Lo
scopo di questo articolo è principalmente quello di mettere in
discussione alcuni luoghi comuni concettuali, molto presenti nel
dibattito sullo Stato Islamico (che, d’ora in poi, nomineremo Isis – Islamic State of Iraq and Syria,
perché con questo sigla è più conosciuto, sebbene la stessa sigla
inglese più corretta, da più di un anno, sarebbe semplicemente Is – Islamic State)
in particolare in riferimento al rapporto tra l’Isis e l’Islam e a una
corretta valutazione della natura storica e della forza geopolitica
dell’Isis.
1. L’Islam non è l’Isis.
Questa affermazione non si fonda solo sulla, pur rilevante,
constatazione empirica che solo una minoranza degli islamici aderisce
alla versione wahabita-salafita dell’Islam e una ancora più minuscola
minoranza degli islamici riconosce Al Baghdadi quale legittimo Califfo.
Ci sono almeno tre fondamenti rilevanti e che non possono essere
ignorati:
A) La corrente wahabita-salafita è molto recente nella
storia islamica. Il wahabismo-salafismo si propone quale ipotesi di
“riforma” dell’Islam nel senso di una sua “purificazione”, in primo
luogo dagli influssi occidentali, ma in generale da tutte le strutture
ermeneutiche che pure hanno una lunga tradizione nella civiltà islamica.
Il punto più rilevante della teologia wahabita-salafita è la centralità
della concezione (presente anche in molte altri correnti dell’Islam)
secondo cui il Corano sarebbe “increato”, ovvero non sarebbe stato
creato da Allah, ma sarebbe co-originario ad Allah stesso. Assegnare a
questa concezione una assoluta e radicale centralità ha condotto e
conduce a condannare qualsiasi attività ermeneutico-interpretativa.
Naturalmente l’operazione ha una valenza ideologica, poiché nei fatti i
wahabiti-salafiti propongono una precisa interpretazione del Corano e
della tradizione islamica, che tuttavia presentano come non
questionabile, in virtù della suddetta non interpretabilità del Corano.
E’
evidente che questa concezione non rende conto minimamente della
complessità, della ricchezza e della pluralità di concezioni e di scuole
teologiche, spirituali e giuridiche che ha connotato l’Islam (anche
solo quello sunnita) in tutta la sua storia, e anche nel suo presente.
B)
La corrente wahabita-salafita è l’ideologia di un preciso gruppo
sociale, che ha una precisa collocazione e connotazione storica e
geografica. Si tratta dell’aristocrazia della penisola arabica, in
particolare del Regno di Arabia Saudita, in secondo luogo dell’Emirato
del Qatar, e, in misura inferiore, degli altri paesi del Golfo Persico.
Si tratta, è bene tenerlo presente, di un pezzo della classe dirigente
della globalizzazione neoliberista. L‘aristocrazia araba non solo gioca
un ruolo cruciale nel commercio della più importante materia prima del
nostro tempo, il petrolio, ma ha una grande potenza finanziaria, che ne
fa un global player di primo piano in tutti i mercati di
capitali del mondo. Storicamente, da lunghissimo tempo, l’aristocrazia
saudita è un alleato strategico degli Stati Uniti. In particolare,
l’inizio della lunga stagione che ha visto gli Usa quale unica
superpotenza globale fu segnato da una guerra (la prima guerra in Iraq,
1991) fatta per difendere, con armi americane, la monarchia
wahabita-salafita saudita dall’Iraq di Saddam Hussein. Il “nuovo ordine
globale” fu costantemente connotato dalla duratura alleanza tra Riyad e
Washington. Anche quando un settore sempre più ampio della classe
dirigente saudita cominciava ad essere attratto dalla strategia
jihadista, gli Usa tennero fede all’alleanza strategica. Addirittura di
fronte al terribile attentato delle Twin Towers, gli Usa scelsero di
colpire Saddam Hussein, abbattendo definitivamente un forte avversario
del predomino wahabita-salafita tra i sunniti in Medio Oriente. Ciò non
vuol dire che gli Usa non fossero consapevoli del pericolo globale del
terrorismo jihadista, e neppure che fossero gli “occulti” creatori del
jihadismo, come vorrebbero varie vulgate complottistiche. Più
semplicemente, credettero, e in parte credono ancora, che l’alleanza coi
sauditi potesse svolgere una funzione di contenimento, sottovalutando e
in gran parte non comprendendo il carattere totalitario dell’ideologia
wahabita-salafita. Inoltre, ed è un punto altrettanto rilevante e anche
altrettanto semplice, una larga parte della classe dirigente Usa (come
di tutte le classi dirigenti capitalistiche del nostro tempo) ha avuto e
ha in essere in forma diretta e indiretta consistenti rapporti
economici con la grande borghesia wahabita-salafita. Fondi di
investimento legati al Qatar sono azionisti, primari, di un grande
numero di grandi società francese, quotate alla Borsa di Parigi, e
nonostante si metta in discussione la Costituzione repubblicana, dopo il
13 novembre, nessuno mette in discussione le quote nel Cac 40, l’indice
delle 40 società più importanti del mercato francese. Non stiamo
insomma parlando di un soggetto outsider, ma bensì pienamente insider alla
globalizzazione neoliberista, ben determinato e ben distinto dalla
grande maggioranza degli islamici. Possiamo dire, tranquillamente, che i
wahabiti-salafiti sono gran parte dell’Uno per Cento di origine
islamica, e il wahabismo-salafismo è l’ideologia di questo Uno per Cento
(per citare una definizione del segmento più ricco e più potente della
società, nata nel movimento Occupy Wall Street, e molto utilizzata anche oggi nel mondo anglosassone).
