“ ..come se le proprietà i gradi ,
gli uffici non venissero guadagnati con la corruzione e l'onore
immacolato fosse acquistato davvero col merito di chi lo indossa”.
Shakespeare, Il mercante di Venezia.
Non
ci vuole molto a capire che questo paese è stato rovinato da
Tangentopoli. Ma in un preciso senso: l’impatto mediatico delle
inchieste della magistratura milanese dell’epoca ha fatto credere che i
problemi italiani fossero risolvibili insistendo sulla sfera morale.
Da allora si sono susseguiti, e continuano a farlo, movimenti di
moralizzazione della vita pubblica anche molto diversi tra loro. Legati
più o meno dallo stesso mito: l’idea che la moralizzazione fattasi
regime, e processi con tanto di condanna, avrebbe riportato il paese in
equilibrio. E si parla di movimenti spesso legati tra loro, ovviamente,
dalla stessa modalità di fallimento non di rado risoltasi in parodia (la
Lega di Bossi tra gioielli e titoli della Tanzania; il Prc di
Bertinotti, genere moralizzazione di sinistra, col leader imprigionato
nei pigiama party dell’alta società; l’Idv di Di Pietro affondata in
pochi giorni dopo l’inchiesta di una trasmissione televisiva). Per
entrare nelle criticità reali della società italiana molto più di Marco
Travaglio, la politica di questo paese avrebbe dovuto affrontare Marc
Abèles. Autore che ci spiega le complesse modalità a rete della
dissipazione delle risorse comuni come avvengono dagli stati africani
alla governance europea (mentre i movimenti di moralizzazione sono fermi
all’idea generica della “casta”, a quella che non spiega niente delle
“mafie” o, peggio, alla categoria banale dei “corrotti con i complici”).
Già perchè il sovrapporsi di crisi sistemiche della società italiana,
che ne vive diverse dalla caduta del muro di Berlino, genera complesse e
aggressive reti di appropriazione di beni pubblici assai voraci, che si
giocano la propria sopravvivenza, e capaci di infiltrarsi ampiamente
dei movimenti legati ai processi di moralizzazione. I quali oscillano,
confusamente, tra il mito dell’arresto salvifico, quello delle buone
pratiche da giardino e il timore che la corruzione sia inarrestabile.
Eppure già nel 1992, con lo
smantellamento del sistema di protezione del salario e della banda di
oscillazione della lira, era evidente che l’assetto sistemico del paese,
ormai lanciato nel mare della globalizzazione dopo la fine della guerra
fredda, aveva tutte le caratteristiche per non tenere. Da
allora i processi di deterioramento delle istituzioni a supporto, e a
disciplinamento, della società (sfera giuridica, sanitaria, educativa,
di protezione sociale, decentramento etc.) sono stati maggiormente
rilevanti di quelli di modernizzazione. Anche, anzi, a maggior ragione
(si guardi la stagnazione complessiva del Pil dal 2002 a oggi), nel
momento in cui l’altro grande mito, quello della modernizzazione
irreversibile per via europea, trova coronamento simbolico nell’entrata
in vigore della moneta unica.
Da queste criticità sistemiche non poteva rimanere immune il sistema bancario.
Anzi, le mutazioni dell’ultimo quarto di secolo in Italia sono ben
anticipate dalla riforma Amato del 1990. La quale, recependo benissimo
la incipiente finanziarizzazione dell’economia globale incubatasi negli
anni ’80 (in Europa con le direttive Ue del 1986 e del 1988 sulla
liberalizzazione dei capitali fortemente nazionalizzati fino agli anni
‘70) scioglieva di fatto le banche come istituto di diritto pubblico,
facendole diventare società per azioni. All’alba degli anni ’90, e al
declino della prima repubblica, il potere reale italiano, non quello
legato ai movimenti di opinione ma alla proprietà e alla circolazione di
ricchezza, si dava quindi una struttura che ritroveremo più volte nel
corso dei lustri successivi. Quella dove si intrecciano il potere della
moneta, dove le banche (a volte con profitto altre affannosamente) come
Spa si legano alle mutazioni del capitale nazionale e globale, e quella
del potere di relazione, contenuto nelle fondazioni bancarie a controllo
delle banche stesse, dove si relazionano ceto politico, manager ed ogni
genere di potere in grado di mettersi a rete. Si capisce così che il
potere reale italiano quando ha mollato, dagli inizi degli anni ’90, la
rappresentanza sociale diretta (partiti, sindacali, società civile) lo
ha fatto a ragion veduta. Consapevole di essersi comunque legato al più
forte potere di governo –antico ma dai nuovi connotati- quello della
moneta e dei suoi derivati. E per governare una società, di fatto,
postindustriale basta stare al centro delle dinamiche di potere della
moneta e della comunicazione. E il resto, avanzi pure, può dire e fare
cosa preferisce. Fino a quando non viene una Le Pen che della
comunicazione sa cosa fare ma questa, come sappiamo, è un’altra vicenda.
