mercoledì 31 luglio 2013

Modello Alfa Romeo per Marchionne di Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano

Tra i molti danni inflitti da Silvio Berlusconi c’è quello di aver costretto milioni di italiani a occuparsi delle sue vicende, incluso l’epilogo di queste ore, invece che di problemi più seri. Mentre noi siamo concentrati sulla corte di Cassazione, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne si permette di dire che in Italia le “condizioni industriali rimangono impossibili”. Colpa della Costituzione, come ormai è chiaro dopo la sentenza della Consulta che ha censurato il modo in cui il numero uno del Lingotto ha tenuto fuori dagli stabilimenti il sindacato della Fiom.
La banca americana JP Morgan ha sostenuto una tesi che il manager sta applicando con metodo: la crisi nei Paesi mediterranei è colpa di Costituzioni scritte dopo dittature, sotto l’influenza della sinistra che è riuscita a garantire fastidiosi diritti che ora bloccano la nostra competitività. E quindi ora l’incostituzionale Marchionne minaccia di spostare la produzione dell’Alfa Romeo all’estero. Nella moda i grandi gruppi pagano miliardi per comprare marchi simbolo dell’italianità, l’ultimo è Loro Piana andato a Lvmh. Si svenano per acquistare il pacchetto completo, il brand, i valori che ci sono dietro, la storia, il fascino. E niente rappresenta meglio la tradizione e le ambizioni dell’Italia che l’Alfa: connubio di meccanica e stile, tecnologia e arte.
Quel genio di Marchionne prima si rifiuta di vendere il marchio alla Volkswagen, che lo avrebbe coccolato come sta facendo l’Audi con la Ducati, poi lo svilisce, spiegando che un’Alfa si può fare ovunque, non solo in Italia. E per dimostrarlo si è già alleato con la giapponese Mazda per costruire il nuovo Duetto Alfa nell’ultimo luogo al mondo da cui può uscire un’auto che ambisce a evocare fascino, sport e dinamismo: Hiroshima. Ancora qualche anno di cura Marchionne i marchi Fiat saranno sviliti a tal punto che i concorrenti non li vorranno neppure in regalo. E l’Italia avrà perso un altro pezzo della sua storia. E del suo futuro.

Ma l’Italia è già fuori dall’Europa di Roberto Romano, Il Manifesto

La nostra struttura produttiva non produce beni e servizi che il mercato domanda. Lo dicono tutti gli indicatori economici. Un esempio: su 100 pannelli solari, 98 sono importati, 1 è prodotto da un’impresa estera in Italia, e solo 1 da un’impresa italiana

La crisi (2007-2013) all’inizio ha coinvolto più o meno tutti gli stati allo stesso modo, ma le politiche pubbliche adottate e, soprattutto, la struttura produttiva hanno declinato la crisi in tanti modi diversi, quasi quanti sono gli stati analizzati. In altra parole c’è crisi e crisi. Alcuni paesi sono in depressione, altri in recessione, altri ancora in stagnazione, alcuni vivono una leggera crescita, altri, pur tra mille difficoltà, crescono.
Qual è il nodo di struttura che ha diversificato la profondità della caduta del reddito? Sostanzialmente la divisione internazionale del lavoro e la specializzazione produttiva, nell’ambito del commercio internazionale, hanno concorso a rendere più veloce la caduta-stagnazione-crescita del Pil. Quindi, non è corretto sostenere che la crisi è peggiore di quella del ’29 in senso assoluto. È molto più corretto sostenere che la crisi è peggiore di quella del ’29 per l’Italia. Qui pesano le tecniche superiori di produzione (Leon), e non solo l’intervento pubblico teso a comprimere la domanda via avanzi primari.
La realtà è ancora più dura se prendiamo in considerazione la domanda effettiva in senso stretto. Non bisogna mai dimenticare che la domanda effettiva si concentra nei settori dinamici, mentre i comparti meno produttivi hanno un beneficio pari a un multiplo di quella intercettata dai settori dinamici. La struttura produttiva nazionale italiana, purtroppo, non produce beni e servizi che il mercato domanda, quindi l’aumento della domanda (effettiva) dell’Italia si traduce in un multiplo. In altri termini, la contrazione percentuale della quota del Pil mondiale dell’Italia è pari al 16% tra il 2008 e il 2013, contro una riduzione più contenuta di tutti gli altri paesi.
Una rappresentazione di come lavora la domanda effettiva (realmente) a livello internazionale è legata alla capacità della Germania di modificare la propria specializzazione produttiva al mutare del reddito internazionale. La dinamica del Pil della Germania è sempre stata legata al commercio intra Europa, ma questo “vincolo” nel corso della recente crisi si è significativamente ridotto. Non è scomparso, ma la possibilità-capacità di crescita della Germania via domanda interna europea ha lasciato il posto alla dinamica del commercio internazionale, compensando in tutto o in parte la caduta del saldo attivo della bilancia commercia intra Ue. Sostanzialmente la crescita del reddito dei paesi emergenti, del Pil e del commercio internazionale, è stata agganciata dall’industria tedesca via beni e servizi che i paesi emergenti non possono produrre al proprio interno. Una domanda che non interessa solo i beni di consumo, ma anche i beni strumentali che concorrono a modificare il profilo del reddito di quei paesi.
Per il momento la crescita tedesca non è ancora del tutto sganciata dall’Europa, ma le politiche adottate fanno prefigurare un progressivo sganciamento della propria crescita (Pil) dalle esportazioni verso l’Europa.
Diversamente dalla Germania, l’Italia rimane saldamente ancorata al mercato interno europeo, modificando in meglio o in peggio la performance del Pil. Infatti, la dinamica del commercio extra Ue non riesce in nessun modo a sostituire la dinamica del commercio intra Ue, anche perché l’Italia continua a perdere quote di mercato internazionale. Non solo. Europa 2020 e le politiche europee sottese, potrebbero ulteriormente aggravare la posizione europea dell’industria nazionale. Solo per fare un esempio, su 100 pannelli solari installati in Italia, 98 sono importati, 1 è prodotto da una impresa estera in Italia e 1 da una impresa italiana.
Ma la situazione economica e industriale dell’Italia è ancor più grave se guardiamo al futuro, cioè alla volontà del sistema industriale nazionale di uscire dalla crisi attraverso nuovi investimenti. L’Italia è sempre stato un paese che ha investito più della media dei paesi europei, ma il crollo intervenuto tra il 2008 e il 2012 ha un significato economico senza precedenti. L’industria italiana ha sempre investito per inseguire i paesi che generavano innovazione, cioè gli investimenti, pur non giocando il ruolo strategico che meritavano, hanno concorso a tenere agganciato il paese all’Europa; nell’attuale situazione, invece, le imprese italiane de-industrializzano. Utilizzando i dati Eurostat, il tasso di variazione degli investimenti è crollato del 17% tra il 2008 e il 2013, contro una media europea del meno 10%. Non tutti i paesi hanno reagito allo stesso modo. Nello stesso periodo la Germania ha investito il 5,5% in più. In qualche modo l’industria italiana produce beni di consumo immediati, e non si preoccupa più della produzione futura.
Non solo l’Italia ha in questi ultimi anni investito meno dei paesi di riferimento, ma l’intensità tecnologica degli investimenti manifatturieri, cioè il rapporto Berd/Investimenti in macchinari delle imprese, è rimasto costante, mentre in tutti i paesi europei si osserva una crescita di questo indicatore di specializzazione. Il suddetto rapporto per l’Italia rimane saldamente ancorato al 10%, mentre negli altri paesi cresce, fino a traguardare il 40%, con l’eccellenza finlandese che raggiunge l’80%. Inoltre, la bassa intensità tecnologica degli investimenti non è risolvibile via incentivi, che spesso si traducono in elusione di una parte della base imponibile. Si ritorna alle riforme di struttura delineate da Pasinetti, Leon e Smith.
Le ricadute occupazionali, più precisamente il tasso di occupazione, sono senza precedenti storici. Se consideriamo che il tasso di occupazione dell’Italia è mediamente più basso di 7 punti percentuali di quello medio europeo, l’ulteriore contrazione di 2 punti percentuali intervenuta tra il 2008 e il 2012, la maggiore tra i paesi di area euro, è lecito sostenere che l’Italia non è più un paese europeo. La combinazione di minore crescita della produzione industriale, di minore crescita del Pil e di una ulteriore riduzione del tasso di occupazione, fanno dell’Italia un malato particolare.
Un esito che non può essere imputato al costo del lavoro e, in particolare, al cuneo fiscale. Infatti, il cuneo fiscale dell’Italia, calcolato dall’incidenza sul costo del lavoro della somma dei contributi sociali e del prelievo sul reddito, per un lavoratore single nel settore manifatturiero, è inferiore a quello di Germania e Francia: in Germania è pari al 49,8 (2011); in Francia è pari al 49,3; in Italia è pari al 47,6%. Quindi, il cuneo fiscale del lavoro italiano ha poco a che fare con le difficoltà delle imprese italiane.
Quindi l’Italia vive una crisi nella crisi. Nel confronto con i maggiori paesi europei, l’Italia si è distinta per le peggiori performance di crescita del reddito, e al tempo stesso per un trend crescente degli investimenti in macchinari e impianti importati. Parallelamente è rimasta stagnante la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese, mettendo in luce la mancanza di una adeguata specializzazione produttiva nei settori high-tech e la totale insufficienza del processo di accumulazione rispetto alla dinamica strutturale in atto.
La crisi nella crisi che l’Italia sperimenta si inquadra dunque in quest’ultimo contesto. Il ruolo degli investimenti per la crescita economica continuerà naturalmente ad essere determinante, ma se il paese non sarà in grado di indirizzare il processo di accumulazione verso un cambiamento della specializzazione produttiva in settori a più alta intensità di ricerca e sviluppo, l’impatto sulla crescita del Pil sarà sempre più ridotto per effetto di un vincolo estero sempre più dipendente dall’interscambio di prodotti high-tech.
Data la natura particolare della crisi italiana, una richiesta di sostegno indiscriminato agli investimenti risulterebbe controproducente. Si tratta invece di promuovere riforme di struttura, capaci di entrare nel merito di cosa produrre, di come farlo e per chi, sollecitando una modifica della specializzazione produttiva verso settori a più alta intensità di ricerca e sviluppo.

