lunedì 14 dicembre 2015

Per favore, non parliamo più delle “quattro banche” di Andrea Baranes

 
banca etruriaLa colpa è dei risparmiatori che dovevano informarsi. Oppure è delle banche, che hanno piazzato titoli spazzatura. È di chi doveva vigilare, Banca d’Italia in testa. È del governo e del pasticcio del decreto salva­banche. È dell’UE e delle sue regole. Negli ultimi giorni è esploso il dibattito sul salvataggio di CariFerrara, Banca Etruria, Banca Marche e CariChieti, per cercare di individuare responsabilità e colpe.
Certo è che una banca non dovrebbe vendere a clienti inesperti prodotti come delle “opzioni certificates su sottostanti cartolarizzati”. Difficile anche solo capire di cosa si tratta, figuriamoci investirci i propri risparmi. Per questo esiste una normativa europea – la Mifid – che prevede che le banche, prima di vendere un prodotto, facciano quella che si chiama la profilatura del cliente, ovvero verifichino la conoscenza degli strumenti finanziari, la propensione al rischio, gli obiettivi dell’investimento.
Peccato poi che si scopra che il 75% della clientela – anche chi aveva un’istruzione media inferiore – è risultato figurare sui tre livelli più alti di conoscenza ed esperienza finanziaria. Dati a dire poco strani, ma che trovano una spiegazione se si viene a sapere quanto le strutture commerciali vengano pressate per raccogliere volumi e incentivi. Se da un’indagine della Consob risulta “il costante e penetrante controllo delle performance di rete” e “forme di pressione per raggiungere i budget”; se, come rivelato dalle parole di un dirigente: “forse non mi sono spiegato: vanno fatti i numeri”. Come dire vendita di prodotti in conflitto di interesse; forme di marketing scorrette; fissare obiettivi in funzione delle esigenze della società, privando l’investitore di alternative; e chi più ne ha più ne metta.
Fermi un momento. Quanto scritto non è relativo alle famigerate quattro banche oggi nell’occhio del ciclone. E’ relativo a Poste Italiane. E’ riportato nel procedimento della Consob verso le care vecchie Poste, da sempre considerato il porto sicuro in cui gli italiani depositano il proprio risparmio. E non parliamo di un periodo lontano nel tempo, ma degli anni tra 2011 e 2013.
Per carità, non vogliamo dire che tanto lo facevano (quasi) tutti. Nessuno intende sminuire le responsabilità degli amministratori delle quattro banche salvate negli scorsi giorni, i prestiti agli amici degli amici o la necessità di comprendere eventuali comportamenti fraudolenti. Dobbiamo però essere chiari su un punto: non è possibile, al continuo ripetersi di ogni problema, scandalo, truffa, fallimento, salvataggio o disastro finanziario continuare a parlare delle proverbiali poche mele marce, concentrarsi sul caso singolo perdendo di vista il quadro generale. È l’intero sistema finanziario a essere autoreferenziale, ipertrofico e intrinsecamente instabile. Negli ultimi sette anni i salvataggi e gli interventi a favore del sistema bancario potrebbero essere costati oltre 4.000 miliardi di dollari. Questo mentre, tra il 2012 e il 2014, le banche hanno pagato 139 miliardi di dollari di sanzioni alle sole autorità statunitensi. Un operatore finanziario su quattro negli USA e uno su tre in Gran Bretagna riconosce candidamente che commetterebbe un delitto per fare soldi se fosse sicuro di non essere preso.
Il sistema finanziario negli USA rappresenta il 7% del PIL ma assorbe circa il 30% dei profitti. Com’è possibile che la finanza, continuamente e costantemente, realizzi dei tassi di profitto superiori a quelli dell’economia? Un sistema che assomiglia sempre di più a un gigantesco schema di Ponzi, dal nome del celebre truffatore attivo negli USA negli anni ’20. Ponzi prometteva guadagni mirabolanti, ma si limitava a girare ai primi clienti una parte delle risorse che arrivavano da quelli nuovi. Per un po’ il sistema sembrava funzionare, attraendo nuovi sprovveduti, i cui capitali venivano in parte usati per dare l’impressione che si stavano realizzando i profitti promessi, finché il castello di carte non è fragorosamente crollato. Se oggi l’economia nel mondo cresce tra il 2 e il 3% – molto meno in Europa, per non parlare dell’Italia – ma tutti pretendiamo il 5% o più dai nostri investimenti finanziari, forse abbiamo un problema.
Solo uno dei paradossi attuali. I manuali di economia spiegano che le banche lavorano con i risparmi depositati dai clienti, e sono vigilate da un ente di controllo, solitamente la banca centrale. Oggi la situazione è diametralmente opposta. Con il Quantiative Easing la BCE pompa liquidità nel sistema finanziario al ritmo di 60 miliardi di euro al mese. D’altra parte, con il bail­in sono azionisti, obbligazionisti e clienti su cui ricadono le perdite in caso di crisi ­ risparmiatori senza alcuna esperienza, in un mondo finanziario senza trasparenza ­ a essere chiamati a controllare quello che combinano le banche.
Gli stessi azionisti, obbligazionisti e clienti che si attendono un profitto dai propri investimenti finanziari, con il problema che la montagna di soldi immessi dalla Banca Centrale sta schiacciando i rendimenti dei titoli “tradizionali”. Basta vedere i titoli di Stato italiani con rendimenti negativi. Una situazione che spinge fondi pensione e di investimento, banche e altri investitori verso titoli sempre più rischiosi, alla ricerca dei rendimenti che i clienti si aspettano.
Clienti che si ritrovano prodotti sempre più complessi e più rischiosi. Ecco il gigantesco schema di Ponzi alimentato dalla liquidità delle banche centrali per estrarre profitti superiori alla crescita dell’economia. Per quanto potrà durare? E al prossimo crack ci limiteremo nuovamente a rileggere le prime righe di questo articolo? Nuovamente, tutti a domandarsi se “la colpa è dei risparmiatori che avrebbero dovuto informarsi. Oppure è delle banche, che hanno piazzato titoli spazzatura ai propri clienti. È di chi doveva controllare e vigilare, Banca d’Italia in testa, e non l’ha fatto. È del governo…”. E via per un altro giro di giostra.
Andrea Baranes - nonconimieisoldi.org

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