venerdì 4 dicembre 2015

La crisi odierna e la lezione di Marx di Alberto Leiss

Un resoconto del convegno di Alessandria su «I ritorni di Marx». I nessi tra forza economica e capacità egemonica del centro del potere capitalistico. Crisi e ruolo dell’Unione europea, un «nuovo mostro» che non è stato ancora adeguatamente analizzato. La costruzione del soggetto tra neoliberismo, psicanalisi e femminismo della differenza
marxismo crisi 02
Dunque lo spettro di Marx è tornato ad aggirarsi sullo scenario della nuova, lunga e devastante crisi ca- pitalistica che ci accompagna dal 2008, sollevando moltissimi interrogativi sui veri meccanismi che sostengono il sistema uscito vincitore dal confronto con l’alternativa comunista e socialista. Un confronto aperto proprio dalle opere del professore di Treviri a metà dell’Ottocento, divenuto conflitto acuto e tragico dopo la rivoluzione del 1917. Apparentemente concluso con la fine dell’Urss.
Ma è davvero possibile – come si è augurato in premessa Aldo Tortorella – che questo nuovo ritorno avvenga «a occhi aperti» da parte di coloro che non rinunciano a rimeditare e attualizzare la lezione di Marx? Evitando il rischio di ulteriori errori e limiti di natura ideologica, se non propriamente dogmatica, proprio grazie al fatto che è stato abbastanza brutalmente tolto di mezzo l’equivoco di una costruzione in corso, con sicura ricetta, di «mondi nuovi»?
La discussione svoltasi per tre giorni a Alessandria, per iniziativa di Critica marxista e della Fondazione Luigi Longo, nel convegno intitolato appunto I ritorni di Marx, sembra fornire una prima significativa risposta positiva. Il pensiero dell’autore del Capitale è stato messo alla verifica di una quantità di punti di vista, legati alle fonti più ricche di una elaborazione critica rivolta a Marx senza alcun complesso. Si è parlato delle sue teorie economiche nella crisi attuale, della sua antropologia, del rapporto con lo Stato e col liberalismo, dei meccanismi di soggettivazione, del suo metodo di analisi sociale. Si è discusso di quanto possa sopravvivere delle sue intuizioni e delle sue profezie dopo il secolo della psicanalisi, dopo Antonio Gramsci e Simone Weil, dopo la rilettura classica di Sraffa e l’economia-mondo analizzata da Braudel, Wallerstein e Arrighi. Dopo la rivoluzione del femminismo e del pensiero della differenza sessuale.
Alla fine mi sembra si possa dire che lo spettro, con le sue inquietanti ambivalenze, si è trasformato in una più viva e concreta presenza fatta di intenzioni etiche profonde e attuali, e di un metodo di analisi sociale imprescindibile per una intenzionalità politica volta al mutamento dello stato delle cose presenti. E che se un filo più evidente di altri ha attraversato contributi assai diversi per ambito di competenza e per l’orientamento dell’approccio critico, esso riguarda il ruolo e la costituzione del soggetto dell’azione politica. Con tutta la complessità dei nessi relazionali che lo legano al mondo esterno, alle altre persone, nel contesto di un ambiente oggi sovradeterminato dalle logiche e dalle modalità tecnologiche della rappresentazione del neoliberismo, e a quella complessa societas – per riprendere un’ immagine utilizzata da Roberto Finelli – che costituisce anche il mondo interiore di ognuno.