(Roberto Romano fa parte del Forum economisti Cgil)

martedì 30 luglio 2013

Paese in caduta libera: vogliamo fermarla? di Bruno Steri, Liberazione.it


Paese in caduta libera: vogliamo fermarla?

Il nostro Paese è in caduta libera. Non è certo un mistero, tutti lo sanno, tutti ne parlano: istituzioni, società civile, comune opinione. Accendi la radio e senti il direttore centrale dell’Istat dichiarare che, accanto ai dati drammatici sull’aumento della povertà “assoluta”, negli ultimi due anni sono raddoppiate le famiglie “in grave difficoltà”, quelle che secondo i parametri europei rispondono a caratteristiche come le seguenti: neanche una settimana l’anno di vacanza, niente carne o pesce ogni due giorni, riduzione dell’erogazione di riscaldamento, non disponibilità di 800 euro per spese improvvise; e via di questo passo. Il 17% delle famiglie italiane (otto milioni di persone)  poco sopra la soglia di povertà: un imprevisto sfavorevole e precipiti anche tu verso il fondo. Accendi il televisore e apprendi da un lavoratore dell’Alcoa che, in quello specifico contesto di crisi, dal gennaio ad oggi si sono registrati 40 (quaranta!) suicidi. Storie ordinarie di una straordinaria crisi capitalistica. Non stupisce che vi sia (vedi il cinquestellare Casaleggio e il ministro della Repubblica Delrio) chi profetizza che alla ripresa settembrina dell’anno politico possano verificarsi delle esplosioni di rabbia sociale. Né può sorprendere la  previsione (solo apparentemente opposta) che “una situazione di alta disoccupazione possa essere accettata come la nuova normalità” e che “la gente possa accettare una depressione più o meno permanente, finendo per pensare che è così che vanno le cose” (Krugman).
Quale potrà essere la piega degli eventi dipenderà in molta parte dall’esistenza o meno di una radicale, compatta, convincente opposizione allo stato di cose presente. Un’opposizione che, in ogni caso, deve aver chiaro ciò a cui si contrappone: non semplici errori di questo o quel governo, dettati da visuale corta e/o teorie economiche fasulle; ma la consapevole gestione di un passaggio d’epoca, una generale e strutturale involuzione (sociale e istituzionale) a tutto svantaggio delle classi subalterne. 

