Continuano
le operazioni di propaganda e manipolazione del governo sulla Legge di
Stabilità. Ma la Legge di stabilità per il 2016 è un inno al
neoliberismo: prodiga verso le imprese e i ceti abbienti, a cui destina
una gran quantità di risorse in tutti i modi possibili, mentre accelera
la distruzione di ogni comparto e funzione pubblica con l’eccezione
della spesa militare, favorisce l’evasione fiscale, e non dà che qualche
mancia per la condizione di disagio sociale dei più deboli.
1. Il rapporto con i vincoli europei: l’austerità “flessibile” e il neoliberismo
La
comunicazione pubblica del governo è tutta centrata alla descrizione di
una manovra che finalmente dà e non toglie. Una manovra espansiva con
cui si cerca di accreditare anche l’immagine di un premier che mette in
discussione le politiche europee. Non è così. Come viene riaffermato in
ogni documento, il governo si muove “nel pieno rispetto delle regole di
bilancio adottate dall’Unione Europea”. Nessuna vertenza viene aperta
per modificare il quadro delle politiche di austerità, i vincoli su
deficit e debito del Fiscal Compact.
Il governo sfrutta invece,
concentrandoli nel 2016, i margini di manovra concessi dalla cosiddetta
“austerità flessibile”, cioè dalla possibilità di spostare nel tempo il
raggiungimento degli obiettivi fissati dalla UE.
Deve essere
evidenziato come la flessibilizzazione dell’austerità, cioè delle
politiche restrittive sia vincolata ad un di più di neoliberismo, perché
ad essa si può accedere solo nella misura in cui si fanno le cosiddette
“riforme strutturali”.
È in nome del Jobs Act, della
controriforma costituzionale, del taglio della Pubblica Amministrazione e
delle privatizzazioni, in sostanza, che la legge di stabilità del 2016
beneficia della “flessibiità” che consente di disinnescare per il 2016
la clausola di salvaguardia. Le clausole di salvaguardia restano per il
2017 e 2018 rispettivamente per 15,1 e 19,6 miliardi di euro, con
l’aumento dell’Iva che viene soltanto posticipato, così come è soltanto
posticipato, dal 2017 al 2018, il raggiungimento del pareggio di
bilancio strutturale.
Nel frattempo le risorse liberate per il
2016 finiscono in larga parte nel taglio rilevantissimo di tasse sulle
imprese come nell’eliminazione delle Tasi, e per citare le Corte dei
Conti, dato “il carattere temporaneo di alcune coperture e il permanere
di clausole di salvaguardia rinviate al futuro”, questo comporterà per
il “loro riassorbimento nel 2017 e nel 2018… l’ individuazione di
consistenti tagli di bilancio o aumenti di entrate”.
Il governo in
sostanza sfrutta la flessibilità nel 2016 approvando provvedimenti che
hanno effetti permanenti ma con coperture temporanee, preparando in tal
modo tagli supplementari, già chiarissimamente indirizzati
nell’ulteriore attacco a tutto ciò che è servizio o patrimonio pubblico.
La
manovra non è comunque tecnicamente una manovra espansiva.
L’indebitamento netto passa dal 2,6% del 2015 al 2,4% del 2016
(“clausola migranti” compresa), cioè diminuisce. Il saldo primario passa
dall’1,7 del 2015 al 2% del 2016, con la previsione di crescere
costantemente per arrivare al 4,3% nel 2019 cioè con la previsione di
reperire risorse per ulteriori quaranta miliardi attraverso tagli o
aumenti di entrate ed arrivare ad un avanzo di 80 miliardi. Un obiettivo
folle e insostenibile, che dovrebbe coesistere con una crescita
dell’1,6% del Pil nel 2017 -18 e dell’1,3% nel 2019.
La crescita
del Pil, determinata da diverse variabili esterne (come la svalutazione
dell’euro sul dollaro a seguito del quantitative easing e la diminuzione
strutturale del prezzo del petrolio) viene come sempre sovrastimata per
far quadrare i conti. Nè il governo tiene alcun conto della
consapevolezza crescente, nel dibattito sulle politiche economiche, per
cui tagli delle tasse hanno effetti espansivi inferiori agli effetti
depressivi del taglio della spesa pubblica.
Dal punto di vista
politico è invece evidente come concentrare la “flessibilità” nel 2016
assolva per Renzi ad una funzione di primaria importanza: rafforzarsi
nel passaggio delle elezioni amministrative di primavera, assai
rilevanti per numero di elettori e realtà interessate, rimontando la
crisi di consensi degli ultimi passaggi elettorali.