In questo quarto di secolo sono
avvenute moltissime cose –non esiste più la banca centrale nazionale, ci
sono stati numerosi accorpamenti bancari, ci sono investitori
stranieri, si fanno molti meno soldi coi correntisti che in passato, i
prodotti finanziari tossici si sono moltiplicati in modo incredibile, le
evoluzioni tecnologiche e delle globalizzazione e dei processi di
governance hanno inciso profondamente sul banking, il declino del pil ha
ridotto i margini di manovra di tutti gli attori in scena, le banche
centrali, oltre a stampare i soldi come mai nella storia umana, più che
istituti di regolazione sono giocatori nei mercati ad alto rischio- ma
lo schema di comportamento del potere reale italiano è sempre quello
codificato dalla legge Amato del ’90. Vale a dire inseguire le
ondate di liberalizzazione dei capitali da una parte tentando di
adeguarsi a questa tendenza, dall’altra cercando di mantenere, o di
adattarvi, tutto il potere di relazione della società italiana che conta
o che presume di contare (giusto per sprovincializzare il problema: lo
schema non è solo italiano. Lo possiamo trovare, grosso modo, anche nel
mondo finanziario di un grande paese in stagnazione: il Giappone. Molto
interessante in materia è il testo di Hirokazu Miyazaki, Arbitraging
Japan. Dreams of Capitalism at the End of Finance). Certo, Giuliano
Amato ha ampiamente riscosso i dividendi dovuti al copyright di questo
schema: un paio di volte presidente del consiglio, poi ministro adesso,
dopo aver mancato la presidenza della repubblica, membro della corte
costituzionale. Tra l’altro Amato è anche autore della legge
liberticida, votata e applaudita nel 2007 da tutte le sinistre arrapate
di legittimazione securitaria, che ha svuotato gli stadi italiani.
Amato, all’incrocio dei processi di governo della moneta della
comunicazione, lo stadio fa parte di questi ultimi, come dire: la
biografia di questo signore è una nota vivente per chi è interessato,
oltre che a leggerla, a come funziona veramente il potere.
Andiamo quindi a leggere il
“salvataggio” delle banche in crisi, di medie dimensioni, da parte del
governo Renzi avendo in testa sia il sovrapporsi di crisi sistemiche nel
paese che lo schema di adattamento, da parte del potere reale italiano,
alle evoluzioni della finanza globale.
Qui bisogna stare attenti al fatto che
lo schema della moralizzazione della politica non è in grado di
spiegarci cosa sta accadendo alle banche italiane. La moralizzazione
riduce il funzionamento dei dispositivi bancari a schemi antropomorfici:
le banche “ingorde”, “corrotte” e “ladre” avrebbero provocato il danno
magari riparabile con una corretta legislazione e con il richiamo
all’efficienza di mercato. La vicenda Monte dei Paschi –nella quale
comunque ingordigia, corruzione e ladrocinio non sono certo mancati- ci
aiuta invece a capire come è saltato un modello di business bancario e
quali effetti abbia avuto. Perchè, come è accaduto per la storica banca
senese, gli istituti di credito non riescono più a ricevere profitti dal
territorio e, allo stesso tempo, non hanno margini per finanziare le
imprese e le istituzioni. La doppia crisi, dell’economia territoriale e
della scappatoia della bolla immobiliare, ha reso impossibile al Monte
avere livelli di profitto e quindi di redistribuzione (qui
semplifichiamo) come nel passato. Allo stesso tempo, una delle fonti
storiche di approvvigionamento di profitti, i tassi di Bot e Btp è
andata calando con il declino dei tassi di interesse. Non restava, come
ha fatto MPS, che l’avventura con i titoli tossici. Avventura, come
sappiamo, andata male. Se guardiamo al modello MPS si capisce cosa sia
entrato in crisi nei modelli di business delle banche locali “salvate”
dal sofferto (nella gestazione e nelle conseguenze) decreto del governo:
la crisi dei profitti prodotti sui territori, assieme al lento
sgonfiamento dei valori immobiliari, e quindi dei relativi servizi
finanziari; la difficoltà ad approvvigionarsi sul mercato, un tempo dai
profitti sicuri, delle obbligazioni di stato (siamo passati da oltre il
4% di interessi all’inizio della crisi Lehman a quasi zero); il rischio
di dover correre qualche avventura di troppo nel mare tempestoso dei
titoli tossici. Infatti, le quattro banche recentememente “salvate”
mostravano tutte questi sintomi di malattia già riscontrati nella
vicenda Monte dei Paschi.