Non si capirebbe altrimenti la pervicacia, apparentemente paradossale, con cui – in Italia come in Europa – si insiste nel (cosiddetto) errore. La dura realtà dei fatti ha smentito il mantra neoliberista: decretando che l’austerità deprime l’economia e ammazza la crescita. Si tratta di una delle più clamorose falsificazioni empiriche nella storia del pensiero economico. Eppure, ancora qualche giorno fa, Peter Praet, capo economista e membro del board della Bce, raccomandava di non abbassare la guardia sul terreno del consolidamento dei conti pubblici e dei tagli alla spesa: certo, per l’Italia egli suggerisce di migliorare “la qualità” delle scelte, visto l’esito infausto di quelle già adottate; ma la linea del rigore non va abbandonata, perché non è possibile escludere “un riacutizzarsi delle tensioni nei mercati”. La minaccia dello spread è insomma sempre dietro l’angolo. Poco importa che ripetute analisi (da ultimo, quella degli economisti Paul de Grauwe e Yuemei Ji) dimostrino l’insussistenza di una correlazione tra l’andamento dello spread e i conti pubblici (in particolare, il debito) e, viceversa, confermino un forte collegamento tra lo spread medesimo e la solidità della costruzione europea (e dell’euro) in quanto tale. Tant’è che è bastato l’annuncio nello scorso luglio 2012 di una garanzia assicurata dalla Bce ai Paesi Ue più esposti alla crisi, per raffreddare la tensione attorno a tale parametro. Né vale reiterare l’essenziale considerazione che la spesa pubblica italiana non è affatto superiore alla media europea; ed anzi risulta più bassa, laddove si scorporino gli interessi sul debito (impennatisi dal 1981, cioè da quando il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro ha esentato la prima dall’acquisto di titoli pubblici e costretto il secondo ad attrarre, con alti interessi, gli acquirenti privati nel mercato aperto). Non di ulteriori tagli di spesa avrebbe bisogno il bilancio del nostro Stato, quanto ad esempio di incrementare le entrate con l’abbattimento (finalmente!) dell’evasione e dell’elusione fiscale, oltre che attraverso una revisione del prelievo fiscale in senso fortemente progressivo. Ma, se non bastassero i rilievi di keynesiani e pericolosi marxisti, dovrebbe almeno far riflettere l’impietosa bocciatura sanzionata dalla Corte dei Conti in occasione della cerimonia di parificazione dei conti dello Stato, alla fine dello scorso giugno: le manovre lacrime e sangue hanno “depresso” l’economia italiana; e la politica dei tagli di spesa lineari si è rivelata un fallimento, causando una caduta verticale dei servizi.
Ancorché pressata dall’imperativo della crescita, la linea dell’Eurozona resta appesa alle inequivoche parole pronunciate recentemente da Angela Merkel davanti al Bundestag (la Camera bassa tedesca): “Crescita e consolidamento del bilancio non sono in contraddizione. Al contrario, si determinano a vicenda. In Germania abbiamo dimostrato come si fa”. In effetti, non si tratta affatto di un’inattingibile quadratura del cerchio.“Come si fa” la Germania lo ha mostrato praticandolo su se stessa (con le “riforme” varate a partire dal 2002 sotto il governo Schroeder dallo Hartz Committee: moderazione salariale, razionalizzazione/flessibilità del mercato del lavoro, ridimensionamento delle spese di welfare, liberalizzazione/privatizzazione dei servizi); e poi imponendo tale impostazione al resto d’Europa. Solo applicando rigorosamente questa cura da cavallo (tradotto: un’inflessibile politica di classe), i Paesi della periferia europea potranno forse ottenere qualche deroga sul piano del conteggio del deficit e della tempistica nel rientro dal debito.
Mario Draghi, impegnato a mitigare il rigore teutonico, non contravviene tuttavia alla logica di fondo. E’ di questi giorni la notizia che, per favorire il credito bancario alla piccola e media impresa (Pmi, che com’è noto caratterizza eminentemente il tessuto produttivo di Paesi come l’Italia), la Bce allargherà la gamma di titoli che le banche sono tenute a presentare come garanzia per ottenere liquidità dalla Bce stessa, includendovi titoli cartolarizzati (i famigerati Abs), basati appunto su prestiti alle Pmi. Ciononostante, sarà assai difficile che tale misura interrompa la stretta creditizia: come Draghi sa perfettamente, se tale stretta è in corso non è solo per una carenza di offerta da parte delle banche ma anche per la carenza di richieste da parte del mondo imprenditoriale, restio a rischiare investimenti in tempo di crisi. E’ il solito giro vizioso: la gente non consuma perché ha sempre meno soldi in tasca, le aziende non vendono e (nel migliore dei casi) restringono l’attività (nel peggiore, chiudono). E’ la selezione naturale innescata dalla crisi capitalistica, che ad oggi vede soccombere, assieme alla parte più fragile dell’apparato produttivo, il lavoro in quanto classe. Così è in Italia e in Europa; così è negli Stati Uniti. Anche negli Usa infatti – come documenta Bruno Cartosio nel suo La grande fratturai ricchi stanno combattendo la lotta di classe e stanno vincendo, mettendo a valore “spostamenti decisivi nei rapporti di forza nella società”: “Tra il 1983 e il 2009, secondo l’Economic Policy Institute, poco meno del 92% dell’incremento di ricchezza è andato al 10% più ricco; per il 30% della fascia centrale l’incremento è stato pari al 15,5%, mentre il 60% più povero si è impoverito del 7,5%”. Da tre decenni nel mondo è in atto l’offensiva del potere capitalistico.
Entro un tale quadro va collocata e giudicata l’azione dei nostri ultimi governi (inflessibilmente orientata dal ruolo di garanzia presidenziale assunto e mantenuto oltre il consueto da Giorgio Napolitano). Nel nostro caso, il conflitto di classe si intreccia con il ruolo subalterno previsto per il nostro Paese nella competizione sovranazionale tra capitali. Cosa avrebbe dovuto dire alla signora Merkel un Presidente del Consiglio che non fosse Letta (ma neanche Renzi o Alfano)? Poche cose ma chiare: Cara signora, con il Patto fiscale (Fiscal compact) concordato in sede Ue e approvato nel luglio 2012 da un Parlamento italiano in larga maggioranza sottomesso (e senza comunisti), ci costringete a prelevare dalle tasche dei nostri cittadini una cinquantina di miliardi all’anno per i prossimi 20 anni. In più, contribuiamo al cosiddetto “Fondo salva stati” – che l’Europa mette a disposizione degli Stati in difficoltà col vincolo del varo di misure socialmente pesantissime – versando una quota parte del 18% del capitale totale (125 miliardi di euro in cinque anni). Tutto ciò è incompatibile con qualunque prospettiva di sviluppo socialmente e ambientalmente progressivo. Chiediamo quindi una revisione dei Trattati; in caso di rifiuto disubbidiremo ai Trattati stessi.
E’ grosso modo quello che ha detto Alexis Tzipras, leader di Syriza, a proposito del memorandum capestro imposto alla Grecia. E’ quello che dovrebbe dire un Presidente del Consiglio eletto da un cartello delle sinistre in Italia. Purtroppo siamo dentro tutt’altra scena. Qualche giorno fa Enrico Letta era a Londra presso l’ambasciata italiana che, per l’occasione, riuniva il Gotha della City: presidenti delle grandi banche di Wall Street, gestori dei grandi fondi d’investimento ecc. Le cronache raccontano (vedi la Repubblica del 19 luglio scorso) che un investitore ha alzato la mano e ha avanzato provocatoriamente la seguente domanda:  quand’è che vi arrendete all’evidenza, ristrutturate il debito o applicate una patrimoniale? Risposta pronta di Letta: nessuna ristrutturazione del debito e nessuna patrimoniale. A settembre o ottobre – ha aggiunto – “lanceremo un piano di privatizzazioni” ed esso riguarderà “anche le imprese pubbliche quotate in Borsa”. Era precisamente ciò che quel pezzo ragguardevole di capitale transnazionale voleva sentire da un capo del governo italiano ligio allo status quo e ai “poteri forti”: Eni, Enel, Finmeccanica, municipalizzate; ma anche (perché no?) patrimonio paesaggistico e artistico (in Italia è concentrato il 60% di tutti i beni artistici e archeologici dell’umanità). Tutto ciò fa gola al capitale globale, soprattutto se messo a disposizione a prezzi di saldo dalle urgenze della crisi. E’ dunque questo il piatto forte che si sta preparando per il nostro Paese, dopo l’antipasto già consumato dalle multinazionali francesi del lusso, venute da Oltralpe a fare shopping (col tricolore bianco rosso e blu che sventola su Bulgari, Gucci, Fendi, Bottega Veneta, Pucci, Acqua di Parma; e ora anche su Cova, storica pasticceria di via Montenapoleone).
Eppure questo impresentabile centro-sinistra dovrebbe trarre insegnamento dalle esperienze passate: non è vero che privatizzando si risolve la questione del debito pubblico; è vero piuttosto che il debito pubblico è usato come cuneo per favorire operazioni a tutto vantaggio del profitto privato. Le grandi privatizzazioni degli anni 90 hanno aggravato i problemi del Paese: smantellando settori produttivi di eccellenza, indebolendo la capacità del settore pubblico di orientare le politiche industriali con investimenti ad alta intensità tecnologica e ad alta produttività. C’è da sorprendersi se i nostri ricercatori, vincitori di fondi europei per progetti di ricerca, scelgono l’estero e non l’Italia? Come si sa, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Nel giugno del ’93 Carlo Azeglio Ciampi, proseguendo la svendita del patrimonio pubblico iniziata con il suo predecessore Giuliano Amato, nomina un Comitato di consulenza per le privatizzazioni. A presiederlo c’è un certo Mario Draghi, uomo di Goldman Sachs. Oggi  presidente della Bce: a volte ritornano…
In tutta questa orribile storia, brilla un’assente: una sinistra unita, che si proponga di costruire veri e consistenti argini a tale deriva. Perché non cominciamo a unire i comunisti?

