Dopo anni di ricerca ai margini dell’industria culturale e in piena
egemonia neoliberale, «Una storia del marxismo» è l’importante
iniziativa editoriale in tre volumi della Carocci. Pubblichiamo un brano
dell’introduzione del curatore
L’impatto che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX e del XX
secolo è stato così forte da non poter essere paragonato a quello di
nessun altro pensatore. Solo i fondatori delle grandi religioni hanno
lasciato alla storia del mondo una eredità più grande, influente
e persistente di quella che si deve al pensatore di Treviri. Ma per
capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx sulla storia del
suo tempo e di quello successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto
che concorre con altri a determinarne la singolarità: l’attività di Marx
si è caratterizzata per il fatto che Marx è stato al tempo stesso un
pensatore e un organizzatore/leader politico, e di statura straordinaria
in entrambi i campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le sue
teorie hanno avuto sul pensiero sociale, filosofico e storico, ma ancor
più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto che la sua
attività di dirigente politico (dalla stesura del Manifesto del Partito
Comunista alla fondazione della Prima Internazionale) ha lasciato alla
storia successiva.
Certo, una duplice dimensione di questo tipo non appartiene solo
a Marx: la si può anche ritrovare in grandi leader che furono suoi
antagonisti, da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le
dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della visione
politica, attingono una potenza che manca a questi suoi pur importanti
antagonisti. Sul piano della organizzazione politica dall’attività di
Marx sono infatti derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni,
i partiti socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso
così largamente nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece,
Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una parte non
trascurabile della cultura che dopo di lui si è sviluppata.
La forza degli inediti
Un aspetto di questa duplice eredità di Marx è stato proprio quello
che si suole definire «marxismo». Anche la realtà politico-culturale che
si designa con questo termine è stata qualcosa di assai singolare
perché ha avuto una duplice natura: da un lato è stata una corrente
culturale presente in modo più o meno intenso nei vari ambiti
disciplinari, dall’altro è stata anche il riferimento «statutario» di
partiti e organizzazioni politiche (socialiste o comuniste): cosicché le
discussioni sul marxismo per un verso si sono dipanate come un libero
dibattito culturale, per altro verso sono state un elemento della lotta
politica tra frazioni e gruppi all’interno del movimento operaio e dei
suoi partiti.
Ma che rapporto c’è tra il pensiero Marx e il «marxismo»? Un primo
aspetto che deve essere messo a fuoco, se si vuole ragionare su questo
punto, è che la conoscenza e la diffusione dell’opera di Marx è stata,
durante la sua vita e nel tempo immediatamente successivo, decisamente
molto limitata. Anzi si potrebbe dire che, su questo tema, viene alla
luce una sorta di contraddizione. Colui che è divenuto la fonte
ispiratrice di un «ismo», e cioè di qualcosa che comporta
inevitabilmente una certa dogmatizzazione, aveva con la propria opera un
rapporto decisamente molto critico e problematico.
Molti dei suoi scritti, Marx li lasciò semplicemente inediti, per la
gioia di coloro che li scoprirono o li pubblicarono quaranta
o cinquant’anni dopo la sua morte. E agli inediti appartengono, questo
può essere interessante da ricordare, la gran parte dei testi sui quali
si è affaticato il dibattito marxista a partire dagli anni Venti del
Novecento: vivente, Marx non pubblicò né la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (scritta nel 1843, a 25 anni), né i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Non solo, abbandonò in soffitta, alla critica distruttiva dei topi,
(seppure dopo alcuni tentativi di pubblicazione non andati a buon fine)
anche quello che era un vero e proprio libro scritto con la
collaborazione dell’amico Engels, L’ideologia tedesca; un testo
non certo trascurabile, dato che vi si trova la prima e la più ampia
delineazione di quella «concezione materialistica della storia» che
costituisce uno degli apporti più significativi di Marx alla vicenda del
pensiero moderno. Di una enorme quantità di manoscritti concernenti la
critica dell’economia politica Marx pubblicò pochissimo; in sostanza,
solo il primo libro del Capitale (1867, e successive edizioni
rimaneggiate) e quella anticipazione delle prime parti di esso che è Per
la critica dell’economia politica (1859). I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (noti anche come Grundrisse),
così importanti per la discussione marxista degli ultimi decenni del
Novecento, furono conosciuti in pratica solo dopo l’edizione che uscì in
Germania orientale nel 1953.