2. I soldi ci sono: per le imprese, i ceti abbienti e le spese militari
Ires, decontribuzione, super-ammortamento…
Vale
2,6 miliardi per il 2016 e 4 miliardi a regime nel 2017 il taglio
dell’Ires, cioè della tassa sui profitti. La sua applicazione nel 2016 è
subordinata all’approvazione in sede europea della cosiddetta “clausola
migranti”, quella per cui in nome dei costi dell’accoglienza per
“l’emergenza migranti” si tagliano per l’appunto le tasse all’imprese.
Ma nel 2017 il taglio dell’Ires ci sarà comunque e le risorse saranno
reperite “da tagli alla parte corrente delle spese della Pubblica
Amministrazione”, come recita la relazione tecnica:
- 580 milioni sono destinati al superammortamento al 140% per gli investimenti attuati entro il 2016, che diventano 1 miliardo negli anni dal 2017 al 2021;
- 831 milioni sono destinati alla reiterazione, ridotta al 40%, degli sgravi contributivi per le assunzioni o le trasformazioni di contratti preesistenti nel “contratto a tutele crescenti”, che diventano 2,1 miliardi per il 2017.
Solo per queste misure si va dai
4 miliardi aggiuntivi nel 2016 agli oltre 7 miliardi nel 2017. Ma
accanto alle voci principali ci sono una miriade di altri micro
provvedimenti che o stanziano direttamente risorse per le imprese o come
nel caso della detassazione dei premi di produttività (quasi 600
milioni a regime) e del sostegno al cosiddetto welfare aziendale, mirano
tanto a promuovere la sostituzione della contrattazione collettiva
nazionale con quella aziendale e territoriale, quanto
all’aziendalizzazione delle prestazioni sociali mentre si smantella il
welfare pubblico e universalistico.
Si deve inoltre avere presente
che la scorsa legge di stabilità (come anche le leggi di stabilità dei
governi Letta e Monti) aveva già significativamente ridotto il prelievo
fiscale sulle imprese con i 5 miliardi di riduzione dell’Irap per il
2015 (4,3 a regime dal 2016) ed ulteriori 4 miliardi nel triennio
2015-2017 attraverso una serie di provvedimenti minori.
Mentre per
la decontribuzione decisa sempre dalla scorsa legge di stabilità,
estrapolando dai dati forniti dalla relazione tecnica, le risorse
pubbliche utilizzate ammontano a 2,5 miliardi per il 2015 e 6,3 miliardi
per il 2016 (4,6 se si considerano le stime su quanto dovrebbe
rientrare per le tasse sulla nuova occupazione che tuttavia valgono solo
per l’occupazione aggiuntiva) . Risorse molto ingenti che sono servite e
serviranno per promuovere il contratto “a tutele crescenti”, cioè nella
maggior parte dei casi per finanziare la trasformazione di vecchi
contratti a termine, in nuovi contratti a termine, dato che il Jobs Act
ha sancito la possibilità di licenziare arbitrariamente sempre e
comunque.
Dunque sono tanti i soldi per le imprese, dati “a
pioggia” cioè senza finalizzazione alcuna: dagli oltre 8 miliardi (tra
Irap, decontribuzione e altre misure) del 2015, ai circa 15 miliardi per
il 2016, complessivi degli interventi della legge di stabilità dello
scorso anno e di quella attuale.
È invece totalmente assente
qualsiasi strategia di politica industriale, e si prevede addirittura
una contrazione degli investimenti pubblici. Questo a fronte di una
riduzione complessiva degli investimenti nel periodo 2008-2014 del 30%.
Dal punto di vista dell’occupazione, va sottolineato, come le continue
dichiarazioni del governo, sugli effetti benefici delle proprie
politiche nella creazione di lavoro, vadano demistificate per quella che
sono: un’operazione di propaganda.
L’Italia vede una crescita
dell’occupazione inferiore rispetto al resto d’Europa. Con le risorse
ingentissime mobilitate con la legge di stabilità 2015 nel mentre che si
faceva tabula rasa dei diritti per in neo assunti, l’occupazione
aggiuntiva “permanente” a settembre 2015 rispetto a settembre 2014 è di
sole 113.000 unità, mentre sono 192.000 gli occupati complessivi in più
(dati Istat): davvero poca cosa considerando l’esplosione di forme
iper-precarizzanti come i voucher.