Bologna: Pd, Pdl e Lega confermano 1 milione alle scuole private. Ignorato il referendum


Bologna: Pd, Pdl e Lega confermano 1 milione alle scuole private. Ignorato il referendum


Il sindaco Merola tuttavia si è affrettato a commentare: “Ringrazio il Pdl che vota l’ordine del giorno del Pd. Non ho paura delle parole e delle convergenze. Capisco che le parole ‘convergenze’, ‘mediazione’, ‘intesa’, nella vulgata siano accostante al tradimento. Ma qui le larghe intese non c’entrano. Abbiamo solo una convergenza più ampia su un tema specifico”.
Non ha tardato ad arrivare la replica del Comitato articolo 33, che aveva promosso il referendum popolare per l’abolizione dei finanziamenti pubblici alle scuole materne paritarie. “Mantenere uno strumento formale di consultazione della cittadinanza – scrivono i promotori – e poi ignorare ciò che emerge dall’esercizio di tale strumento democratico è un atto di ipocrisia istituzionale, oltreché uno spreco di risorse pubbliche. Si abbia il coraggio della coerenza e si agisca conformemente”. Il comitato ha anche annunciato di essersi sciolto. “Non si ferma invece – proseguono la lotta per la scuola pubblica bolognese e italiana. Tanto meno si cancellerà dalla memoria dei bolognesi la considerazione per il loro pronunciamento di cui il ceto politico avrà dato prova. Potete stare certi che, comunque vada, noi non perderemo occasione di ricordarglielo”.

lunedì 29 luglio 2013

Perché il Pd litiga sul nulla: storia di un'involuzione irreversibile di Dino Greco, Liberazione.it


Perché il Pd litiga sul nulla: storia di un'involuzione irreversibile
Il tormentone politico che scuote dall’alto in basso il Partito democratico sino a farne pronosticare la possibile esplosione si ripropone in queste settimane nella seguente forma: il segretario del partito deve essere eletto dai soli iscritti, oppure da una platea più vasta di ipotetici elettori? E poi: una volta fatto il segretario, dovrà essere lui il candidato premier alle prossime elezioni politiche, oppure è necessario tenere separati ruoli e responsabilità?
I due punti al centro del dissidio meritano un’attenzione non superficiale, perché ripropongono un tema antico, quello dell’autonomia strategica del partito rispetto all’amministrazione delle cose, quando quel partito medesimo guadagni il diritto a governare comuni, regioni o, addirittura, il paese intero.
Su questo nodo cruciale tornerò più avanti.
Ciò che tuttavia merita segnalare subito è che ciascuna delle parti del Pd oggi in conflitto non sembra avere alcuna percezione della portata teorica e politica del problema.
Ciò che tiene banco è la personalissima competizione per la leadership. Sicché a questo primario obiettivo viene piegata l’una o l’altra ipotesi, saltando – secondo le convenienze del momento - da una tesi all’altra.
Quando attraverso le “primarie” Bersani conquistò la maggioranza dei consensi, egli diventò automaticamente candidato alla presidenza del Consiglio. Ed è a lui che – dopo le elezioni del febbraio scorso – Napolitano affidò il mandato esplorativo per formare il nuovo governo. Questa regola che oggi Renzi rivendica a proprio potenziale beneficio, non è più condivisa da quanti la ritennero adeguata nel recente passato.
Insomma, ogni leader modella su di sè le opzioni politiche, le acrobazie tattiche fanno premio sulle strategie, il profilo progettuale si annebbia, la lettura della realtà si affida a categorie lasche, la propensione al pragmatismo trasforma ogni discorso in una indecifrabile cacofonia.
Chi volesse esercitarsi nel compito di distinguere con sufficiente chiarezza il merito delle posizioni in campo troverebbe subito l’impegno arduo. Tutto si gioca sull’esteriorità: il sembrare prevale sull’essere, l’immagine sul contenuto. E’ la politica light, fatta di pensiero “debole” e di propositi limitati.
Perché?
Semplicemente, perché tutte le anime che compongono il litigioso caleidoscopio democratico si muovono dentro un orizzonte culturale perfettamente definito: quello del liberalismo e dell’economia di mercato. Nessuna delle componenti interne al Pd guarda oltre quel sistema di valori e la formazione economico-sociale che quel sistema ha prodotto ed incessantemente riproduce. Paradossalmente, più la visione del mondo e dei rapporti sociali è condivisa, più il confronto interno assume caratteri aspri e persino rissosi. Gli uni contro gli altri armati, sì, ma senza che dal conflitto emergano opzioni che giustifichino tanta vervebarricadiera.
A questo punto è utile fare un salto all’indietro nel tempo. Precisamente, attorno alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, quando il Partito comunista italiano compì un balzo elettorale di proporzioni clamorose e conquistò il governo di tutte le principali regioni e di quasi tutte le più importanti città italiane che per lungo tempo furono amministrate da grandi sindaci comunisti: Novelli a Torino, Zangheri a Bologna, Petroselli a Roma, Valenzi a Napoli, per nominarne solo alcuni fra i più noti. Grandi sindaci, che tali furono per davvero. Ma con una propensione, in qualche modo naturale considerate le enormi responsabilità connesse al loro ruolo: la propensione, cioè, a considerare il partito come un comitato di sostegno al lavoro di quelle amministrazioni. Quasi che l’attività amministrativa potesse in sé assorbire e risolvere la funzione del partito.
Fu in quegli anni che l’allora segretario del Pci, Enrico Berlinguer, condusse una dura battaglia politica per criticare quella concezione in quanto riduttiva, non soltanto dei compiti del partito ma, più profondamente ancora, della sua missione fondamentale.
Ridotta all’essenziale la critica si può così riassumere: anche la migliore cultura e pratica amministrativa deve fare i conti con il sistema dato, con i rapporti di forza che vi sono connaturati, con la presenza di poteri forti con i quali venire a patti, con situazioni che impongono compromessi; tutto questo deve essere fatto nel miglior modo possibile, al fine di migliorare le condizioni di vita delle masse popolari e procedere lungo la progressiva democratizzazione della vita del paese. Ma – ecco il punto – il partito comunista non può ridursi a questo, non può limitarsi ad una pur necessaria strategia redistributiva dentro i rapporti sociali dati. Occorre un di più. Il partito comunista deve elaborare un progetto di trasformazione della società capace di trascendere quei rapporti, per porre a tema la fondamentale questione di cosa, come e per chi produrre e di quali siano i soggetti a cui compete orientare le finalità del lavoro sociale. Il tema è quello della transizione verso diversi rapporti di produzione, non più fondati sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E’ il grande tema della proprietà e della fuoriuscita dal capitalismo oggi ripudiata dagli epigoni del Pci come retaggio sentimentale privo di realtà.
E’ proprio la revoca totale di questa ambizione che fa del Pd un pachwork perennemente in cerca d’autore, che consente ai democrat ogni sorta di compromesso, anche il più deteriore, come quello di condividere il governo con la corte berlusconiana.
Non si tratta di un bizzarro scherzo del destino, ma dell’approdo naturale di un soggetto politico che naviga a vista, senza bussola né timone, ove le posizioni fra loro più contraddittorie convivono in una grottesca babele di linguaggi.
Fino a quando questa rimarrà l’offerta politica rivolta alle classi subalterne, la destra – persino questa impresentabile destra – potrà tenere banco. Berlusconi lo sa.

