sabato 12 dicembre 2015

Piazza Fontana. La strage è di Stato

Piazza Fontana. La strage è di Stato
46 anni. Quasi mezzo secolo. Per la generazione che in tutto il pianeta si era appena affacciata al mondo chiedendo e pretendendo, anche in modo "poco educato", un deciso passo avanti verso un sistema più giusto, umano, egualitario, fu tutto un navigare pericoloso tra stragi, attentati, colpi di stato, carcere, repressione.
Qui in Italia, in particolare, la strage di Piazza Fontana fu un autentico big bang. Con conseguenze ampiamente impreviste dagli assassini al governo, che prima avallarono e poi cercarono disperatamente di coprire gli esecutori materiali della strage di Piazza Fontana. Conseguenze inattese perché, come tutti gli atti di terrorismo o repressione governativi, l'intento è quello di spaventare, convincere a rinunciare, ad arrendersi, a tornare a casa. Questo non avvenne, nonostante il potere avesse preventivamente preparato la "pista anarchica" da gettare in pasto a un'opinione pubblica disrientata a bella posta. con la complicità quasi totale - nei primi giorni, almeno - della stampa nazionale.
Partì una controinchiesta ormai famosa, che produsse in pochissimo tempo il libro che ancora oggi viene ristampato, letto, condiviso da chiunque intuisca che il potere mente. Sempre.
Pubblichiamo qui la nota editoriale di Odradek, casa editrice militante che ancora oggi ristampa il libro La strage di Stato, opera collettiva di soli 15 compagni. Un miracolo d'altri tempi.
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La strage di piazza Fontana ha cambiato la storia d'Italia. Su questo non esiste praticamente difformità di opinione tra nessuno dei principali o secondari soggetti politici, osservatori, politologi, storici attendibili o contafrottole di bassa lega. Le bombe esplose il 12 dicembre inaugurarono la “strategia delle stragi”, prolungatasi fino al 1980 – quella con il bilancio più alto di vittime, il 2 agosto, alla stazione di Bologna. Tutte incontrovertibilmente stragi di Stato, ovvero stragi compiute da uomini facenti parte direttamente degli apparati più “coperti” dello Stato, oppure da fascisti da loro personalmente organizzati, indirizzati, finanziati, protetti – senza alcuna eccezione – fino al momento di andare in tipografia con questa nuova edizione.
Il libro La strage di Stato ha a sua volta cambiato la storia di questo paese. Non la “mentalità della sinistra”, ma proprio la Storia in senso stretto. Ha infatti impedito che la strage di piazza Fontana raggiungesse il suo scopo: far scattare un “riflesso d'ordine” nel paese, chiudere il biennio rosso '68-'69, rinchiudere nuovamente gli studenti nel ghetto delle scuole e gli operai nell'inferno delle fabbriche, senza più resistenze, contestazioni, antagonismo.
Come è potuto riuscire un libretto scritto da 15 anonimi compagni qualsiasi, alcuni dei quali allora praticamente bambini (con il metro attuale), a fare tanto?
Con l'inchiesta, attenta e non indulgente alle facili suggestioni. Una controinchiesta, più precisamente.
Ma andiamo con ordine. 
Lo scopo politico della strage di Milano poteva essere realizzato soltanto se tutta l'Italia fosse rimasta convinta che i responsabili fossero alcuni di quegli “estremisti di sinistra” che quotidianamente attraversavano in corteo le strade della penisola. I più deboli tra quegli “estremisti” – sul piano politico, delle allenze o anche solo nell'immaginario sociale – erano gli anarchici. Loro – fu deciso nelle segrete stanze dei palazzi governativi e di quelli della cospirazione governante – dovevano essere indicati come i responsabili di una mattanza tanto truce quanto ingiustificabile. Non un’azione di guerriglia, per quanto poco comprensibile potesse essere. Una strage casuale, invece, indifferente nella scelta delle vittime. C'è un legame di continuità – ma anche una decisa rottura – con la strage di Portella delle Ginestre, compiuta il primo maggio del '47. Quella infatti aveva preso di mira una manifestazione sindacale, “i comunisti” in festa sotto le bandiere rosse. Troppo facile individuarne i mandanti politici. A Milano nel '69 si prova a rovesciare le parti vittima-carnefice, ma ad esclusivo beneficio dell'immaginario popolare.