Come Engels giustamente osservava commemorando l’amico, però, non si
può parlare di Marx tralasciando l’altro aspetto della sua personalità,
quello di militante e dirigente politico. «Lo scienziato non era neppure
la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia,
una forza rivoluzionaria. Perché Marx era prima di tutto un
rivoluzionario. La lotta era il suo elemento. E ha combattuto con una
passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno
combattuto».
Una visione politica
In tutta la sua vita, anche se con alcune interruzioni, Marx è stato
un militante e un dirigente politico ma soprattutto, come scriveva
Engels, un combattente, che ha lottato per affermare i suoi punti di
vista sia verso l’esterno sia all’interno delle organizzazioni di cui
era parte. Come politico, dunque, Marx ha sviluppato una ben precisa
visione della lotta e della emancipazione della classe operaia, che
contrastava nettamente con quelle che venivano proposte dai molti leader
con i quali egli si confrontò in quarant’anni di lotta politica: da
Proudhon a Lassalle, da Mazzini a Bakunin.
La più netta delle opzioni politiche di Marx è la tesi secondo la
quale non vi è salvezza attraverso il miglioramento del sistema sociale
dato, ma solo attraverso il suo rovesciamento, cioè attraverso la
negazione dei pilastri su cui si basa la sua economia, la proprietà
privata delle risorse produttive e la mercificazione dei beni e del
lavoro. Sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria Marx non avrà mai
dubbi, e questo lo divide sia da altri socialisti del suo tempo, sia da
quelli che, pur partendo dalle sue acquisizioni, le curveranno in una
direzione gradualista o migliorista.
Al testamento spirituale di Marx appartengono organicamente le
polemiche che, negli ultimi anni della sua vita, egli indirizza contro
l’ala moderata della socialdemocrazia tedesca (vedi ad esempio
l’importante lettera ai leader Bebel, Liebknecht e altri, inviata da
Londra nel settembre del 1879), il grande partito che, fortemente
influenzato dalla sua dottrina, si avviava però, in alcune sue
componenti, a darne una lettura riformista o «revisionista».
Ma torniamo al processo di formazione del «marxismo»: gli storici ci
informano che l’aggettivo «marxista» viene dapprima utilizzato con un
significato dispregiativo: all’interno della Prima Internazionale
(fondata nel 1864) i nemici della corrente che fa capo a Marx, e primi
fra tutti i seguaci di Bakunin, indicano come «marxidi», «marxiani»
(termine modellato forse su quello di «mazziniani») e più tardi come
«marxisti» coloro che si rifanno alle tesi del pensatore di Treviri.
Le accuse di settarismo
I «marxisti» sono visti dai loro nemici anarchici come una frazione
settaria e autoritaria che cerca di egemonizzare l’Associazione
internazionale dei lavoratori. Quanto al sostantivo «marxismo», si può
affermare per certo che esso (sempre con un significato polemico)
compare nel 1882 nel titolo di un pamphlet di Paul Brousse (ex anarchico
francese): Le marxisme dans l’Internationale. Il contesto in
cui si inserisce il libello è quello del confronto interno al socialismo
francese tra un’ala riformista e una rivoluzionaria ispirata a Marx
e facente capo a Jules Guesde; e fu proprio in riferimento a questa
contesa che Marx ebbe occasione di osservare, conversando con Paul
Lafargue: «Una cosa è certa, che io non sono marxista». Ciò non vuol
dire che Marx non fosse d’accordo con se stesso o che fosse contrario al
«marxismo». La questione è tutt’altra: se Jules Guesde veniva accusato,
dai suoi nemici, di obbedire agli ordini di un «prussiano» che viveva
a Londra e che pretendeva di dare indicazioni al socialismo francese,
Marx invece non si sentiva così vicino al leader in questione, e dunque
ci teneva a sottolineare che non vi era una netta identificazione tra
lui e la corrente francese che al suo nome veniva accostata.