E qui, secondo la visione
dell’Europa tipica di tante subculture italiane della moralizzazione, si
potrebbe anche pensare che si tratti di un problema tipicamente
nazionale. Magari sintomo dell’arretratezza dell’Italia
profonda nei confronti di una Europa tecnologica ed avanzata. Sono
suggestioni che possono andare bene a chi ha votato Renzi, a chi crede
che la Camusso sia una sindacalista e non un sauro, a chi pensa che
Pisapia sia stato un sindaco e non un crocevia di interessi bancari
(vedi il ritiro della causa civile del comune di Milano al processo sui
titoli tossici Deutsche Bank) e immobiliari (vedi l’appiattimento al
modello renzi di governance prefettizia dell’accumulazione immobiliare
inaugurato con Expo). Ma vediamo cosa accade nel mondo reale.
Se andiamo infatti a vedere la crisi delle Sparkassen, ma ancora di più delle Landesbanken tedesche
(che hanno goduto di una legislazione più ambigua e a partire dal 2008 e
si sono scottate di brutto con la grande crisi dei subprime si veda
questo storico articolo di un esperto di politica monetaria della
Hochschule di Brema www.wirtschaftsdienst.eu/downloads/getfile.php?id=2089)
scopriamo infatti che, da tempo, anche il modello di business della
banche locali tedesche è in crisi. Non solo, come si capisce dalla data
della crisi delle Landesbanken, i tedeschi hanno provato da molti anni a
risolvere la crisi del loro modello di business locale investendo in
titoli tossici della finanza globale. Come dire, MPS, che si strozzò da
solo con i titoli tossici della giapponese Nomura, non è stato un caso
dovuto a corruzione e avidità tutte italiane. Ma la norma delle
difficoltà del modello di business bancario oggi che ci fa capire la
crisi di un capitalismo che ha grosse di difficoltà sia a fare soldi a
mezzo produzione di merci sia a fare soldi facendo girare moneta tra le
banche e, persino, stampandola tramite le banche centrali. Poi il fatto
che gli attuali tassi negativi dei bund tedeschi penalizzino le banche
in Germania, come ha sottolineato più volte la stessa Handelsblatt,
rendono questa crisi non ancora risolta (mettendo a rischio i potenti
fondi pensione teutonici). Nonostante che sia stata fatta molta strada,
in termini di governance europea del fenomeno, dal 2008, non è affatto
raro trovare analisti che sostengono che tutte le misure prese
dall’eurozona da allora, in termini di politica del rigore, altro non
sono che un gigantesco salvataggio del sistema bancario tedesco.
Recentemente su Bloombergview un analista ha retrodato alla crisi del
1998, ancor più sconosciuta al grande pubblico, questo genere di
tentativo di salvataggio del sistema tedesco. Il punto è che, così
facendo, si perdono di vista sia le grosse crisi che attraversano il
sistema bancario francese che il legame, di questo sistema, con il mondo
bancario tedesco (tanto che il presidente della Bundesbank a suo tempo
si è specializzato in rapporti economico-bancari tra Francia e
Germania).
La crisi del banking italiano è
quindi il riflesso, tutto legato ai territori, di una serie di
fortissime criticità del mondo bancario continentale, del suo rapporto
con la crisi della produzione di valore tramite produzione di merci e
con quello della produzione di valore tramite creazione di denaro.
Viene davvero da dire: magari la vicenda del fallimento di quattro
banche italiane fosse una truffa. Non esisterebbero delle criticità, nei
sistemi bancari europei, i cui riflessi reali sono tali da assestare
colpi molto duri all’economia e allo stato sociale del continente.
Andando nello specifico del
decreto di “salvataggio” delle quattro banche in crisi (tra cui la Banca
dell’Etruria, il cui vicepresidente è il padre della ministro Boschi,
il cui istituto era già stato beneficato da interventi legislativi la
scorsa primavera) cominciamo dal fatto che ha suscitato maggior rumore:
tanta gente è rimasta senza risparmi investiti in azioni e obbligazioni
delle banche “salvate”. Ma perchè non si è fatto ricorso al Fondo
Interbancario per la Tutela dei Depositi (FITD)?