Il gioco, si diceva, non riesce grazie alla resistenza del movimento degli studenti, che istintivamente non accetta l’idea stessa che gli anarchici possano essere responsabili di una strage del genere. Ma un ruolo enorme, decisivo, va al movimento operaio, che fin dal primo momento si slega dalla tutela idiota del Pci – altrettanto immediatamente aggregatosi, tramite il proprio quotidiano, l'Unità, al coro dei reazionari che gridavano al “mostro Valpreda”.
Il gruppo di compagni che ha redatto questo libro, giorno dopo giorno, dà corpo alla convinzione di tanti. La strage è di Stato. E lo provano proprio smontando pezzo pezzo l'"inchiesta" poliziesca che per mano del commissario Calabresi, del questore Guida e del capo della squadra politica, Allegra, si erano indirizzate "a colpo sicuro" sugli anarchici.
L'altro elemento che scombina il “piano” di incriminazione di Valpreda e compagni è la morte di Giuseppe Pinelli all'interno dalla questura di Milano. Per giustificare questa morte gli “inquirenti” milanesi fanno ricorso a una massa di “giustificazioni ad hoc” che, nel loro insieme, compongono un quadro senza senso, una massa di contraddizioni che è da sola una ammissione di colpevolezza. Smagliature nella trama della “verità di Stato” che doveva seppellire gli anarchici – e con loro il '68-'69 – sotto l'infamia e la condanna popolare. Dentro queste smagliature gli autori della controinchiesta infilano il robusto cuneo dell'intelligenza politicamente orientata ma niente affatto cieca o preconcetta. Fino a smontare completamente la versione della polizia sia in merito alla strage di piazza Fontana, sia alla morte di Pinelli. I due fatti stanno insieme, indissolubilmente. Se gli anarchici sono innocenti, la polizia è colpevole per la morte di Pinelli. E anche per la strage (sa chi sono i responsabili, o chi l'ha ordinata, ma si muove consapevolmente e volontariamente all'interno dello stesso “disegno criminoso”, indirizzando le indagini nella direzione voluta da chi ha compiuto la strage). 
Di qui non si esce. La versione finale della procura di Milano sulla morte di Giuseppe Pinelli (un “malore attivo”; non proprio un suicidio, ma quasi) è un monumento all'impunità dei funzionari dello Stato, all'ipocrisia del potere, alla mai abbastanza riconosciuta dipendenza della magistratura dal potere politico. Il fatto che l'archiviazione delle indagini sulla morte di Pinelli porti la firma di Gerardo D'Ambrosio è la chiusura di un cerchio – logico e politico -, non un “incidente di percorso”. Certo, oltre D’Ambrosio, alcuni altri “santi” dell‘iconografia ufficiale escono male da queste pagine. Lo stesso Calabresi, credibilmente raggiunto da un attentato di sinistra, e Occorsio, ucciso dal neofascista Concutelli, non fanno una gran figura di “democratici”. Ma questo è un problema di chi nel “doppio Stato” crede. Non degli antagonisti.
La controinchiesta non si limita a demolire quella poliziesca. Va un attimo più in là, individuando nei fascisti i possibili “manovali” di una strage decisa “nelle alte sfere”. È straordinario come in questa autentica inchiesta non venga mai smarrito il senso della realtà, della misura, l'attenzione alla verità per come è. 