Sta di fatto, comunque, che il termine «marxista», dapprima usato in
senso critico e polemico soprattutto dagli anarchici, venne
positivamente fatto proprio, negli anni Ottanta, dall’ala più radicale
dei socialisti francesi: «A poco a poco, i discepoli di Marx in Francia
presero l’abitudine di accettare una denominazione che non avevano
creato loro e che, destinata fin dall’inizio a distinguerli dalle altre
frazioni socialiste, si trasformò alla fine in una etichetta politica
e ideologica» (Maximilien Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli).
Fu così che anche Engels, che dapprima non aveva visto con favore
l’uso di un termine che, come «marxismo», personalizzava eccessivamente
la linea del movimento socialista rivoluzionario, finì per accettarlo
e legittimarne l’uso, ovvero per convertire in positivo una parola che
era nata con un senso tutto diverso. Come ha ricordato Maximilien Rubel,
la cui attitudine nei confronti del compagno di Marx è peraltro, va
ricordato, duramente polemica, in una interessante lettera dell’11
giugno 1889 a Laura Lafargue, Engels osservava con soddisfazione che gli
anarchici si sarebbero mangiati le mani per avere creato questa
denominazione destinata a divenire nel tempo la bandiera di chi la
pensava in modo opposto a loro. E, anche con l’imprimatur di Engels, il
termine marxismo cominciò ad affermarsi pure nella socialdemocrazia
tedesca, della quale sarebbe divenuto il riferimento costante e talvolta
anche ossessivo.
Il rischio del fideismo
Ma il punto più importante che deve essere sottolineato è che il
ruolo di Engels andò ben oltre quello di legittimare la parola
«marxismo». Ciò che molti (tra cui Rubel) hanno sostenuto, infatti,
è che Engels fu il vero padre del marxismo nel senso che fu colui al
quale si deve non tanto la parola ma proprio la cosa; ovvero fu colui
che trasformò il pensiero di Marx in un «ismo», cioè in un sistema di
pensiero catafratto e onnicomprensivo, da prendersi in blocco con rischi
di dogmatismo e di fideismo.
Si annida qui un problema, o se volgiamo un paradosso, sul quale vale
la pena di fermarsi per un momento a riflettere. La storia degli
effetti del pensiero di Marx è segnata allo stesso tempo, verrebbe
voglia di dire, da una vittoria e da una sconfitta: l’eccezionale
risultato che il pensiero di Marx conseguì, e che ne fa qualcosa di
unico e di difficilmente paragonabile ad altri percorsi teorici, fu
quello di riuscire effettivamente a realizzare l’obiettivo che il
giovane Marx si era posto fin dal 1845: superare la scissione tra la
teoria e la prassi, ovvero dare vita a una teoria che potesse anche
diventare una operativa forza di trasformazione del mondo. Proprio
questo accadde nel momento in cui nacquero e si svilupparono partiti
e organizzazioni politiche che assumevano questa teoria come loro punto
di riferimento ideale.
Questo processo comportò però una conseguenza non altrettanto
positiva: divenendo il riferimento «statutario» di partiti
e organizzazioni il pensiero di Marx non poté più essere considerato
come l’approdo di una ricerca teorica per tanti aspetti anche
problematica e incompiuta, da svolgersi e magari da superarsi
criticamente, ma fu esposto alla conseguenza di irrigidirsi in una
«dottrina», di subire un processo di ossificazione poco compatibile con
l’idea di una ininterrotta ricerca critica.
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