I motivi sono tanti tra cui uno
molto importante. Il Fondo servirà, secondo le direttive della Banca
centrale europea, alle prossime crisi italiane, quelle a partire dal
primo gennaio 2016. E si tratterà di una modalità di “salvataggio” delle
banche che rovescia l’approccio tenuto durante la grande crisi del
2008. Si passerà, a partire da gennaio, dal bail-out al bail-in. In
poche parole ad un pieno rovesciamento di filosofia, causa anche
l’impossibilità, da parte dell’eurozona e della Bce, dell’intervento
pubblico europeo nei confronti delle banche. Infatti, fino
sostanzialmente alla crisi cipriota del 2012, le banche che entravano in
crisi, nelle varie emergenze da titoli tossici, venivano salvate con il
bail-out. Ovvero lo stato nazionale, con l’aiuto della Bce,
copriva il debito della banca entrata in crisi e il cittadino pagava
sotto forma di politiche di austerità visto che questi soldi, messi
dallo stato per salvare la banca, erano sottratti direttamente alla
spesa pubblica. Con il corso degli anni, vista l’enormità della crisi
delle banche europee, nell’eurozona si è fatta strada la consapevolezza
che i bail-out non sono finanziabili come nel passato. Allora si è
passati, anzi si passerà ufficialmente dal primo gennaio, al bail-in.
Ovvero, per farla breve, una forma di “salvataggio”, in cui l’intervento
pubblico è ridotto, e non può essere configurato come “aiuto di stato”,
e nel quale diverse categorie di risparmiatori e di correntisti pagano
direttamente. E cosa accade? Ovviamente che interi nuclei familiari,
piccole imprese, dipendenti di queste imprese rischiano la sopravvivenza
ad ogni serio bail-in. Così mentre con il bail-out si alimentava il
lepenismo, poi tradotto in varie forme nelle tante culture nazionali,
grazie alla contrazione dello stato sociale, con il bail-out lo si
alimenta attaccando direttamente il risparmio. Sagace, come diceva
Claudio Bisio in una nota pubblicità. Ma sono cose che accadono quando
si lascia fare agli spiriti animali del mercato della moneta. Animali
che finiscono per sbattere la testa, e con loro intere società, con i
limiti del capitalismo contemporaneo. Il “salvataggio” delle banche, ma
non dei risparmiatori come è stato fatto capire senza problemi da
esponenti del Pd e del governo Renzi, genera poi una crisi molto seria
nel tessuto della società italiana. Quella del rapporto fiduciario tra
banca e risparmiatore, visto che molti di quelli che hanno perso i soldi
erano stati direttamente “consigliati” dalla loro banca. E, in una
società impaurita dalla crisi, non c’è niente di peggio di una crisi di
fiducia non tanto nella politica istituzionale, a quella non ci crede
più nessuno, ma in quella della microfisica dei rapporti legata
all’unica istituzione in cui tutti veramente credono: la moneta.
Ma
come sono messe oggi le banche italiane? Si guardino un paio di
infografiche giusto per entrare nella differenza tra (ehm) narrazione
renziana dell’Italia che riparte e mondo reale. Il primo, ringraziando
linkerblog, è dedicato al credito concesso ai residenti..toh nel periodo
in cui, secondo i tg, la ripresa dell’Italia renziana e liberista si
faceva sempre più rampante
L’Italia, come si vede, nel periodo
della super-ripresa renziana ha visto contrarre del 5% il credito
concesso a residenti. Non a caso, dopo quello che abbiamo scritto,
questa contrazione è avvenuta anche in Germania. Certo, in Germania le
scorte per consumare ci sono. In Italia, lo si capisce in un attimo,
questa infografica è indice di un paese in regressione economica. Come
ci testimonia infatti, sempre da linkerblog, il calo, nello stesso
periodo, della liquidazione delle fatture da parte della banche.
Queste
due infografiche ci fanno capire, meglio di tante analisi, come le
politiche di della Bce di Draghi a) ufficialmente servano per fornire
liquidità alle banche italiane per l’economia ma, di fatto (come
avvenuto in Giappone) non impediscano il fenomeno b) ovvero servire, nel
migliore e niente affatto certo dei casi, a stabilizzare i propri
bilanci ma non a prestare capitali a imprese, famiglie, consumatori.
E non è finita qui. E’ tutto capire il
futuro del sistema italiano del credito. Specie se entrerà a regime il
mercato unico dei capitali per le infrastrutture magari sottraendo
terreno alle banche nazionali. Terreno, quello del finanziamento alle
infrastrutture e del grande credito già incalzato dal sistema bancario
ombra. Sistema che è seriamente in crescita secondo rilevazioni della
stessa Bce (https://www.ecb.europa.eu/press/pr/date/2015/html/pr151029.en.html).