Questo, infatti, non è un libro dietrologico. Non ricostruisce fatti trascegliendo solo gli avvenimenti che possono far comodo alla versione che si intende sostenere. Non chiude gli occhi di fronte alla violenza dicendo – cioè mentendo – che “la violenza è solo fascista”. Sa vedere e distinguere la violenza dei fascisti, quella dello Stato e anche quella del movimento antagonista. Se c'è conflitto – sembra banale dirlo, ma a molti suona oggi quasi come un'eresia – i colpi si prendono, ma si danno anche. Questo libro non ha insomma nulla a che spartire con quella subcultura della “teoria del complotto universale” fiorita negli anni successivi. Gli autori non cadono mai nella trappola della teoria del “doppio Stato”, cara ai dietrologi (pseudo-storici) di ascendenza Pci che si sono, al massimo, limitati a definire le stragi come semplicemente fasciste. Non credono insomma che in Italia sia mai esistito uno “Stato buono” che conviveva conflittualmente con quello “cattivo”. Lo Stato era ed è soltanto uno: l'apparato (i servizi, la polizia, i carabinieri, la magistratura, ecc.) non si muove indipendentemente dal potere politico. Ma lo Stato non è neppure la riproduzione organizzata delle molteplici presenze politiche in parlamento. Esistono anche nell'apparato i “sinceri democratici” o semplicemente i funzionati onesti. Ma la controinchiesta svela senza possibilità di errore come i secondi vengano sempre rimossi, sostituiti, allontanati, quando la loro opera non coincide con le finalità dell'azione generale dell'apparato. 
Senza teoria del “doppio Stato” non ci può essere dietrologia. La dimostrazione di una simile affermazione sta tutta nel fatto che quasi quattro anni di governo di centrosinistra (la stessa formula in vigore nel '69, ma con in più una fetta consistente dell'ex Pci) e un ministro dell'interno ex "comunista" non hanno fatto uscire dagli archivi una sola notizia in più sulle stragi e i loro autori. Quando i dietrologi sono andati al governo, insomma, la verità sulle stragi è rimasta occultata esattamente come prima. Il che dimostra non solo la loro malafede, ma l'inattendibilità stessa della “teoria”. In questo senso La strage di Stato è un libro sull'irriformabilità democratica dello Stato, quanto meno di questo paese, sul suo consistere reazionario indipendentemente dal succedersi di governi che se ne servono senza mai metterlo in discussione.
Senza illusioni su una sempre invisibile “parte buona dello Stato”, insomma, ci può invece essere la capacità di vedere le cose come stanno. È questa inchiesta che porta per la prima volta alla ribalta della notorietà nomi che diventeranno tristemente famosi nei decenni successivi: Sindona, Marcinkus, Rauti e tanti altri che ricorreranno come una litanìa in tutti gli scandali a sfondo golpistico tra i '70 e gli '80.
Dopo trent'anni le stragi sono ancora e sempre “impunite”. È un'espressione ormai consunta. Perché mai lo Stato dovrebbe punire se stesso per quello che ha fatto? Perché dovrebbe, se i movimenti che lo misero in crisi, e per la cui repressione la strategia delle stragi prese corpo, non sono più sulla scena politica? Perché dovrebbe criticarsi, se i suoi più accesi critici hanno percorso in pochi anni la via del “pentimento” e l'approdo al liberismo più selvaggio, al bellicismo senza remore, alla distruzione sistematica delle residue garanzie della forza lavoro?
Al contrario, quanti si sono opposti allo Stato stragista – qualcuno anche armi alla mano – sono stati tutti e più che duramente “puniti”. E oltre duecento prigionieri politici di sinistra, e altrettanti esuli, a vent’anni dai fatti, stanno ancora lì a dimostrarlo. Come non mettere a confronto la raffica di assoluzioni nei processi per piazza Fontana, Brescia, l'Italicus, la stessa stazione di Bologna, e i ben trentadue ergastoli dati – e scontati – per il sequestro di Aldo Moro? Come non vedere che i Merlino, i Delle Chiaie, i Tilgher sono tuttora personaggi politicamente attivi, protetti, assistiti, senza aver praticamente mai conosciuto la galera? L'evoluzione degli avvenimenti a partire dal '69 non lascia molti dubbi. Al di là delle diverse teorie e progetti politici dei diversi gruppi armati di sinistra negli anni '70, è storicamente certo – evidente, diremmo – che la straordinaria partecipazione quantitativa alle organizzazioni armate di sinistra trova una delle sue più forti ragioni proprio nella reazione allo Stato delle stragi.