Crisi e ruolo dell’Unione europea
Seguirò per comodità di una esposizione necessariamente molto sintetica l’ordine degli interventi, del resto non casualmente predisposto.
La visione più larga del contesto economico, sociale e culturale globale in cui necessariamente si colloca oggi ogni possibile rilettura di Marx è stata tratteggiata in apertura da Mario Pianta, avvalendosi della elaborazione di Giovanni Arrighi, soprattutto a partire dal suo libro sul Lungo XX secolo. È l’approdo di un filone di ricerche di diversi autori, del mondo occidentale e asiatico, ispirate in buona misura dal lavoro storico di Fernand Braudel, che «condividono l’intuizione di considerare il capitalismo contemporaneo come un sistema mondiale organizzato in un “centro” e in una “periferia”, caratterizzato da cicli di accumulazione e di egemonia».
È una linea di pensiero largamente debitrice a Marx, ma all’infuori di qualunque ortodossia. E del resto Marx aveva certamente visto la dinamica globale del capitale, ma non era andato sostanzialmente al di là della dimensione dello stato-nazione. La visione fatta propria da Arrighi, rispetto ad altri autori marxisti più “ortodossi”, gli ha permesso di prevedere assai prima gli esiti critici del recente sviluppo finanziario del capitalismo occidentale, e lo spostarsi a Oriente, e segnatamente nella Cina post-maoista, del baricentro mobile dell’economia-mondo. E questo grazie anche alla capacità di cogliere i nessi tra potenza economica produttiva e finanziaria e capacità egemonica del centro del potere capitalistico. Quando la capacità egemonica – come dimostra il caso americano, ma come è accaduto altre volte nei secoli dopo l’affermazione capitalistica – viene meno, aumenta la finanziarizzazione del sistema, ma questa dimensio- ne non ha in sé gli equilibri necessari per mantenersi in uno stato di stabilità.
Antonella Palumbo ha ripreso la rilettura della “teoria del valore” di Marx elaborata da Sraffa e poi da Garegnani, nell’ambito di una rivalutazione dell’“economia classica” rispetto a alle teorie marginaliste successivamente egemoni, e ricollocando in quel solco la posizione critica di Marx. Che in estrema sintesi introduce nella determinazione della distribuzione del reddito la variabile di ciò che produce il conflitto sociale, quindi un dato soggettivo.
Da una diversa angolatura, di teoria della politica, al nodo della soggettività è arrivato anche Stefano Petrucciani, a proposito del rapporto di Marx con il liberalismo. Dalla sua iniziale e giovanile adesione a certe istanze liberali, alla successiva presa di distanza critica, l’autore del Capitale svela le aporie della visione sociale liberale e neoliberale (perché lo Stato deve avere come priorità la tutela della proprietà e del mercato rispetto al benessere di ciascun individuo?), anche se non arriva lui stesso a comprendere che «la soddisfazione dei bisogni sociali passa in larghissima parte per ciò che il mercato non è, ovvero da un lato per lo Stato e dall’altro per i legami familiari o di solidarietà. Perciò la pretesa della mercatizzazione integrale distrugge paradossalmente le basi sociali che rendono possibile il mercato stesso».
Un altro economista, Vladimiro Giacchè, ha riattualizzato una seconda discussa e contestata “profezia” di Marx, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, mettendola in relazione con l’idea di una «stagnazione secolare» recentemente ripresa da Lawrence Summers, recuperando a sua volta un concetto che risale agli anni Trenta. L’approccio marxiano si rivelerebbe più efficace di fronte alla crisi attuale, strutturale e non ciclica. E un’arma teorica utile nella battaglia per scongiurare che la soluzione alla crisi globale – come già dopo il ’29 – non si trovi nella guerra, ma in un “livello superiore di produzione sociale”.
Del resto – ha argomentato Emiliano Brancaccio, prendendo un po’ le distanze dagli approcci più filosofici per accettare il rischio di un maggiore “empirismo” – anche una terza idea di Marx, assai poco studiata, la legge della «centralizzazione dei capitali», sembra spiegare meglio ciò che accade sotto i nostri occhi. Quando il gioco della competizione globale si fa duro, ecco che il capitalismo più forte sconfigge il più debole, e si determinano enormi concentrazioni finanziarie. Per Brancaccio è un processo ben evidenziato in Europa dal ruolo della Bce, agente della concentrazione dei capitali nelle banche e nei paesi più forti, a scapito dei soggetti più deboli e periferici, e paladina dell’austerità.
Ma che cosa è esattamente oggi l’Unione Europea – in cui così forte è il ruolo di un soggetto non democraticamente eletto come la Bce di Mario Draghi e di altre burocrazie tecnocratiche – dal punto di vista delle formazioni statali? Se lo è chiesto André Tosel, aprendo una sessione del convegno che sul problema dello Stato, delle strutture sociali e di classe, e sullo “spirito” del capitalismo, ha visto intrecciarsi e dialogare anche gli interventi di Jacques Bidet e Giorgio Cesarale.
La risposta di Tosel è netta: oggi l’Europa unita è un “nuovo mostro” che non è stato ancora adeguatamente analizzato. Un «quasi stato senza popolo». Qualcosa che le elaborazioni di Marx sullo Stato – non univoche nella sua opera e non complete, nonostante intuizioni fondamentali sui nessi tra sovranità e modi di produzione con i loro propri rapporti di oppressione – non consentono di comprendere senza nuovi strumenti concettuali.
E una proposta di lettura sociale più complessa viene da Jacques Bidet, con un approccio da lui definito “metastrutturale”: nel regime neoliberale la classe dominante è costituita da due forze sociali distinte, anche se oggi più reciprocamente connesse di quanto avvenisse in una precedente fase “borghese”: i capitalisti che dominano proprietà e finanza e i “dirigenti-competenti” che informano l’organizzazione sociale e produttiva. Il terzo polo è una classe “fonda- mentale” o popolare in cui la vecchia matrice del proletariato si articola in modo più complesso. Per Bidet questa struttura tripolare nello stato-nazione e nello stato-mondo è mediata da equilibri egemonici meno rigidi di quelli pensati da chi descrive un potere schiacciante, pervasivo e inattaccabile del capitale e dei suoi apparati neoliberali. Una speranza per la riscossa soggettiva dei subalterni?
Per Cesarale, che si impegna in un confronto con Bidet sulla consistenza di una teoria dello Stato nella prima sezione del Capitale, c’è un eccesso di sofisticazione nella visione “metastrutturale” del filosofo francese.

