancora un po’ il sistema capitalista che nessuno voleva seriamente mettere in questione nei suoi fondamenti, né a destra né a sinistra. Un gran numero di imprese e di individui hanno potuto conservare a lungo un’illusione di prosperità grazie al credito. Ora anche questa stampella si è rotta. Ma il ritorno al keynesismo, evocato un po’ ovunque, sarà del tutto impossibile: non c’è più abbastanza denaro “reale” a disposizione degli Stati. Per il momento i “decisori” hanno rinviato ancora un po’ il Mene, Tekel, Peres, aggiungendo un altro zero dietro le cifre fantastiche scritte sugli schermi e alle quali non corrisponde più nulla6. I prestiti accordati per salvare le banche sono dieci volte superiori ai buchi che facevano tremare i mercati venti anni fa – ma la produzione reale (diciamo, banalmente il PIL) è aumentata di circa il 20-30%! La “crescita economica” degli anni ’80 e ’90 non aveva più una base autonoma, ma era dovuta alle bolle finanziarie. E quando queste bolle scoppieranno non ci sarà nessun “risanamento” dopo il quale tutto potrà ripartire.
Perché questo sistema non è ancora completamente crollato? A che cosa deve la sua sopravvivenza provvisoria? Essenzialmente al credito. Lungo l’arco del secolo, di fronte alle difficoltà crescenti nel finanziare la valorizzazione della forza lavoro, dunque nell’investire in capitale fisso, il ricorso a crediti sempre più massicci non era un’aberrazione, era inevitabile. Anche durante il regno dei monetaristi neoliberali, l’indebitamento è fortemente aumentato. Che questo credito sia privato o pubblico, interno o esterno, non cambia di molto la questione. L’evoluzione continua e irreversibile della tecnologia aumenta in permanenza lo scarto tra il ruolo della forza lavoro – che, ripetiamolo, è la sola fonte del valore e del plusvalore – e quello, sempre più importante, degli strumenti di lavoro, che devono essere pagati con il plusvalore ottenuto attraverso lo sfruttamento della forza lavoro. Di conseguenza, il ricorso al credito non può che aumentare nel corso degli anni ed evolvere verso un punto di non ritorno. Il credito, che è un profitto consumato prima di essere stato realizzato, può rimandare il momento in cui il capitalismo raggiunge i propri limiti sistemici, ma non può abolirlo. Un giorno, anche il miglior accanimento terapeutico dovrà terminare.
Il credito non prolunga solamente la vita del sistema in quanto tale, ma anche quella dei consumatori. Si sa che l’indebitamento privato ha raggiunto cifre enormi, per esempio 15.000 euro per ogni famiglia italiana e molto di più negli Stati Uniti. E, soprattutto, esso aumenta rapidamente. Si può prendere coscienza del futuro di questo genere di vita con l’esempio di un paese come il Brasile, dove è possibile acquistare un telefono portatile e pagarlo in dieci rate, dove il cambio dell’olio dell’automobile può essere saldato in tre volte e dove i benzinai non si fanno concorrenza sui prezzi del carburante, ma sulla riscossione degli assegni – a 90, 180 giorni…
Alcuni giungono ad estasiarsi di fronte a questa “virtualizzazione” del mondo e per questa pronosticano un grande avvenire. Ma solo una coscienza interamente postmodernista è capace di credere che una virtualizzazione senza basi reali potrà durare per sempre. Certuni hanno voluto mettere in discussione e “decostruire” il concetto di “economia reale”. È certo che farebbe comodo a molte persone dimostrare che la finzione vale quanto la realtà, essendo inoltre molto più disponibile ai nostri desideri. Tuttavia non è necessario essere un gran profeta per prevedere che i “dinieghi di realtà” pronunciati con sorrisi di sufficienza da trent’anni non hanno più molto futuro in un’epoca di crisi “reali”.