Un libro, dunque, non per “ricordare”. Leggere La strage di Stato serve a capire l'oggi, da dove viene questo paese, da quale storia sorge il presente, di quali infamie sia capace il potere pur di conservarsi. Un libro, ma soprattutto un metodo. Che non è l’esercizio della “memoria” – costa moltissimo e dura sempre troppo poco – ma un modo di guardare il presente. Una diffidenza vigile, una convinzione non contingente nelle proprie ragioni, un’interrogarsi costante. Guardare con gli occhi bene aperti, non credere alle favole dei media, imparare a distinguere sempre (tra il compagno ingenuamente estremista e l'agente provocatore infiltrato, per esempio!). Perché l'antagonismo ha bisogno di intelligenza, soprattutto. Di “rabbia” è fin troppo pieno questo schifo di mondo.
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A proposito di dietrologie e misteri, a proposito del doppio Stato
Abbiamo ripubblicato questo libro senza pensarci troppo su. Ci sembrava, da una parte, un atto dovuto, e dall’altra un’operazione nemmeno troppo politica. Di memoria, più che altro.
Sbagliavamo. Perché in questo paese, in cui il passato non passa mai, ogni operazione di memoria è un’indagine sul presente.
Lo Stato è sempre lo stesso lo stesso che negli anni venti metteva le bombe all’hotel Diana di Milano per far ricadere la colpa sugli anarchici; sempre la stessa mancanza di fantasia, tra l’altro.
Ma lo Stato non è soltanto gli apparati che lo compongono, è anche il consenso che riesce a costruire, o, in ultima istanza, la capacità di decostruire le opposizioni, la capacità di dividere, di mistificare, di disinformare.
Leggetevi l’articolo di Sandro Portelli sul “manifesto” che riguarda la proibizione di esporre striscioni razzisti e fascisti; è stata interpretata da un commissario di p.s. di Cagliari che ha fatto sequestrare uno striscione dei tifosi perugini che riportava semplicemente il nome del loro gruppo “Armata rossa”.
E non mi pare che qualcuno abbia protestato nei confronti di un simile sopruso; men che mai i giornali. Anzi, i giornalisti, sono i primi a reinterpretare benevolmente le interpretazioni unilaterali che lo Stato, dal primo magistrato all’ultimo agente, fa nelle sentenze o nell’elevare contravvenzioni.
Prendi un principio, un assioma, un’equazione e troverai il bravo giornalista [Da.Lu., per essempio] che dirà, ma basta, ancora? Distinguiamo...
Tu scrivi, stringendoti nelle spalle, quasi scusandoti dell’ovvietà: “La strage è di Stato” e trovi subito un giornalista che scrive, a proposito della prefazione che come editori abbiamo premesso al libro:
“Riproducendo lo schema amico-nemico, utilizzando analisi semplificate sui fatti di quegli anni, ma anche su quelli successivi, dividendo il mondo tra buoni e cattivi, rischia di indirizzare un’opera teoricamente indirizzata a tutti (la verità non appartiene a nessuno) in quella destinata soltanto a chi la pensa allo stesso modo”.
Che dovevamo scrivere? che la “strage è un po’ di Stato e un po’ no”? Dovevamo riconoscere, alla maniera di Violante, le ragioni dei fascisti? Ahinoi, questo libro è a prova di revisionismo. Non lo si può edulcorare, né manipolare. Tanto è vero che è no copyright e sta integralmente su Internet. Non ci è venuto in mente, e nemmeno ce ne scusiamo. Che “la verità appartiene a tutti”, inoltre, non è affatto pacifico. La verità è un processo innanzitutto, e poi un costrutto, un’affermazione che vuole corrispondere all’oggetto, opera del lavoro (manuale e intellettuale); non un fiume o una pietra. La verità, vogliamo dire, va trovata e riesumata. Come la libertà, insomma. C’è chi la verità non vuole neppure vederla, e chi fa di tutto per nasconderla. 