Restano oltre i 3 milioni i
disoccupati ufficiali, mentre sono il doppio quelli effettivi,
considerando cioè coloro che non ricercano attivamente lavoro perché
scoraggiati, ma che sarebbero disponibili a lavorare se un lavoro ci
fosse. Il governo peraltro non ritiene un problema che nei propri stessi
documenti il tasso di disoccupazione sia anche nel 2019 sopra il 10%
con la disoccupazione giovanile intorno al 40%.
Tasi-Imu
Accanto
a questi provvedimenti l’altro piatto forte come è noto è
l’eliminazione della Tasi-Imu per l’abitazione principale (3,7
miliardi). 530 milioni sono destinati alla riduzione dell’Imu sugli
“imbullonati”, 405 milioni per l’Imu agricola.
L’eliminazione
generalizzata dell’imposta sull’abitazione principale, va a vantaggio
dei più ricchi con 1,4 miliardi regalati a chi possiede abitazioni di
pregio maggior, che pur essendo solo il 10% del totale concorrevano per
il 37% al gettito complessivo. Questi proprietari godranno di uno
sgravio in proporzione maggiore di chi ha una casa più modesta, mentre
persino chi ha ville e castelli (su cui alla fine la Tasi resta perché
il governo ha fatto retromarcia per puri motivi di immagine), in virtù
della diminuzione dell’aliquota massima godrà di uno sconto medio di
1.000 euro.
Il taglio indiscriminato della Tasi mette inoltre i
Comuni nella condizione di dipendere dai finanziamenti centrali, e non è
davvero esercizio di fanTasia prevedere che quelle risorse saranno
oggetto di contrattazioni continue e di ulteriori riduzione.
Le spese militari
I
soldi ci sono anche per le spese militari. Nonostante la risoluzione
approvata dal Parlamento nel settembre 2014 che poneva l’obiettivo di
dimezzare lo stanziamento per gli F35, la legge di stabilità conferma i
13 miliardi per il programma pluriennale di acquisto dei 90
cacciabombardieri da attacco in grado di trasportare ordigni nucleari.
Sono incrementati i fondi Mise per Fremm, Vbm, Eurofighter. Non viene
mantenuto l’impegno ad aumentare le risorse per il servizio civile. I
tagli che investono pesantemente ogni funzione pubblica, lasciano
indenne il comparto militare.
3. I soldi non ci sono: come tagliare tutto ciò che è pubblico
A
fronte delle cospicue risorse destinate a imprese e ricchi, spesa
militare, stanno nuovi pesantissimi tagli a tutto ciò che è funzione
pubblica: dalla sanità, alle regioni, a ministeri e società pubbliche,
al pubblico impiego, che vede una mancia scandalosa invece del rinnovo
del contratto, e un nuovo blocco del turn over. Complessivamente le
“minori spese” ammontano a 8,4 miliardi nel 2016, 8,6 miliardi nel 2017 e
10,6 nel 2018. E’ evidente la volontà di distruggere la funzione
pubblica ed insieme i diritti sociali.
I tagli alla sanità
Il
finanziamento per il Servizio Sanitario Nazionale viene rideterminato
in 111 miliardi, ivi compresi gli 800 milioni finalizzati
all’aggiornamento dei LEA (Livelli essenziali di assistenza).
Il
Patto per la salute siglato da governo e regioni poco più di un anno fa
(luglio 2014) prevedeva in 115,4 miliardi il finanziamento per il 2016.
Il decreto legge 78/2015 aveva già ridotto il finanziamento di 2,352
miliardi portandolo a 113,097. Ora la riduzione ulteriore è di 2,097
miliardi. In sostanza in poco più di un anno i finanziamenti previsti a
luglio 2014 sono stati tagliati di 6,7 miliardi. In questo modo la spesa
pubblica per la sanità si collocherà al 6,6% del Pil, cioè ad uno dei
livelli più bassi in assoluto in Europa.
Va ricordato che, anche
prima degli ultimi tagli, quando la spesa pubblica per la sanità era al
7% del Pil, questo livello era inferiore di 1,7 punti di Pil e di 632
euro in termini di spesa pro-capite (1793 euro contro 2425) rispetto
alla media dell’Unione Europea a 15. Dopo di noi ci sono solo Spagna,
Grecia e Portogalllo (Rapporto sullo Stato Sociale 2015).