C)
Il principale obiettivo dei wahabiti-salafiti è il dominio e
l’oppressione degli altri islamici in tutto il mondo. La maggioranza
delle vittime degli jihadisti sono islamiche. I nemici più immediati e
rilevanti degli jihadisti sono islamici. Il progetto totalitario
wahabita-salafita passa ineluttabilmente per la sconfitta di tutte le
altre possibili e esistenti declinazioni dell’Islam, laiche e religiose,
sciite e sunnite. Per le sue stesse implicazioni ideologiche, non può
accettare né concorrenti né alleati. Anche le altre correnti islamiste
sunnite sono viste come un potenziale nemico sul medio periodo. Allo
scopo di costruire una “grande potenza” islamica, capace di svolgere un
ruolo mondiale sempre più forte, mirando al primato globale, nel vuoto
di potere successivo al fallimento del velleitario tentativo degli Usa
di governare il mondo da soli, una parte rilevante dell’aristocrazia
wahabita-salafita (che già governa nel più puro stile totalitario la
penisola arabica), si propone di imporre un modello totalitario a tutti
gli islamici. Sono consapevoli che ci vorrà molto tempo, e che
troveranno forti resistenze. Ma sono anche consapevoli di essere oggi
più forti di quanto lo fossero ieri, e ritengono, non solo in termini di
propaganda, ma anche in termini concretamente strategici, di avere il
vento della storia dalla loro parte.
2. Se è vero che l’Islam non è l’Isis, ciò non vuol dire che l’Isis vada infatti sottovalutata. Al contrario. Ci sono almeno tre motivi principali per cui l’Isis deve essere presa estremamente sul serio.
A)
L’ideologia wahabita-salafita ha una capacità egemonica oggettiva sul
resto dell’Islam. Ha saputo appropriarsi finora di due temi cruciali: il
rapporto col Corano e il problema dell’unità dell’Islam. Sul secondo
tema in particolare l’egemonia è sostanzialmente completa. Di fatto, i
wahabiti-salafiti sono i soli ad avere al momento una proposta chiara
per ripristinare quell’unità anche formale dell’Islam sunnita che era
sempre esistita, da Maometto fino all’abolizione del Califfato,
decretata da Ataturk nel 1922. L’unità della umma, la comunità
dei fedeli, è un elemento estremamente importante della fede islamica.
L’idea del Califfato non è la bislacca e folcloristica trovata di un
gruppo di fanatici pazzi. Abolito in tempi relativamente recenti, da
decenni in tutti gli ambienti islamisti si dibatteva della necessità di
restaurarlo. L’Isis non compare dal nulla. E la sua proposta non si
fonda sul nulla. Il Califfato era sempre esistito nell’Islam sunnita
perché rispondeva (anche se spesso in termini solo simbolici) al tema
dell’unità sopra evocato. Non a caso, la sua (temporanea?) abolizione è
avvenuta pochi anni dopo l’accordo Sykes-Picot (1916), la celebre intesa
anglo-francese che spartiva il Medio Oriente tra le due maggiori
potenze coloniali del mondo, evocando ex nihilo stati che non erano mai
esistiti. 1916 e 1922. Le due date che i wahabiti-salafiti vogliono
cancellare, appena prima che giungano al centenario. In tal modo, i
jihadisti mirano ad impossessarsi anche della vecchia bandiera
dell’unità araba (tema centrale del nazionalismo laico e socialista) e
ad assorbire egemonicamente i desideri legittimi di riscatto che
esistono in tutto il Medio Oriente e in tutto il Mediterraneo (comprese
le comunità islamiche della sponda Nord). Il Califfato diviene un
simbolo, quale in effetti era storicamente, religiosamente e
spiritualmente sempre stato per tutti i musulmani sunniti – il simbolo
dell’unità della umma, del ritorno a un tempo di grandezza, di
orgoglio e di potenza. Un tempo che viene mitizzato in maniera non
dissimile da come i nazisti mitizzavano l’antico Impero Germanico, il
Reich di Federico Barbarossa e le antiche origini pagane dei Germani. Ma
l’operazione dei nazisti, in realtà, era molto più arbitraria. In
termini storiografici, il Reich medioevale, per come veniva da loro
descritto, non era semplicemente mai esistito. Viceversa, il Califfato è
esistito, nella storia dell’Islam sunnita, per circa 1300 anni su 1400.