Questo libro dimostra che la verità non appartiene a tutti, ma solo a coloro che se la vanno a prendere, contro tutto e nonostante tutti.
Non per polemizzare con questo giornalista. Ma ci critica perché scriviamo che dopo trent’anni, senza nessuna condanna, “lo Stato si autoassolve”. 
Altra affermazione che tutto ci sembrava meno che una forzatura: l’unico a farsi tre anni galera è stato Valpreda, poi prosciolto.
A noi che scriviamo che “lo Stato si autoassolve” Da.Lu. risponde:

«Non è proprio così, per chiunque abbia letto l’ordinanza del giudice Guido Salvini. Fra l’altro, per avere ostinatamente cercato la verità (e non avere assolto lo Stato) il magistrato e il suo investigatore principale (un carabiniere, un giovane capitano) hanno entrambi pagato uno scotto (procedimenti disciplinari e penali)».
Appunto. E noi abbiamo detto proprio questa cosa.
Anzi, forzando un po’ il nostro più intimo pensiero, avevamo concesso: «Esistono anche nell’apparato i “sinceri democratici” o semplicemente i funzionari onesti. (!!!) Ma la controinchiesta svela senza possibilità di errore come questi vengano sempre rimossi, sostituiti, allontanati, quando la loro opera non coincide con le finalità dell’azione generale dell’apparato».
E allora, di che stiamo parlando? Se qualcuno ha fermato Salvini, insomma, ciò dimostra proprio una “volontà di autoassoluzione” da parte dello Stato.
Semmai abbiamo scritto una cosa ben più pesante, sulla quale il giornalista ha sorvolato. Abbiamo attaccato le posizioni dietrologiche, quelle dei costruttori di MISTERI, e che sui misteri vivono di rendita. Misteri dopo trent’anni, ma andiamo!
Abbiamo scritto che non esiste “doppio Stato” - uno visibile, buono, e uno occulto, cattivo -; abbiamo scritto che lo Stato è uno, quello dei suoi apparati, delle sue istituzioni; “Commissione parlamentare sulle stragi compresa”, avremmo dovuto aggiungere. Nello spirito di questo aureo libretto. 
E concludiamo proprio con riferimento alla Commissione Stragi, quella presieduta dal senatore Pellegrino. Se la Commissione-stragi, col suo codazzo di consulenti e portaborse, avesse prodotto in otto anni la decima parte di quanto Di Giovanni, Ligini, Pellegrini & Co. hanno prodotto in sei mesi, noi non staremmo qui a ripubblicare questo libro. Non si deve dire? qualcuno si offende?
Fino a prova contraria, la strage è di Stato.
Da. Lu. (Daria Lucca?) ha tutto il diritto di non trovarsi d’accordo e di criticarci, per esempio quando dice che una prefazione di 4 pagine non è molto approfondita. Forse. Giudichino i lettori.
D’altra parte, volevamo scrivere una prefazione di servizio, anodina, non molto caratterizzata, anche per via del fatto che doveva trovare d’accordo realtà editoriali diverse tra loro. E anche perché non ci sembrava giusto che, delegati ad approntare la pubblicazione da “Un gruppo dei compagni/compagne che indagarono e scrissero 30 anni fa per smascherare la “Strage di Stato””, gli editori debordassero dai loro compiti e “mettessero il cappello”, con sproloqui chilometrici, su “un libro del movimento per il movimento”.
Una rosa è una rosa, una rosa, una rosa...
La strage è di Stato, di Stato, di Stato... 

Tanto dovevamo a chi ci ha delegato e ci ha dato fiducia. Fiducia che peraltro ci è stata completamente riconfermata.

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