I custodi della Carta, di Salvatore Settis, da Repubblica,


Si può cambiare la Costituzione, e come? Per tutto il 1947 la Costituente discusse appassionatamente questo punto cruciale. Tutti erano d’accordo che la Carta è «nelle sue grandi mura definitiva, e deve aver vita di secoli » (Meuccio Ruini), e che va intesa come “rigida”, un insieme organico di cui non si può cambiare un articolo senza incidere sull’insieme. Secondo il democristiano Lodovico Benvenuti (più tardi Segretario generale del Consiglio d’Europa), i principi della Carta «non possono esser rimessi all’arbitrio di qualsiasi maggioranza parlamentare», anche per evitare che affrettate modifiche richiedano «la complicità del presidente della Repubblica». Costantino Mortati (Dc) osservò che «la Costituente fu eletta ad hoc e nel periodo della sua formazione i partiti hanno presentato i loro programmi sulla nuova Costituzione», mentre «una Camera avvenire, eletta per un compito normale di legislazione», non sarà mai altrettanto legittimata a cambiarne il testo.

Si ritenne necessario «stabilire forti garanzie per evitare che la Costituzione sia modificata con leggerezza » (Lussu), ricorrendo a «una procedura straordinaria particolarmente complicata» per arginare colpi di maggioranza (così il liberale Martino, poi presidente del Parlamento europeo). Il 15 gennaio 1947 fu approvata la proposta del socialista Paolo Rossi (poi presidente della Corte costituzionale), secondo cui le Camere, dopo aver varato una modifica costituzionale, erano automaticamente sciolte, e la modifica entrava in vigore solo dopo essere stata riapprovata tal quale dalle nuove Camere. Dopo acceso dibattito si giunse a quello che è oggi l’art. 138, con le sue tre garanzie contro i colpi di mano. Prima di tutto, la doppia lettura da parte delle Camere, a tre mesi l’una dall’altra, onde «diluire nel tempo il procedimento di revisione al fine di accertarne la rispondenza ad esigenze veramente sentite e stabili» (Mortati), anche perché «tre mesi paiono sufficienti perché l’opinione pubblica si metta in moto»; in secondo luogo, la maggioranza di due terzi, e in difetto di questa «il ricorso alla fonte stessa della sovranità, il referendum popolare», fermo restando che «la legge, finché è legge, sia religiosamente osservata» (Rossi).

Questa calibratissima ingegneria istituzionale viene spazzata via dal disegno di legge 813, firmato da Enrico Letta e dai ministri Quagliariello e Franceschini. Secondo i proponenti, le Camere che oggi abbiamo, composte di membri nominati con la pessima legge elettorale che tutti deplorano e nessuno modifica, esprimeranno (con accordi fra i capigruppo e i presidenti delle Camere) una mini-Costituente di 40 membri. Tal Comitato esamina a tappe forzate («non sono ammesse questioni pregiudiziali, sospensive e di non passaggio agli articoli») le proposte di riforma della Costituzione «afferenti alla forma di Stato, alla forma di Governo e al bicameralismo», le elabora in quattro mesi e le trasmette alle Camere, che devono concluderne l’esame entro 18 mesi. Vengono mantenuti referendum e doppia lettura, ma l’intervallo è ridotto da tre mesi a uno. Il precedente è la Bicamerale del 1997, la cui unica funzione fu traghettare Berlusconi attraverso una legislatura di centrosinistra senza far nulla sul conflitto d’interesse.

Secondo Alessandro Pace (audizione al Senato, 21 giugno), un vizio di fondo inficia questo ddl. «Il Parlamento può modificare l’art. 138, ma finché quella procedura è in vigore deve rispettarla: l’art. 138 è bensì modificabile, ma non derogabile», il ddl 813 costituisce perciò «una modifica surrettizia con effetti permanenti». Ma le anomalie non si fermano qui: perché il governo ha nominato una commissione di “saggi” «incaricata di fornire i suoi input nel merito delle modifiche da apportare alla Costituzione»? Come mai gli emendamenti alle proposte di revisione costituzionale possono essere presentati dal governo e dai capigruppo, ma non da un singolo deputato come nella Costituente? Che vuol dire l’art. 4, secondo cui «qualora entro il termine non si pervenga all’approvazione di un progetto di legge costituzionale, il Comitato trasmette comunque un progetto di legge»? Quale progetto di legge, se nessuno è stato approvato? Perché infine (lo hanno incisivamente notato Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro) al Comitato è rimesso anche l’esame delle leggi elettorali, come se il Porcellum fosse diventato un pezzo di Costituzione?

Perché tanta fretta, perché tante anomalie? Perché, ci informa la relazione del ddl 813, la Costituzione dev’essere adeguata al «mutato scenario politico, sociale ed economico ». Chi difende la Costituzione com’è pecca di «conservatorismo costituzionale », spiegano Letta-Quagliariello- Franceschini, poiché la forma dello Stato e del governo furono immaginate dalla Costituente «nella temperie della guerra fredda». Questo affondo storiografico è un’impronta digitale, rivela da dove vengono le certezze di chi ci governa: dalla party line, diffusa nell’attardato thatcherismo di ambienti finanziari e imprenditoriali, secondo cui la crisi economica nasce dalle troppe concessioni alle classi meno abbienti. Come ha ricordato Barbara Spinelli in queste pagine (26 giugno), chi ha divulgato questa linea in Italia è Berlusconi, secondo cui la nostra Costituzione «fu scritta sotto l’influsso della fine di una dittatura da forze ideologizzate», è una “Costituzione sovietica”.