La stessa radice dello scisma con gli sciiti riguarda il tema della
successione al Califfato. La bandiera innalzata dai wahabiti-salafiti
non è del tutto arbitraria, e anche per questo ha rilevanti carte
egemoniche, che non possono essere sottovalutate. Ugualmente può dirsi
riguardo al rapporto col Corano. Sebbene il letteralismo totalitario su
cui si basa la dottrina giuridica wahabita-salafita non sia condiviso,
come già abbiamo accennato, neppure da correnti estremamente
conservatrici dell’Islam (tra cui la galassia che fa idealmente capo ai
Fratelli Musulmani, di cui fanno parte tra gli altri Hamas, il governo
libico di Tripoli, alcuni settori della classe dirigente della penisola
arabica, e a cui è accostabile l’Akp di Erdogan), tuttavia va rilevato
che tutte queste correnti, e anche correnti meno conservatrici,
condividono la concezione già descritta del Corano “increato”, ivi
comprese le ovvie barriere che questa concezione crea per ogni forma di
dialogo tra fede e ragione, tra spiritualità e razionalità. I
wahabiti-salafiti conducono alle estreme conseguenze problemi intrinseci
all’idea della non interpretabilità del Corano, e dunque anche in
questo caso realizzano un’operazione egemonica che non va sottovalutata,
proprio perché tale idea ha un consenso assai più ampio degli attuali
confini della corrente wahabita-salafita.
B) I wahabiti-salafiti stanno ricostruendo l’integrazione organica tra la logica della realpolitik statuale
con quella di movimenti (più corretto sarebbe dire: partiti)
internazionali, che già diverse volte è esistita nella storia, e che in
una fase di avanzata globalizzazione trova la sua massima efficacia. Sia
coloro che dicono che l’Isis è in Mesopotamia, sia coloro che dicono
che sconfiggerlo in Mesopotamia sarebbe inutile, hanno parzialmente
ragione. L’Isis o meglio l’Is, lo Stato Islamico, il Califfato, è, per
sua definizione, uno Stato Globale. Una proposta di statualità nuova,
che invera vecchie idealità liberali e socialiste (ma i
wahabiti-salafiti, da bravi capitalisti monopolisti, odiano ferocemente
sia i liberali che i socialisti e i comunisti), ma che soprattutto
risponde al clamoroso fallimento della globalizzazione neoliberista nel
saper costruire un qualsivoglia meccanismo di governo democratico del
mondo. Quest’aspetto della strategia dei wahabiti-salafiti, che sono
Stato e Partito, che operano contemporaneamente sul piano locale e su
quello globale, che possono essere temporaneamente sconfitti in un luogo
per comparire in un altro, che possono mobilitare e distribuire risorse
umane nei diversi teatri, esattamente come il denaro dei fondi di
investimento (compresi quelli di proprietà saudita) può spostarsi in
pochi secondi da un capo all’altro del mondo attraverso le reti
dell’economia finanziaria, ne fa uno dei soggetti politici più avanzati e
più pericolosi in campo nel grande scontro in atto nel mondo, per
occupare il vuoto lasciato dopo Bush dagli Usa. Se consideriamo che a
questa modernità del modello politico e organizzativo (a sua volta
radicata nell’antica concezione del rapporto dialettico tra unità e
autonomia su cui si basava l’organizzazione tradizionale dell’Islam) si
accompagnano un’ideologia totalitaria in grado di organizzare territori e
di motivare fanaticamente i militanti, insieme a risorse finanziarie
immense, è evidente che non prendere sul serio questa faccenda sarebbe
un errore semplicemente gravissimo.
C) Infine, anche sul piano
strettamente militare tutte le evidenze indicano la necessità di
prendere l’Isis molto sul serio. Per quanto riguarda la situazione in
Mesopotamia, l’Isis controlla un territorio estremamente ampio, a
cavallo tra Siria e Iraq. Sta combattendo contemporaneamente contro gli
eserciti siriano, iracheno, contro i curdi, sporadicamente contro altri
gruppi anche di matrice jihadista, subisce bombardamenti (non
particolarmente intensi) da parte degli Usa e (decisamente più intensi)
da parte della Russia. In pratica, gli eserciti di terra di due Stati
nazionali, i bombardamenti aerei delle due maggiori potenze militari del
pianeta, le milizie curde, straordinariamente valorose sul piano
militare: e tuttavia l’Isis è sempre lì. Ovviamente la realtà è più
complessa. E’ interessante, ad esempio, e molto importante in termini
analitici, rilevare che gli Stati Uniti (che erano stati sostanzialmente
battuti dai jihadisti in Iraq) sono così intensamente impegnati contro
l’Isis da non avere neppure una portaerei nella regione… Per la prima
volta da decenni. E’ poi forse inutile rammentare che, se gli Americani
si sono curiosamente dimenticati di avere la più potente flotta di
portaerei del mondo, la Turchia dell’Akp di Erdogan è molto più
impegnata a commerciare petrolio e opere d’arte con l’Isis e a
bombardare il Pkk che a dare seguito agli impegni ufficiali anti-Isis.