Questo punto di vista radicale sulla crisi – per la cui formulazione siamo sempre debitori alle analisi di Robert Kurz – annuncia dunque, innanzitutto, che, anche sul piano strettamente economico, la crisi non è che agli inizi. Continua a esistere un gran numero di banche e di grandi imprese che occultano le loro situazioni disastrose falsificando i bilanci e, tra gli altri fallimenti a venire, si parla di un prossimo crollo del sistema delle carte di credito negli Stati Uniti. Le somme astronomiche gettate dagli Stati nell’economia, abbandonando da un giorno all’altro la dogmatica monetarista in nome della quale si erano spinte milioni di persone verso la povertà, e gli annunci di una maggior regolazione non hanno nulla a che vedere con un ritorno al keynesismo e allo Stato sociale di un tempo. Non si tratta di investimenti nelle infrastrutture, di tipo “New Deal”, né di una creazione di potere d’acquisto popolare. Queste somme hanno fatto aumentare di colpo il debito pubblico degli Stati Uniti del 20%, ma non sono servite che ad evitare il crollo del sistema creditizio. Per un vero “rilancio dell’economia” servirebbero somme ancora più smisurate e che, allo stato attuale, non possono essere ottenute se non creando denaro per decreto, cosa che potrà portare solo a una iperinflazione mondiale. Una breve crescita alimentata dall’inflazione condurrebbe ad una crisi ancora più grande, perché non si vedono da nessuna parte nuove possibili forme di accumulazione che, dopo una “stimolazione” iniziale da parte dello Stato, sarebbero in seguito in grado di produrre una crescita fondata su basi proprie.
Ma la crisi non è solamente economica. Quando non c’è più denaro, non funziona più niente. Nel corso del XX secolo, per estendere la sfera della valorizzazione del valore, il capitalismo ha inglobato settori sempre più ampi della vita: dall’educazione dei bambini alla custodia degli anziani, dalla cucina alla cultura, dal riscaldamento ai trasporti. Si è visto un progresso, in nome dell’ “efficacia” o della “libertà degli individui” affrancati dai legami familiari e comunitari. Ora se ne vedono le conseguenze: tutto va a rotoli se non è “finanziabile”. E non è solo dal denaro che dipende tutto, ma peggio ancora: dal credito. Quando la riproduzione reale è al traino del “capitale fittizio”, quando le imprese, le istituzioni e perfino Stati interi sopravvivono solo grazie alle loro quotazioni in borsa, ogni crisi finanziaria – lungi dal riguardare solamente quelli che giocano in borsa – finisce per affliggere moltissimi uomini nella loro vita più intima e quotidiana. I numerosi americani che avevano accettato pensioni in azioni, e che dopo i crash si trovano senza niente per la loro vecchiaia, sono stati tra i primi ad assaporare questa morte a credito. Non era che l’inizio; quando la crisi si ripercuoterà davvero sulla realtà – quando un brutale aumento della disoccupazione e della precarizzazione si accompagnerà ad una forte caduta nelle entrate dello Stato -, si vedranno settori interi della vita sociale abbandonati all’arte di sopravvivere giorno per giorno.
Le diverse crisi – economica, ecologica, energetica – non sono semplicemente “contemporanee” o “collegate”: sono l’espressione di una crisi fondamentale, quella della forma-valore, della forma astratta, vuota, che si impone ad ogni contenuto in una società basata sul lavoro astratto e sulla sua rappresentazione nel valore di una merce. È tutto un modo di vita, di produzione e pensiero, vecchio di almeno duecentocinquanta anni, a non sembrare più capace di assicurare la sopravvivenza dell’umanità. Forse non ci sarà un “venerdì nero” come nel 1929, un “giorno del Giudizio”. Ma ci sono buone ragioni per pensare che stiamo vivendo la fine di una lunga epoca storica7: l’epoca in cui l’attività produttrice e i prodotti non servono a soddisfare bisogni, ma ad alimentare il ciclo incessante del lavoro che valorizza il capitale e del capitale che impiega il lavoro. La merce e il lavoro, il denaro e la regolazione statale, la concorrenza e il mercato: dietro le crisi finanziarie che si ripetono da oltre venti anni, ogni volta più gravi, si profila la crisi di tutte queste categorie. Che, è sempre bene tenerlo a mente, non fanno parte ovunque e sempre dell’esistenza umana. Esse si sono impossessate della vita umana nel corso degli ultimi secoli, e potranno in seguito dar luogo a qualcosa di diverso: di migliore o di ancora peggiore. Forse ci sarà una piccola ripresa nei prossimi mesi, o anche nei prossimi anni8. Ma la fine del lavoro, del vendere, del vendersi e del comprarlo, la fine del mercato e dello Stato – tutte categorie che non sono in alcun modo naturali e che un giorno scompariranno, nello stesso modo in cui esse hanno sostituito altre forme di vita sociale – è un processo di lunga durata. La crisi attuale non ne è né l’inizio né la conclusione, bensì una importante tappa.