Ancor più chiaro è il rapporto sull’area euro della società finanziaria J.P. Morgan (28 maggio), secondo cui «all’inizio della crisi, si pensava che i problemi nazionali fossero di natura economica, ma si è poi capito che ci sono anche problemi di natura politica. Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, sorti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica, (...) e sono ancora determinati dalla reazione alla caduta delle dittature. Queste Costituzioni mostrano una forte influenza socialista, riflesso della forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Perciò questi sistemi politici periferici hanno, tipicamente, caratteristiche come: governi deboli rispetto ai parlamenti, stati centrali deboli rispetto alle regioni, tutela costituzionale del diritto al lavoro, consenso basato sul clientelismo politico, diritto di protestare contro ogni cambiamento. La crisi è la conseguenza di queste caratteristiche. (...) Ma qualcosa sta cambiando: test essenziale sarà l’Italia, dove il nuovo governo può chiaramente impegnarsi in importanti riforme politiche ».

La finanza internazionale comanda, il governo italiano esegue, come usa alla periferia del mondo. Leggendo il ddl 813 in filigrana sul documento di JP Morgan (un ordine di servizio che viene da lontano), dobbiamo aspettarci un governo più forte e centralizzato, un parlamento più debole, la compressione dei diritti dei lavoratori e di ogni protesta, l’archiviazione dell’antifascismo. Se ciò è contrario alla Costituzione basta cambiarla, e in fretta: perciò, capovolgendo il responso delle urne e le priorità dichiarate, la riforma del Porcellum è stata messa in soffitta, la riforma della Costituzione in corsia preferenziale.

«Ci sarà pure un giudice a Berlino», diceva il mugnaio di Potsdam che arrivò fino al Re di Prussia per avere giustizia. Ci sarà pure a Roma un custode della Costituzione, dicono oggi i cittadini. A chi chiederemo se davvero la crisi economica è un frutto dell’antifascismo? Se per risolverla occorre stravolgere la Costituzione modificando «la forma di Stato e di governo» generata dalla Resistenza? Se dobbiamo rassegnarci a quel che Barbara Spinelli ha chiamato il «giudizio universale» di JP Morgan, a «demolire la Costituzione in nome della cosmica giustizia dei mercati»?

Il no tav paura non ne ha!



 Se il buongiorno si vede dal mattino…
ORA TIRANO FUORI “TERRORISMO E EVERSIONE”!
Decine di perquisizioni sono in corso da questa mattina in Val Susa e a Torino ai danni di divers* compagn* del Comitato di Lotta Popolare. Perquisiti anche i locali dell’Osteria La Credenza di Bussoleno. Un luogo di ritrovo e aggregazione conosciuto e frequentato da centinaia di persone (notav e non solo) viene di fatto additato come luogo di oscure trame… Perché l’articolo indicato nei mandati che accompagnano l’ennesima “operazione” targata Padalino & co. sono il 280 comma 1 n.3 cp e 10 e 121. 497/74, quello che indica “l’attentato con finalità terroristica e di eversione”
CREI reati contestati farebbero riferimento alla sera del 10 luglio, quando, tra molte altre iniziative, si verificò anche un’iniziativa al cantiere di Chiomonte, con taglio di reti.
Nei mandati si legge la volontà di ritrovare nelle case degli indagati [citiamo a braccio] “materiale esplosivo, contundente, atto al taglio di recinzioni e supporti audio-visivi e digitali che permettano il riconoscimento di eventuali complici”. Come al solito sono stati sequestrati compiuter e altri dispositivi tecnologici di comunicazione. Così commenta ironico uno dei compagni perquisiti: “cercavano armi, si son presi computer e I-Phone”…
Ma aldilà delle battute, si profila un salto di qualità nell’operato dei Pm con l’elmetto. Non fanno arresti o misure disciplinari ma, quatti quatti, iniziano a far trapelare la possibilità di nuove maxi-inchieste con imputazioni gravissime che, anche in assenza di prove, possono permettere lunghe detenzioni cautelari. Evidentemnte, non gli basta la figura di merda fatta con gli arresti della scorsa settimana (già tradotti ai domiciliari) e continuano a puntare in alto, verso la madre di tutte le imputazioni che Magistrati di questo calibro sognano proprinare alle lotte sociali e ai movimenti, specie quando questi non abbassano la testa!
Questo ennesimo atto intimidatorio – vera e propria provocazione – non deve lasciarci indifferenti e necessita una risposta determinata e corale del movimento, in difesa di quest* compagn* e di un luogo di aggregazione che è di tutti i Notav…

Valle Susa : Perquisizioni, una criminalizzazione di regime. Assurde indagini per “terrorismo”

di Giorgio Cremaschi
“Dopo la bellissima e pacifica marcia popolare, a cui in tanti abbiamo partecipato con le nostre famiglie e abbiamo mostrato tutta la forza e il consenso del movimento No Tav, il palazzo ha puntualmente reagito.
Ancora una volta si gioca la carta della vergognosa accusa di terrorismo. Perquisizioni assurde a tappeto, alla ricerca di chissà quali prove di attività eversive e terroriste, si sono succedute nella valle.
È una vergogna e una provocazione a cui bisogna reagire con la più vasta campagna di solidarietà. Mi pare chiaro il senso dell’operazione politica in corso, voluta dal governo PD PDL e dal suo regime politico informativo, giudiziario. Si vuole ancora una volta accostare lotta e terrorismo, per criminalizzare una lotta popolare giusta e aperta a cui il regime non vuole dare risposte politiche.
Siamo di fronte ad un altro momento di degrado della nostra democrazia e ad un’altra manifestazione di una repressione inaccettabile, che copre il fallimento politico e economico del partito della Tav.
Solidarietà a tutte e tutti coloro che sono colpiti dalla repressione, che in ogni caso non fermerà la lotta e il sostegno ad essa.”

No tav. PRC Torino: Giù le mani dalla "credenza"
Ezio Locatelli, segretario provinciale Prc di Torino a proposito delle perquisizioni effettuate in data odierna contro attivisti e abitazioni Notav ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Esprimo sconcerto e indignazione per le perquisizioni a tappeto nelle case di attivisti NoTav in Valsusa e a Torino e le notifiche degli avvisi di garanzia per attività eversive finalizzate al terrorismo disposte dalla Procura della Repubblica di Torino. I reati contestati farebbero riferimento a quanto avvenuto la sera del 10 luglio a Chiomonte a seguito della marcia verso le reti del cantiere osteggiata dalle forze di polizia e conseguenti scontri. Tra le molte perquisizioni effettuate va registrato l'intervento di una decina di unità di polizia che ha interessato alle sei e trenta di questa mattina un locale dell'osteria “La Credenza” di Bussoleno dove alloggia un attivista NoTav a cui sono stati sequestrati computer e materiali informativi vari. Come tutti sanno “la Credenza” è lo storico punto di riferimento dei NoTav della Valle, sede sindacale e del locale Circolo di Rifondazione Comunista. Alle compagne e ai compagni che gestiscono la “Credenza” e a tutti gli attivisti e i cittadini in lotta contro il Tav va la nostra vicinanza e solidarietà.
Avremo modo di conoscere i dettagli e i risvolti dell'operazione però una cosa la possiamo dire con assoluta certezza: disconoscere l'opposizione al Tav, criminalizzare la protesta, trasformarla in un problema di ordine pubblico non porterà a nulla se non al risultato di gettare benzina sul fuoco. Forse è proprio in questa direzione che i gruppi affaristici, una classe politica e di governo screditata vogliono andare nel tentativo vano di spezzare e indebolire la protesta. Questo tentativo va respinto. La risposta deve essere ferma, partecipata coinvolgendo tutte le espressioni democratiche nel respingere ogni forma di intimidazione e provocazione. Rifondazione Comunista come sempre sarà a fianco del movimento NoTav della Valsusa.

