È
solo l’economia reale che organizza l’opposizione al governo. Non certo
il Movimento 5 Stelle, che mostra le intenzioni bellicose contro
l’esecutivo della decostituzionalizzazione votando proprio per il
giurista amico dell’Italicum. E festeggia per aver inviato alla Consulta
un suo candidato moderato, un tempo politicamente vicino a Nicolazzi,
il ministro che fece aprire uno svincolo sull’autostrada per raggiungere
il paese d’origine.
E’
difficile stabilire se la maggiore fonte di inquietudine per il governo
sia costituita dalle grane, per salvataggi, decreti e plusvalenze, in
cui è incappata “la chierichetta” diventata ministro delle riforme, o
dalla campana a ritmo lento che suona dalle parti di via
dell’Astronomia. Il governo dei “senza retroterra” non è stato una buona
idea uscita dal senno confuso dei poteri forti.
E
ora anche la Confindustria certifica quello che tutti percepiscono
nella loro vita reale. E cioè che ““lo psicologo in capo”, che
intrattiene il pubblico con le slide e con le barzellette lo distrae per
spingerlo alla fiducia a comando, non ha combinato nulla di
costruttivo. Anzi ha peggiorato le cose, al punto che gli industriali,
incassato oro contante grazie alle generose decontribuzioni, ammettono
che «l’economia italiana, anziché accelerare, sta rallentando».
Il
mito della velocità, del cambiamento di passo, mostra la corda. E si
rivela una pura invenzione volontaristica. Per l’uscita dalla crisi non
basta una sterile invocazione magica priva di ogni efficacia reale. Dopo
i sorrisi e le canonizzazioni del premier, la Confindustria deve
ammettere che la ripresa non c’è, a dispetto di un intreccio di
irripetibili congiunture internazionali straordinariamente favorevoli. E
che, a confronto, la risposta offerta dal cacciavite di Letta era
persino più efficace del trapano impugnato dal loquace rottamatore.
Ora
gli studi della Confindustria parlano di «mistero» della stagnazione
che mette in ginocchio l’Italia. Per gli industriali «il mancato decollo
della ripartenza resta un vero rebus». Queste formule, che evocano
l’ignoto, però sono l’estremo rifugio linguistico per non indicare
chiaramente le responsabilità acclarate, che hanno un volto preciso: il
governo della narrazione. Con bonus clientelari e con l’aggressione ai
diritti del lavoro, l’esecutivo crede di surrogare l’adozione di
politiche industriali di svolta.
Nei
poteri economici comincia ad affacciarsi la sensazione che proprio il
governo dell’inesperienza, che pure sposa il loro programma massimo
contro il mondo del lavoro, costituisce un fattore di blocco. Un paese
che versa in una «stagnazione secolare» non ha bisogno di uno “psicologo
in capo” ma di una politica che poggi su altri interessi sociali
rispetto a quelli dominanti. Non funziona la ricetta che unisce
chiacchiera e precarizzazione del lavoro come fattore competitivo
sostitutivo rispetto ai costi dell’innovazione tecnologica.
Qualcosa
si sta precocemente rompendo nella costituzione materiale del renzismo.
Le cronache di fallimenti delle banche amiche, di vendite allegre di
teatri storici, di pratiche affaristiche scambiate con nomine pubbliche
sub condicione, svelano la genesi oscura della fortuna dei soldati della
rottamazione. Le ricostruzioni giornalistiche rompono il velo
protettivo e rivelano una miscela di banche, massoneria deviata,
amministrazione in appalto che ha scaldato i motori di una spettacolare
scalata al potere.
Questi
rampolli di famiglie in affari sono partiti dal controllo di una
città-azienda, conquistata grazie al soccorso delle truppe di Verdini. E
poi hanno racimolato le risorse per viaggiare in aerei privati e
affrontare la sfida dei gazebo. Hanno raccolto i fondi necessari per
edificare una potenza personale, per tessere rapporti opachi
(consulenze, promozioni, incarichi) e dare l’assalto al governo.
Senza
una colossale potenza economica-finanziaria-mediatica alle spalle, il
sindaco di una città non sarebbe mai stato così influente da essere
ricevuto dalla cancelliera tedesca. E senza l’avallo preventivo di
potenze europee, il capo dello Stato non avrebbe accettato il cambio
della guardia a palazzo Chigi, con la fine dei governi del presidente.
Liquidata la porzione di classe politica di estrazione comunista e
scacciato i sindacati dalla sala verde, i poteri influenti hanno a lungo
gioito.
E
però oggi che la gestione del potere si rivela un colossale fiasco, si
apre una riflessione in seno alle spaurite classi dominanti. E un dubbio
le divora: il governo dell’inesperienza che segue i dettami della
Confindustria non sarà un ostacolo obiettivo alla rinascita economica?
La questione l’aveva segnalata già Marx. Il quale scriveva che alla
borghesia non conviene «un autogoverno di classe» e più funzionale ai
suoi stessi interessi è il progetto di dotarsi di un ceto politico
differenziato e autonomo.
La
Confindustria deve ammettere che lo scambio tra contenuti economici
della legislazione gestiti direttamente dalle imprese e gioco della
comunicazione dato in concessione al rottamatore si rivela sempre più
inefficace. Anche i poteri forti sono costretti a cimentarsi su un
interrogativo di Weber. E cioè sono afflitti dal timore che del
marketing come tecnica competitiva, che rinvia alla padronanza politica
delle semplificazioni usate strumentalmente, con Renzi si esageri, sino a
scivolare nel marketing come sostanza di una politica che smarrisce il
senso della realtà, la complessità dell’agenda, la percezione della
temporalità.
Rispetto
alla metamorfosi del leader, che converte l’uso di ritrovati demagogici
in politica della pura demagogia o capo istrione, Weber innalzava due
antidoti: il partito strutturato, in grado di selezionare e controllare
il capo, e l’esperienza accumulata entro un apprendistato nelle
commissioni parlamentari. Entrambi questi correttivi in Italia sono
saltati, ed è il solo paese europeo ad avere avuto tre premier non
parlamentari in vent’anni.
Niente
di formalmente illegittimo, ma un presidente del consiglio senza
mandato parlamentare è la spia di una catastrofe del sistema politico. E
un leader senza un apprendistato di partito è possibile solo in un
sistema a traino populista investito da intensi momenti di antipolitica.
Dopo
aver brindato al decesso della mediazione politica, i poteri economici
tremano per i guai provocati da una classe dirigente improvvisata e
vittima della comunicazione.
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