Ma perché questa critica, pressoché la sola a trovarsi confermata dalla crisi recente, suscita così poca attenzione? Essenzialmente perché nessuno può veramente immaginare la fine del capitalismo. La stessa idea suscita una fifa blu. Ognuno pensa di avere troppo poco denaro, e ognuno si sente minacciato nella sua esistenza, anche sul piano fisico, se il denaro ha l’aria di svalutarsi e di perdere il suo ruolo nella vita sociale. Nella crisi, i soggetti si aggrappano più che mai alle sole forme di socializzazione che conoscono. C’è un accordo generale almeno su una cosa: bisogna sempre continuare a vendere, a vendersi e a comprare. Ecco perché è difficile reagire a questa crisi o organizzarsi per farvi fronte: perché non è loro contro di noi. Bisognerebbe combattere il “soggetto automatico” del capitale, che abita anche in ciascuno di noi, e dunque una buona parte delle nostre abitudini, gusti, pigrizie, inclinazioni, narcisismi, vanità, egoismi… Nessuno vuole guardare il mostro in faccia. Quanti deliri, pur di non mettere in discussione il lavoro e la merce, o semplicemente l’automobile! “Grandi scienziati” sragionano su satelliti giganti capaci di rinviare al mittente una parte dei raggi solari o su apparecchi capaci di raffreddare gli oceani. Si propone “di produrre legumi nelle serre idroponiche o anche aeroponiche” e di fabbricare carne “direttamente a partire da cellule staminali”; e di ricercare le risorse mancanti letteralmente sulla luna: “essa racchiude, tra l’altro, un milione di tonnellate di elio-3, il carburante ideale per la fusione nucleare. Una tonnellata di elio-3 dovrebbe valere circa sei miliardi di dollari, vista l’energia che può fornire. E non è che una delle ragioni per le quali tanti paesi pensano intensamente ad un ritorno sulla luna” 9. Nello stesso spirito, si propone di “adattarsi” ai mutamenti climatici invece di combatterli10. Piuttosto che sfuggire al “terrore economico”, se ne raddoppia la minaccia: “Più che mai le organizzazioni e gli umani che sapranno, potranno e vorranno adattarsi hanno un avvenire economico e sociale. I fautori dell’immobilismo potrebbero perdere ogni impiegabilità” e dunque scomparire dal mondo11. Malthus l’aveva già detto: la fame è il miglior educatore al lavoro. Tutto ciò che non serve alla valorizzazione del capitale è un lusso, e in tempi di crisi il lusso non è più opportuno. Non è una perversione, è del tutto logico in una società che ha fatto della trasformazione del denaro in più denaro il suo principio vitale.
Tableau apocalittico, ci si ribatterà: si annuncia la fine del capitalismo da quando è nato, ad ogni difficoltà che incontra. Tuttavia esso rinasce dopo ogni crisi, come l’araba fenice risorge dalle proprie ceneri. Al contempo, ogni volta esso è cambiato ed oggi è molto diverso da ciò che era nel 1800, nel 1850 o nel 1930. Non assistiamo ad un’ulteriore trasformazione di questo genere, nella quale esso muterebbe per meglio perdurare? Perché questa crisi sarebbe più grave di tutte quelle che si susseguono da più di 200 anni? Il capitalismo non potrebbe continuare ad esistere sotto forme atipiche, tra catastrofi e guerre? La crisi non sarebbe forse la forma eterna della sua esistenza, se non addirittura di quella delle società storiche in generale? Redigere la lista di tutte le disfunzioni del capitalismo attuale non può costituire – così prosegue l’obiezione – la prova della sua crisi finale, a meno che non si consideri il breve periodo fordista di stabilità come il solo funzionamento possibile del capitalismo e tutte le sue altre forme di esistenza come deviazioni. Le guerre civili in Africa e la rifeudalizzazione in Russia, il fondamentalismo islamista e la precarizzazione in Europa dimostrerebbero solamente che era impossibile estendere il modello fordista, in quanto tale, al mondo intero, ma non il fallimento del capitalismo, che in quanto sistema mondiale consisterebbe appunto nella coesistenza di tutte queste forme, ciascuna delle quali, nel proprio contesto, sarebbe utile al sistema mondiale. Il capitalismo potrebbe anche funzionare molto diversamente da come ha funzionato nell’Europa degli anni sessanta: questo non farebbe che dimostrare la sua flessibilità. Le distruzioni che causa, dall’atomizzazione degli individui e dalla dissoluzione della famiglia fino alle malattie fisiche e psichiche e all’inquinamento, non sarebbero necessariamente un sintomo di crisi – questi fenomeni creerebbero sempre nuovi bisogni e settori di mercato, che permettono all’accumulazione di procedere.