Gli
ulteriori tagli alla sanità, in un paese in cui, come conferma l’ultimo
rapporto del Censis, in quasi la metà dei nuclei familiari, almeno una
persona in un anno ha dovuto fare a meno di una prestazione medica per
l’insostenibilità delle liste d’attesa o/e per l’onerosità dei ticket,
rende evidente la volontà di distruggere la sanità pubblica ed
universalistica e di spingere progressivamente verso modelli
assicurativi. Una regressione sociale gravissima ed inaccettabile.
I tagli a regioni, ministeri, società pubbliche
Il
quadro diventa più grave se ai tagli al finanziamento del servizio
sanitario nazionale si sommano quelli alle regioni, che hanno nella
sanità, la voce di intervento e di spesa di gran lunga prevalente.
La
Legge di stabilità prevede tagli alle regioni per 3,98 miliardi di euro
nel 2017, 5,48 miliardi nel 2018 e 2019. Non sono compresi in questi
tagli gli effetti del blocco del turn-over di cui si dirà più avanti,
mentre è compresa la riduzione di spesa derivante dalla centralizzazione
dell’acquisto di beni e servizi che pesa tuttavia per soli 480 milioni.
Come
sottolineato in sede di audizione parlamentare della presidenza delle
regioni, tuttavia, il quadro diventa drammatico se alle misure previste
dalla attuale Legge di Stabilità, si sommano le misure derivanti dalle
passate finanziarie e da diversi tagli di settore. In questo modo “nel
2016 l’insieme dei tagli che cadono sul sistema Regioni, ordinarie e
straordinarie, derivanti da tutte le leggi di stabilità del passato e
anche da leggi di settore, ammontano a circa 9 miliardi e mezzo, se si
esclude il pareggio di bilancio di quest’anno, e che arrivano a più di
11 se si include il miliardo e 850 milioni di risparmio del sistema
Regione che viene trattenuto come copertura a livello dello Stato… La
situazione sul pluriennale è poi particolarmente preoccupante con altri
cinque miliardi nel 2017 e sette nel 2018. Ormai i margini di manovra
delle Regioni si vanno esaurendo”.
È evidente che sulla sanità e
sui trasporti pubblici in particolare, ma più complessivamente sul
sistema regionale siamo ad una destrutturazione complessiva di diritti e
possibilità di intervento.
Anche i tagli a ministeri e società
pubbliche, sono pesanti. Ammontano a 3,1 miliardi nel 2016, 2,4 nel
2017, 1,7 nel 2018, di cui per il 2016 1,6 miliardi di riduzione delle
spese in conto capitale, cioè degli investimenti. Anche in questo caso
al netto della riduzione di spesa derivante dalla centralizzazione degli
acquisti di beni e servizi, che vale circa 160 milioni l’anno, e dei
“risparmi” derivanti dal blocco del turn-over.
Proseguono dunque
massicciamente i tagli, la riduzione del perimetro e la destrutturazione
complessiva della funzione pubblica. A tutto questo va aggiunto da un
lato quanto previsto nelle stessa legge di stabilità per il pubblico
impiego, con il blocco del turn-over e della contrattazione, dall’altro
il programma di privatizzazioni programmate dal DEF con introiti
previsti per lo 0,41 % del Pil nel 2015, lo 0,5 nel 2016 e 2017 e 0,3
nel 2018, pari complessivamente a quasi 30 miliardi.
Il nuovo blocco del turn-over e della contrattazione nel pubblico impiego
Sotto
il titolo di involontario (o volontario?) scherno “esigenze
indifferibili”, la Legge di Stabilità si occupa del contratto delle
lavoratrici e dei lavoratori pubblici. Nonostante la sentenza della
Corte Costituzionale, per il “rinnovo” del contratto vengono stanziati
219 milioni di euro per 1,3 milioni di lavoratori contrattualizzati a
livello centrale (circa 12 euro mensili lorde di incremento), 81 milioni
di euro per i 500.000 lavoratori del comparto sicurezza, mentre per
altri 1,2 milioni di lavoratori le risorse per il “rinnovo” contrattuale
sono in carico alle singole amministrazioni.
Questo dopo 6 anni
di blocco della contrattazione. Le risorse stanziate sono poco più della
metà di quanto destinato alla riduzione dell’Imu sugli imbullonati,
meno di un dodicesimo di quanto varrà a regime la nuova riduzione delle
tasse sulle imprese… e si potrebbe continuare.