Perquisizioni No TAV, Ferrero: Letta peggio di Erdogan. Cremaschi: Assurda accusa di terrorismo
 "Le perquisizioni odierne - compresi i locali dove c'è la sede di Rifondazione Comunista - e le accuse pesantissime agli attivisti No Tav sono l'ennesimo, inaccettabile episodio di criminalizzazione della protesta. Il governo, non avendo alcuna ragione nel merito della costruzione dell'opera e dello sperpero di denaro pubblico, si comporta peggio di Erdogan in Turchia: cerca di stroncare la protesta con la repressione più brutale. Le accuse di terrorismo contro quella che è una lotta di popolo sono una pura persecuzione e un utilizzo del Codice penale come arma impropria. Questa repressione però non fermerà le ragioni di chi si oppone all'alta velocità sulla Torino-Lione: non ci faremo intimidire". Questo quanto dice Paolo Ferrero del PRC. Dello stesso tono le dichiarazioni di Giorgio Cremaschi della Rete 28 aprile che ha dichiarato : "Dopo la bellissima e pacifica marcia popolare, a cui in tanti abbiamo partecipato con le nostre famiglie e abbiamo mostrato tutta la forza e il consenso del movimento No Tav, il palazzo ha puntualmente reagito.
Ancora una volta si gioca la carta della vergognosa accusa di terrorismo. Perquisizioni assurde a tappeto, alla ricerca di chissà quali prove di attività eversive e terroriste, si sono succedute nella valle.
È una vergogna e una provocazione a cui bisogna reagire con la più vasta campagna di solidarietà. Mi pare chiaro il senso dell'operazione politica in corso, voluta dal governo PD PDL e dal suo regime politico informativo, giudiziario. Si vuole ancora una volta accostare lotta e terrorismo, per criminalizzare una lotta popolare giusta e aperta a cui il regime non vuole dare risposte politiche.
Siamo di fronte ad un altro momento di degrado della nostra democrazia e ad un'altra manifestazione di una repressione inaccettabile, che copre il fallimento politico e economico del partito della Tav.
Solidarietà a tutte e tutti coloro che sono colpiti dalla repressione, che in ogni caso non fermerà la lotta e il sostegno ad essa." 

domenica 28 luglio 2013

Loro Piana a Lvmh: un caso di elusione fiscale garantita dallo Stato di Fondazione Condividere, Il Fatto Quotidiano

Poche settimane fa è stata annunciata la cessione dell’80% del capitale di Loro Piana da parte dalla famiglia al gruppo francese Lvmh che già controlla diversi altri marchi del lusso (Dior, Bulgari, Fendi, Givenchy e molti altri)
Il prezzo pagato di oltre 2,2 miliardi di euro è stato talmente elevato che difficilmente i fratelli Loro Piana avrebbero potuto rifiutare anche perché l’accordo con Lvmh prevede che loro restino al vertice dell’azienda continuando a gestirla come prima, una soluzione adottata da Lvmh in diverse altre acquisizioni per garantire la continuità aziendale.
Si potrebbe invece commentare sul fatto che quello di Loro Piana è l’ennesimo marchio di prestigio italiano che finisce in mani straniere dopo Gucci, Bulgari, Fendi ed altri ma in fondo c’è poco da stupirsi: nonostante tutti i marchi italiani acquisiti siano aziende di successo, ormai solo una dimensione globale come quella del gruppo Lvmh può garantire le necessarie sinergie commerciali (advertising e distribuzione) nonché le risorse finanziarie per crescere in un mercato ormai dominato da pochi gruppi
Ciò che invece scandalizza è scoprire che grazie ad una legge compiacente dello Stato, la famiglia Loro Piana finirà per pagare sull’enorme plusvalenza un’aliquota fiscale del tutto risibile con un risparmio fiscale di diverse centinaia di milioni di euro
Nell’ambito della legge di stabilità 2013, grazie all’art 1 – comma 473, sono stati riaperti i termini che consentono una rivalutazione delle partecipazioni in società non quotate, rivalutazione che in caso di cessione viene quindi sottoposta ad un’aliquota forfettaria del 4%.
La legge prevede che venga effettuata una perizia giurata ed il valore cosi ottenuto sostituisce il valore storico di acquisto. L’imposta verrà quindi calcolata sulla differenza tra il prezzo di vendita ed il valore di perizia. E’ quindi ovvio che tanto più il valore di perizia sarà vicino al prezzo di vendita, tanto minore sarà la plusvalenza tassabile assoggettata all’aliquota del 4%, per definizione irrisoria se raffrontata alla normale imposizione cui sono soggette le imprese in Italia
Grazie a questo articolo di legge, la famiglia Loro Piana potrà, in modo del tutto legale, limitarsi a corrispondere all’Erario poche decine di milioni di euro (su un incasso di oltre 2 miliardi) rispetto alle centinaia di milioni che si sarebbero dovuti pagare se l’operazione di cessione fosse stata assoggettata al normale regime di tassazione
Lo scandalo non è quindi quello dei Loro Piana che in modo lecito riescono ad eludere centinaia di milioni di imposte ma quello di uno Stato che da un lato pretende aliquote fiscali superiori al 50% da decine di migliaia di piccole e medie imprese (salvo disporre sequestri e pignoramenti in caso di mancato pagamento), mentre dall’altro consente a chi già dispone di enormi patrimoni di sottrarre risorse rilevanti alle casse dello Stato, risorse che in una situazione come quella attuale potrebbero e dovrebbero essere usate a beneficio di chi è stato spinto ai margini della società da una recessione senza fine.