Mentre dall’altro lato, quello della microfisica del credito al
consumatore, il ruolo delle banche europee comincia ad essere minacciato
dal fenomeno del lending on line e della peer-to-peer finance (si veda http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2439088).
Per non parlare della crescita di piattaforme di prestito tramite
Amazon, Square, Apple, Google. Oggi, in Italia, tutto abbastanza
embrionale. Ma non c’è fenomeno della rete che poi non abbia invaso il
nostro paese. E le conseguenze sull’economia, e per la politica, di
tutto questo sono davvero tanto strategiche tanto da analizzare. Il
credito troppo grande (lo shadow-banking) e troppo piccolo (il modello
peer-to-peer finance) sta sgretolando la trasmissione di ricchezza così
come è stata strutturata nell’ultimo quarto di secolo nel nostro paese.
Al netto del fatto, non secondario, che la crisi delle banche europee,
come abbiamo visto, manifesta le proprie caratteristiche anche in
Italia.
Come si comprende, con la vicenda
dell’evaporazione dei risparmi nel recente decreto salvabanche non si
osserva tanto la vicenda di quattro banche e del loro provinciale
management. Quanto l’effetto locale di una crisi complessiva delle
banche europee che tocca la forte criticità nel supporto di produzione e
consumo. Renzi, come al solito, è impagabile. Ha anche dichiarato che
sta studiando una riforma del sistema bancario cooperativo “modello
Crédit Agricole” (http://www.agi.it/politica/notizie/banche_renzi_dopo_natale_consolideremo_il_credito_cooperativo-201512061055-pol-rt10015 ).
Non è purtroppo dato sapere quale roba
potente avesse fumato chi ha suggerito la battuta a Renzi che ha pure
parlato del Crédit come “modello solido”. Perché il Crédit Agricole, ha
fallito proprio quest’anno la riforma della propria governance, appena
nel 2014 era considerato la banca tossica più pericolosa d’Europa e
controllava un’altro grande ordigno di titoli tossici: il portoghese
Banco do Espirito Santo. Insomma, è in grave crisi sapendo di esserlo.
Marjiuana potente a parte, sono
dichiarazioni, evidentemente, fatte per favorire qualche amico rialzista
tra cui magari il babbo della ministro Boschi (senza che nessuno
ravvisi il più elementare conflitto di interessi). E il tutto dopo aver
fatto guadagnare qualche amico ribassista, incidentalmente iscritto al
Pd, che ha guadagnato dalla crisi dei titoli Mps.
Ecco quindi l’interpretazione
renziana del modello Amato: l’adeguamento alle mutazioni dei mercati
finanziari passa per una restrizione del ceto (politico, bancario, di
relazioni sociali), in grado di approfittare di tutto questo.
Mentre un quarto di secolo fa la base sociale del passaggio della banche
a Spa era ampia -si trattava del risparmio inteso come base materiale
di consenso delle ristrutturazioni anni ’90- oggi la restrizione di
questa base appare palese. E persino quella del suo vertice.
Certo nella vicenda del salvataggio alle banche, truffe ed episodi di colore ci sono.
Ma chiunque abbia qualsiasi velleità di governo deve mettere il primo
piano una politica monetaria alternativa con l’avvertenza, naturalmente,
che rischia di saltare in una notte come Varoufakis. L’Europa non
tollera, come abbiamo visto, dissociazioni dal modello dominante. Per
quanto disastroso sia.
Certo i movimenti della moralizzazione
dovrebbero mutare, trasformandosi in politici, passando da una
strutturazione liquida, legata agli umori dell’opinione pubblica, a una
con un diretto legame con la struttura sociale del paese. Imparando dal
passato e senza importare la maggior parte dei difetti dei vecchi
partiti. Per adesso queste ultime frasi appena scritte sono qualcosa a
metà tra la scatenata fantascienza e la petizione di principio. Certo
qualcosa accadrà, giusto il Censis può pensare che, come fa da decenni
tutte le volte che non sa cosa dire, che la società italiana è
addormentata. Bisogna vedere però, questo si, con quali umori si
risveglia. Intanto il potere reale, non quello immaginato in articoli e
testi che vivono in un mondo fatto di incerte fantasie, muta, evolve e
cerca nuovi dispositivi di stabilizzazione. A spese nostre, mai
dimenticarlo.
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