Ma c’è di più: a
fronte di pochissime e settoriali assunzioni è previsto un nuovo blocco
del turn-over. Per le amministrazioni dello Stato, le agenzie, gli enti
di ricerca, le regioni e gli enti locali, le assunzioni a tempo
indeterminato possono avvenire solo entro la misura del 25% del budget
derivante dalle cessazioni di personale con la medesima qualifica
avvenute nell’anno precedente. La norma è sospesa per regioni ed enti
locali per 2017 e 2018 per riassorbire il personale delle province, ma
la nuova stretta è pesantissima.
I “risparmi” complessivi previsti
per il blocco del turn over, vanno dai 44 milioni del 2016 a quasi 1
miliardo (919 milioni) nel 2019, 3 volte quanto stanziato per il
“rinnovo” del contratto.
Come sottolinea il dossier del servizio
studi del Senato “andrebbero richieste adeguate rassicurazioni in merito
alla effettiva e piena sostenibilità dell’irrigidimento del blocco
parziale del turn over, dal momento che negli anni più recenti le
amministrazioni hanno subito già un blocco drastico dei reclutamenti che
potrebbe averle già messe nella condizione di non poter assicurare i
livelli minimi di servizio.” Va ricordato anche che dal 1 gennaio 2017
non sono più attivabili contratti di collaborazione e che nel 2018
scadranno i circa 80.000 contatti a tempo determinato di durata
ultratriennale.
Va ricordato più in generale come il numero di
dipendenti pubblici ogni 100 abitanti in Italia nel 2010, prima dei
tagli e del blocco del turn-over degli ultimi anni, fosse
abbondantemente sotto la Francia e l’Inghilterra (5,9 contro 8,5 della
Francia e 9,2 del Regno Unito – dati della Ragioneria Generale dello
Stato). La vulgata di un settore pubblico ipertrofico nel nostro paese è
totalmente falsa. Accanto a perduranti elementi di inefficacia che
certo non si affrontano con nuovi tagli, in generale siamo alla messa in
discussione della capacità di erogare i minimi servizi essenziali.
4. Qualche mancia per gli esodati, le povertà e la condizione di disagio sociale
Se
per quel che riguardava imprese e ricchi, gli interventi sono in
termini di miliardi sonanti, per esodati, povertà, disagio sociale, le
risorse sono pochissime, centellinate solo per le emergenze, e spesso
coperte da tagli all’interno dello stesso comparto.
Le pensioni
La
legge di stabilità non contiene nessuna misura di flessibilizzazione
della controriforma Fornero. I provvedimenti previsti riguardano il varo
della settima salvaguardia per gli esodati, la cosiddetta “opzione
donna” e il modestissimo aumento della no-tax area, le cui coperture
sono interne al comparto, in particolare attraverso un nuovo intervento
sulle rivalutazioni delle pensioni medie rispetto al costo della vita o
attraverso l’accesso a fondi come quello per i lavori usuranti.
La
settima salvaguardia per gli esodati copre 26.300 lavoratori, mentre
secondo i dati Inps le lavoratrici e i lavoratori da garantire sono
49.500. Ne restano scoperti oltre 23.000. Restano esclusi tanto i
cosiddetti quota 96 della scuola, quanto i macchinisti.
Per quel
che riguarda “opzione donna” si prevede, a chiusura della
sperimentazione, che l’opzione (cioè la possibilità di andare in
pensione con 57 anni e 3 mesi, se lavoratrici dipendenti, e 58 anni e 3
mesi, se lavoratrici autonome, con 35 anni di contributi versati ed
accettando il ricalcolo della pensione con il solo metodo contributivo)
sia estesa alle donne che maturano i requisiti entro il 31 dicembre 2015
anche se la decorrenza del trattamento pensionistico è successivo a
quella data.
Per quel che riguarda l’estensione della no-tax area,
da 7500 a 7750 euro per i pensionati sotto i 75 anni e da 7750 a 8000
per i pensionati sopra i 75 anni, questa scatta soltanto dal 2017 ed è
di portata assai modesta (intorno ai 5 euro mensili). Come è
modestissima la sperimentazione del part-time in uscita per i lavoratori
che maturano entro il 2018 i requisiti per la pensione di vecchiaia con
risorse previste per 60 milioni nel 2016.
La copertura di queste
misure è comunque tutta interna al comparto pensionistico. Proviene
dalla riduzione delle rivalutazione delle pensioni superiori a 4 volte
il minimo, dalle somme non spese del Fondo Esodati, dall’indecente
saccheggio del Fondo per i lavori usuranti. Come afferma la relazione
tecnica si tratta di un fondo sottoutilizzato. Il che è certamente vero
dopo che la controriforma Fornero ha peggiorato in modo gravissimo la
condizione di questi lavoratori.