Il tema del soggetto e della sua costituzione
Al concetto di ideologia in Marx e in Gramsci si è ricollegato Guido Liguori, sottolineando la visione anti-deterministica dell’autore dei Quaderni, che non vede nell’ideologia solo la «falsa coscienza» di un potere dominante e totalizzante, ma anche la capacità dei «subalterni» di reagire in una società moderna e articolata sul piano dei saperi e delle culture, per la creazione di un diverso «senso comune», basato però sull’ancoraggio strutturale della classe operaia, e da qui la affermazione di una diversa egemonia.
Dunque ancora il tema del soggetto e della sua costituzione. È il cuore del confronto a cui arrivano gli ultimi due contributi, di Roberto Finelli e di Lia Ci- garini. Se Finelli per criticare i limiti del- l’“antropologia” di Marx, troppo conclusa nella di- mensione collettiva dell’identità soggettiva, imbrac- cia soprattutto il sapere sull’individuo prodotto dalla psicologia e dalla psicanalisi moderna (da Freud a Jung e Bion, con fortissimi sospetti invece per Lacan), ma ancorando il suo discorso critico anche alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, a Nietzsche e a Spinoza, Lia Cigarini ripropone le critiche a Marx e al marxismo di Simone Weil. Ma ricordando che negli ultimi anni della sua breve vita – per alcuni versi avvicinabile a quella di Antonio Gramsci – la Weil aveva respinto gli aspetti scientisti e infondati della dottrina di Marx (giungendo a dire che nemmeno di una “dottrina” si potesse parlare), ma ne aveva grandemente apprezzato la passione etica per la giustizia e il metodo di analisi profonda delle forze in campo nella dialettica sociale. Così come le intuizioni sulla natura dell’oppressione nell’organizzazione produttiva. Cigarini ha anche affermato come il femminismo della differenza pratichi e teorizzi da una quarantina d’anni una soggettivazione basata sul “partire da sé”. Un sé individuale che non nega però la dipendenza dagli altri. Da qui nasce una libertà relazionale che ha permesso alla donne di affrancarsi dal dominio simbolico patriarcale. Questo tipo di pratica politica può essere condivisa, produrre mediazione nuova anche da parte maschile, condurre a una “nuova filosofia del lavoro” capace di vedere anche il lavoro di cura e di manutenzione dell’esistente necessario alla riproduzione e alla vita, e di spezzare il dominio neoliberale del capitalismo? Bisognerebbe intanto che da parte degli uomini non si riproducesse l’incomprensibile “obliterazione” di ciò che ha prodotto il femminismo.
Ne è nato un ultimo denso scampolo di confronto tra molti dei partecipanti sul tema della libertà e della sua origine: dopo due secoli nel nome dell’uguaglianza forse non è più da qui che la liberazione dei subalterni può emergere. Il confronto, sotto lo sguardo certamente curioso del dottor Marx, sembra destinato a proseguire.

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