Ma questa obiezione non tiene: descrive la nascita e la perpetuazione di forme sempre mutevoli di dominio e di sfruttamento, ma non l’emergenza di nuovi modelli di accumulazione capitalistica. Le forme “non classiche” di creazione del profitto non possono aver luogo che come partecipazione indiretta al mercato mondiale, dunque parassitando i circuiti globali del valore (per esempio: vendendo cara la droga ai paesi ricchi, certi paesi del “Sud” dirigono verso di sé una parte del “vero” plusvalore ottenuto nei paesi ricchi). Se la creazione di valore nei centri industriali dovesse estinguersi completamente, sarebbe la fine anche per i baroni della droga e i trafficanti di bambini. Essi allora potrebbero tutt’al più costringere di nuovo i loro sudditi a produrre un surplus agricolo, materiale per i loro padroni. Ma anche i difensori più convinti dell’eternità del capitalismo non oserebbero più chiamare tutto ciò un “nuovo modello di accumulazione capitalista”.
Più in generale, occorre sempre ricordarsi che i servizi e le ristrutturazioni non sono lavori che producono capitale, ma dipendono dai settori produttivi. Non è solo la teoria di Marx a dirlo (e su questo punto, ancor più che sugli altri, essa non è arrivata fino ai marxisti), ma anche l’esperienza di tutti i giorni: in tempi di recessione, cultura ed educazione, protezione della natura e salute, sovvenzioni alle associazioni e difesa del patrimonio, lungi dal poter servire da “motore per la crescita”, sono i primi a essere sacrificati per “carenze finanziarie”.
Certo, non si può “dimostrare” in astratto che assistiamo alla fine della plurisecolare società della merce. Ma certe tendenze recenti sono effettivamente nuove. Un limite esterno è stato raggiunto con l’esaurimento delle risorse – e soprattutto della risorsa più importante e meno sostituibile: l’acqua – e con i cambiamenti irreversibili del clima, le specie naturali perdute, i paesaggi scomparsi. Allo stesso modo, il capitalismo si dirige verso un limite interno, perché la sua direttrice di sviluppo è lineare, cumulativa e irreversibile, e non ciclica e ripetitiva come altre forme di produzione. È la sola società mai esistita che contenga alla sua base una contraddizione dinamica, e non solo un antagonismo: la trasformazione del lavoro in valore è storicamente votata all’esaurimento a causa delle tecnologie che sostituiscono il lavoro.
I soggetti che vivono in questa epoca di crisi esterna e interna subiscono anche un logoramento delle strutture psichiche, le quali da tanto tempo hanno definito ciò che è l’uomo. Al contempo, questi soggetti nuovi e imprevedibili si trovano nella situazione di dover amministrare potenziali di distruzione inauditi. Infine, la riduzione della creazione di valore nel mondo intero comporta il fatto che, per la prima volta, esistono – e dappertutto – popolazioni in eccesso, superflue, che non servono nemmeno più ad essere sfruttate. Dal punto di vista della valorizzazione del valore, è l’umanità che inizia a essere un lusso superfluo, una spesa da eliminare, un “eccedente” – e qui si può parlare di un fattore del tutto nuovo nella storia!