Va ricordato anche in questo caso
il dato di fondo. I contributi pensionistici vengono usati da anni in
Italia per finanziare il bilancio dello stato e non viceversa. Dal 1996
ad oggi il saldo tra contributi versati e pensioni erogate al netto
delle ritenute fiscali (che rientrano nelle casse dello stato ) è sempre
stato in attivo. Nell’ultimo anno l’attivo è stato di 21 miliardi di
euro.
Qualche mancia per le povertà
Gli
interventi per il contrasto alle povertà sono totalmente inadeguati
rispetto alla situazione di sofferenza sociale cresciuta
esponenzialmente in questi anni. Secondo i dati Istat relativi al 2014,
infatti, sono 1 milione e 470 mila le famiglie in condizione di povertà
assoluta, per un totale di 4 milioni 102 mila persone, 2 milioni 654
mila famiglie e 7 milioni 815 mila persone sono invece in condizione di
povertà relativa. I dati sono stabili rispetto all’anno precedente e
concentrati geograficamente: la povertà assoluta si attesta al 4,2% al
Nord, al 4,8% al Centro e all’8,6% nel Mezzogiorno.
A fronte di
questa situazione il governo stanzia 600 milioni aggiuntivi per il 2016
portando le risorse complessive a 1,6 miliardi e 1 miliardo per il 2017
portando le risorse complessive per quell’anno a 1,5 miliardi. Dei 600
milioni aggiuntivi 220 sono destinati a finanziare l’Asdi, l’assegno di
disoccupazione, e 380 il Sia (Sostegno per l’inclusione attiva, misura
attivata dal governo Letta e rivolta esclusivamente ai nuclei familiari
con un minore). Il finanziamento complessivo per il Sia raggiunge
complessivamente la cifra di 750 milioni per il 2016 (tra quanto era
stato già stanziato e le nuove risorse) e di 1 miliardo per il 2017.
Se
fossero distribuiti sulla sola platea dei poveri assoluti, non dando
nessuna risposta alla condizione di povertà relativa, le risorse
stanziate dal governo comporterebbero 15 euro lorde mensili,
conteggiando invece la sola platea dei nuclei familiari in povertà con
un minore che sono circa 600.000, questo significa 104 euro mensili
lorde per nucleo familiare.
Va ricordato che la proposta di
reddito di inclusione sociale avanzata dall’Alleanza contro la Povertà
(Acli e Caritas) prevede risorse per 7 miliardi, mentre il reddito di
dignità sostenuto da Libera per quanto non quantificato precisamente,
nel prendere a riferimento le proposte esistenti in Parlamento (quella
del Movimento 5 Stelle e quella di iniziativa popolare proposta da Bin,
Sel, Prc ed altri, quantificate dall’Istat rispettivamente in 14,9 e
23,5 miliardi) si situa approssimativamente sulla cifra di 20 miliardi.
La
miseria delle risorse stanziate per il contrasto alla povertà è ancora
più grave considerati i tagli complessivi a cui è sottoposto il sistema
di welfare, l’assenza di un piano per il lavoro, l’assenza di un piano
per il Sud.
5. L’evasione e l’elusione fiscale
La
legge di stabilità 2016 prevede una serie di misure che favoriscono
l’evasione fiscale. Con la scusa di sostenere i consumi, il governo ha
innalzato l’uso del contante da 1000 a 3000 euro, invece di agire per
rendere più semplice e meno costoso l’uso di carte e bancomat.
Una
scusa evidentemente giacché nessuno va in giro con 3000 euro in
contanti per poter meglio acquistare un televisore o una lavatrice. La
volontà di favorire l’evasione è resa evidente dal fatto di aver
innalzato l’uso del contante anche per il pagamento dei canoni di
locazione e nella filiera dei trasporti, dove la tracciabilità è un
elemento decisivo per prevenire e reprimere attività legate a traffici
illegali: dal caporalato al riciclaggio.
Il governo con i decreti
di settembre scorso in attuazione della cosiddetta delega fiscale ha
peraltro depenalizzato l’elusione fiscale praticata soprattutto dalle
grandi imprese.
Ricordiamo che l’Italia con un’evasione fiscale
pari a circa 130 miliardi l’anno è il paese con la più alta evasione in
Europa: il recupero soprattutto della grande evasione ed elusione
dovrebbe essere un obiettivo prioritario.
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