Del tutto ovvio, infine, che l’impegno contro l’Isis degli stati
wahabiti-salafiti della penisola arabica sia una pura e semplice
dissimulazione. Va poi detto che parte importante dei quadri del vecchio
esercito iracheno è entrata a far parte dell’Isis, anche grazie ai
clamorosi errori dell’occupazione Usa dopo la guerra, e che l’esercito
siriano era stato in parte disarticolato dalla prima fase della rivolta
contro Assad. E’ infine ancora presto per misurare l’effetto degli
intensi bombardamenti della Russia. La guerra in Mesopotamia è in larga
misura una guerra di milizie e di fanterie, i carri armati sono pochi, e
al momento non giocano un ruolo rilevante in termini strategici. Anche
in questo si vedono tratti fondanti della globalizzazione neoliberista:
il primato della finanza e della rendita sulla produzione, che si
riflette in guerre de-industrializzate, in cui a immense ricchezze
liquide non corrispondono capacità produttive industriali rilevanti.
Questo è del resto il principale punto debole strutturale del progetto
wahabita-salafita, che non si sorregge su basi industriali adeguate
(tuttavia questa carenza può anche essere la molla di una particolare
aggressività). Si hanno dunque guerre contraddistinte da tempi lunghi,
che si combattono spesso villaggio per villaggio, e quartiere per
quartiere nelle città. Anche la Russia, pur essendo al momento lo Stato
ad avere le idee più chiare e anche a fare la proposta politica più
sensata sulla questione Isis, è interessata in primo luogo a garantire i
suoi interessi geopolitici nazionali, le sue basi nella Siria
occidentale e dunque la permanenza del controllo del suo alleato storico
Assad su quell’area. Infine, gli stessi curdi (i peshmerga e il Pkk)
giocano una partita fondamentalmente difensiva. In pratica, dunque, in
Mesopotamia i wahabiti-salafiti hanno già creato il fatto compiuto di
uno Stato sunnita da loro egemonizzato che, al di là dei proclami
retorici e anche delle azioni concrete, nessuno ha veramente idea di
come possa essere messo in discussione realmente. Nel frattempo, l’Isis
sta costruendo una presenza rilevante in Sinai e in Libia, ovvero si sta
affacciando sul Mediterraneo. Sono presenze significative, anche se
ancora solo iniziali, e colpisce molto la difficoltà che l’esercito
egiziano sta incontrando a mantenere il controllo del Sinai, mentre la
situazione economica in Libia si sta aggravando, al punto che l’Isis
potrebbe trovare spazio e terreno crescenti. In Nigeria, in compenso, la
ferocissima milizia Boko Haram, seconda per ferocia solo all’Isis
mesopotamica e affiliata al Califfato, ha subito serie sconfitte negli
ultimi mesi. Si tratta dell’unico caso in tutto il mondo (ad eccezione
di alcune vittorie dei curdi) in cui l’Isis abbia subito sconfitte
militari molto rilevanti finora e, fatte ferme tutte le specificità
della situazione nigeriana, andrebbe studiato con più attenzione. Nel
frattempo, mentre l’Isis, con una elevatissima capacità di utilizzare
tutte le moderne tecniche di comunicazione, di creazione e di
posizionamento di un brand, di marketing virale diretto e
indiretto, di generazione di contenuti condivisibili, di sfruttamento
abile e cinico del cosiddetto punk-islam (l’islam
post-religioso nichilistico e anti-sistema, che prolifera tra i giovani
delle periferie delle grandi città europee) continua la sua campagna di
proselitismo, di reclutamento e di concessione in franchising del
suo logo, il Qatar si prepara invece tranquillamente (non molto
tranquillamente per gli operai che muoiono come mosche nei cantieri) ad
ospitare i Mondiali di Calcio del 2022. Viene alla memoria che, nel
1936, le Olimpiadi si fecero a Berlino. Hitler era trionfalmente
presente all’inaugurazione dei Giochi, da cui, ovviamente, furono
esclusi tutti gli atleti di origine ebraica. Tutti i paesi del mondo
parteciparono a quei Giochi.
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