Purtroppo, la “crisi” non comporta un’“emancipazione” garantita. Esiste molta gente arrabbiata perché ha perduto il suo denaro, la sua casa o il suo lavoro. Ma questa rabbia, a differenza di ciò che la sinistra radicale ha sempre creduto, non ha, in quanto tale, nulla di emancipatorio. La crisi attuale non sembra propizia all’emergenza di tentativi emancipatori (almeno in una prima fase), ma al “si salvi chi può”. D’altra parte, essa non appare neppure orientata alle grandi manovre di ristabilimento dell’ordine capitalista, ai totalitarismi, ai nuovi regimi autoritari di accumulazione. Ciò che si annuncia ha piuttosto l’aria di essere una barbarie a fuoco lento, e non sempre evidente. Piuttosto che il grande crash, ci si può aspettare una spirale discendente all’infinito, una depressione permanente che lascia il tempo di abituarcisi. Si assisterà sicuramente a una diffusione spettacolare dell’arte di sopravvivere in mille modi e di adattarsi a tutto, piuttosto che a un vasto movimento di riflessione e di solidarietà, nel quale tutti mettono da parte i loro interessi personali, gettano nel dimenticatoio gli aspetti negativi della loro socializzazione e costruiscono insieme una società più umana. Perché accada una cosa simile, dovrebbe prima verificarsi una rivoluzione antropologica. Si può difficilmente affermare che le crisi e i tracolli in corso faciliteranno una rivoluzione di questo genere. Di più, anche se la crisi comporta una “decrescita” forzata, questa non va necessariamente nella giusta direzione. La crisi non colpisce in primo luogo i settori “inutili” dal punto di vista della vita umana, ma quelli “inutili” dal punto di vista dell’accumulazione del capitale. Non si ridurranno le spese per le armi, ma quelle per la salute – e una volta che si è accettata la logica del valore, protestare contro tutto ciò è abbastanza incoerente. Allora, bisogna cominciare con piccole cose, l’aiuto tra vicini, i sistemi locali di scambio, l’orto davanti casa, il volontariato nelle associazioni, le “AMAP” (Association pour le maintien d’une agriculture paysanne)? Certo, è carino. Ma voler contrastare il crollo del sistema mondiale con mezzi simili equivale a voler svuotare il mare con un cucchiaio.
A che cosa approdano queste considerazioni disincantate? Almeno ad un po’ di lucidità. Si può così evitare di ingrossare le fila dei populisti di ogni sorta che si limitano ad imprecare contro le banche, la finanza e le borse e contro i loro presunti gestori. Questo populismo condurrà facilmente alla caccia ai “nemici del popolo”, in basso (gli immigrati) e in alto (gli speculatori)12, evitando ogni critica contro le vere basi del capitalismo, che invece appariranno come la civiltà da tutelare: il lavoro, il denaro, la merce, il capitale, lo Stato.
Tutto ciò produce effettivamente la vertigine di immaginare la fine di un modo di vivere dentro il quale siamo risucchiati fino al collo e che, ora, sta per sprofondare senza che nessuno l’abbia deciso, lasciandoci immersi in un paesaggio di rovine. Tutti i presunti antagonisti di un tempo, il proletariato e il capitale, il lavoro e il denaro accumulato rischiano di scomparire insieme, avvinti nella loro agonia: è la base comune dei loro conflitti che si sta estinguendo.
Per uscire da questa situazione, ci vuole un così gran balzo nell’ignoto che chiunque – e lo si capisce! – lo rifiuta inizialmente. Ma il fatto di vivere in un simile confine d’epoca è, malgrado tutto, anche una chance inaudita. Dunque: che la crisi si aggravi13! Non si tratta di “salvare” la “nostra” economia e il “nostro” modo di vita, ma di spingerli a scomparire più velocemente, dando intanto vita a qualcosa di meglio. Prendiamo l’esempio dei lunghi conflitti recenti nell’educazione e nell’Università: piuttosto che lagnarsi della riduzione dei fondi per l’istruzione e la ricerca, non sarebbe meglio mettere in discussione il fatto stesso che non si hanno educazione e ricerca se non sono “redditizie”? Si deve rinunciare a vivere perché l’accumulazione del capitale non funziona più?
Finalmente, l’uscita, è il titolo di un quadro di Paul Klee. Durante la breve crisi dell’ottobre 2008 si aveva un po’ l’impressione che il coperchio stesse per saltare: si cominciava a discutere apertamente dei misfatti e dei limiti del capitalismo. Malgrado tutto si può allora confidare nel fatto che durante una grave crisi prolungata le lingue si scioglieranno, i tabù e gli interdetti svaniranno, che numerose persone metteranno spontaneamente in discussione ciò che consideravano “naturale” o “inevitabile” fino al giorno prima e cominceranno a porre le questioni più semplici e meno spesso sollevate: perché c’è crisi se ci sono fin troppi mezzi di produzione? Perché morire di stenti, se esiste tutto il necessario (e anche molto di più)? Perché accettare che venga fermato tutto ciò che non serve all’accumulazione? Bisogna rinunciare a tutto ciò che non si può pagare? Forse, malgrado tutto, come nelle favole, verrà detta la parola che romperà l’incanto.
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