Romanzo politico d’evasione Di ilsimplicissimus



botolussiNiente potrebbe appassionarmi di meno della battaglia di apparati che ha per campo e per bottino la scelta tra Fonzie e il Nipote: in entrambi i casi si tratta di fantasmi o di marchi contraffatti, di questioni di potere che non riguardano più i cittadini, che non hanno alcun aggancio alle idee. Il centrosinistra non è più qui ormai da molto tempo e tanto meno l’idea di una trasformazione etica ed economica del Paese: la direzione del Pd meriterebbe di entrare in un trattato sullo spiritismo o in un saggio sulla decadenza delle elites, più che nella cronaca politica propriamente detta.
E la dimostrazione è venuta in questi giorni da due uscite di personaggi appartenenti al partito o di area con Fassina che ha aperto alla evasione fiscale come mezzo di sopravvivenza e Bortolussi, portavoce del modello Nord Est che vede il lavoro nero come welfare ormai necessario. Questa si che è ormai la vera pancia della politica di vertice e di apparato, nata dal progressivo sfascio della democrazia e dell’economia del Paese, una sorta di succedaneo della socialdemocrazia che invece di difendere la dignità e il reddito del lavoro, lo stato sociale, la presenza del pubblico nell’economia, si aggrappa proprio ai mali italiani dentro una ridicola, perdente e desolante scommessa omeopatica, nella speranza che sian la stessa infezione a salvare il paziente.
Di Fassina ho già scritto ieri ( vedi sotto): è vero che molti piccoli sono ormai schiacciati dalle tasse, ma questo accade perché l’evasione permessa e talvolta coccolata per interi decenni ha creato un’intera economia che vive grazie all’evasione e/o, salendo di opachi rapporti con tutti i livelli della politica. Con il risultato che troppi si sono sottratti alla competizione, rendendo fragilissimo il tessuto produttivo e distributivo, del tutto inadatto ad affrontare le sfide del futuro. E’ impossibile cambiare registro da un giorno all’altro senza una gigantesca moria di attività, ma è anche impossibile proseguire senza prognosi infauste: per cambiare rotta ci vorrebbe una nuova politica e un nuovo patto tra i cittadini, ma queste merci sono ormai introvabili sul mercato e dunque si prosegue nella politica di chiudere gli occhi seguendo pari pari la lezione berlusconiana.
E non basta perché Bortolussi compie un salto di qualità: non solo l’evasione è comprensibile, ma in un Paese che è riuscito a raggranellare il più alto debito pubblico e il più esile welfare d’Europa, lo stesso lavoro nero, lo stadio al di sotto del già insopportabile precariato, è una sorta di lenitivo, di  rimedio casalingo composto dalla definitiva rinuncia a qualsiasi dignità e tutela del lavoro. Bortolussi corre finalmente libero sull’autostrada che porta dai contratti a tempo indeterminato al caporalato di giornata. Inutile dire che anche questo farmaco ha effetti collaterali assai più gravi del malanno che ci si illude di combattere: non farà altro che procurare sopravvivenza ad aziende ed attività che non possono competere nella normalità e dunque nel mondo. Un nuovo e più grave fattore di declino.
Anche qui la via d’uscita consisterebbe in una politica che non esiste più che si è frantumata dentro interessi particolari e ideologismi da strapazzo.  Ciò che resta è una sorta di deforme terza via che dal capitalismo prende i profitti, le opacità e scarta l’efficienza, mentre dentro un riformismo ormai residuale butta via i diritti in cambio di una sopravvivenza senza speranze e prospettive. Insomma una perfetta imitazione del modello Berlusconi.

Fassina, l’evasione dalla politica

A qualcuno potrà fare impressione che il giovane turco e ormai anche vecchio marpione Fassina, abbia ripercorso il sentiero di Berlusconi, arrivando a giustificare l’evasione fiscale. Ma in realtà se ciò che fino a qualche anno fa scandalizzava una sinistra sempre più sedicente mentre oggi è diventato tema delle strizzatine d’occhio, è del tutto ovvio: é la logica conclusione di un cammino, il risultato finale del vacuo ecumenismo sociale inaugurato dal Pd e cementato dalla totale assenza di politica.
Un ceto politico che vuole rappresentare tutti e finisce col non rappresentare nessuno, un’idea di partito la cui ambizione non è la trasformazione o l’evoluzione della società, ma solo il patchwork di interessi scomposti e sovrapposti , non può che arrivare a difendere l’evasione di fronte agli evasori, la fedeltà fiscale di fronte ai fedeli coatti e in generale arriva alla schizofrenia del consenso.
La mancanza di politica è evidente e non perché Fassina abbia torto marcio quando strizza l’occhio ai commercianti, ma proprio perché in un certo senso ha ragione: la massiccia, sistematica evasione fiscale permessa per oltre quarant’anni ha finito per dar vita a tutta un’economia basata proprio sulla possibilità di nascondere  gran parte del proprio giro d’affari. L’infedeltà fiscale è’ diventata da episodica a strutturale. La miriade di piccole attività, in numero del tutto incongruo rispetto a Paesi comparabili, può vivere solo grazie a questo meccanismo, contribuisce a tenere lunghe le filiere, alti i prezzi e nutre infine  tutta un’economia parassitaria che ricava cifre indecorose dal possesso dei “muri” o dalle intermediazioni opache. L’evasione è moralmente intollerabile, ma non si può nemmeno fingere di voler dire basta dal giorno alla notte dopo aver accettato per mezzo secolo che venissero usati dadi truccati.
E proprio perché Fassina ha ragione che sono ancora più scandalose e disperanti le sue parole: da una situazione così non si esce facendo balenare la “comprensione ” del governo e del Pd, non si esce accennando a “contratti” elettorali anomali e sottobanco. Questo può farlo tranquillamente Berlusconi che ha nell’anomalia la sua ragion d’essere e che lascia dietro di sé le macerie di un Paese, ma è evidente che la soluzione la si può trovare solo attraverso un nuovo patto sociale che con gradualità, ma con decisione raddrizzi le storture del modello italiano. Vale a dire attraverso una politica di respiro e di lungo periodo che riscopra la dignità del lavoro, il senso di cittadinanza e dunque un’etica pubblica, non quella robaccia da fast food o da mensa Caritas priva di senso che ci viene proposta ogni giorno.
Tuttavia questo sembra essere un compito al di fuori delle possibilità di un ceto politico anch’esso ormai parassitario e irresponsabile che cerca il consenso senza tuttavia riuscire a rappresentare altro che i propri interessi di sopravvivenza. Quindi lo stesso soggetto politico recita sia la parte in commedia di sinistra con la teorica lotta senza quartiere all’evasione, peraltro mai realizzata nonostante ve ne siano tutti gli strumenti, sia quella di destra con le strizzate d’occhio. Il tutto per conservare accuratamente lo statu quo ante, cioè facendo quello per cui sono davvero portati: non fare nulla, non pensare nulla.




sabato 27 luglio 2013

La politica del disfare, di Anna Lombroso per il Simplicissimus


discarica
In fondo tutto era cominciato con la proprietà che non è più un furto. Poi con lo sfruttamento della prostituzione minorile a scopo di beneficienza.  E  con il familismo, accorgimento lecito quando precarietà e crisi costringono a aguzzare l’ingegno e percorrere scorciatoie. E che dire di condoni e scudi, misura indispensabile a riportare in patria e all’ombra della legalità patrimoni sottratti e irregolarità profittevoli. Ieri è stata la volta dell’evasione se non opportuna e legittima, certo comprensibile a scopo di sopravvivenza. Oggi il lavoro nero, che, come diceva la Fornero, meglio stare in un call center che disoccupati, via d’uscita obbligatoria e lenitivo fondamentale per temperare  la durezza dei tempi neri.
Ormai hanno preso coraggio: presto dichiaratamente verranno sdoganate le morti bianche, doveroso prezzo da pagare per compensare gli onerosi costi della manodopera. E come non aspettarsi il riconoscimento bipartisan del contributo offerto all’economia nazionale dal brand della corruzione, seguito dalla nomina a cavaliere del lavoro di Provenzano preliminare al  definitivo avallo del tributo concesso alla società   nazionale dall’industria delle mafie, col suo 10% del Pil.
La chiamano da sempre economia informale, anche se un tempo era meno sguaiata e meno sfrontata. Ma una volta c’erano movimenti, organizzazioni e partiti che rappresentavano nei parlamenti e nella società i poveri, i lavoratori, i diseredati, con viltà, paure, prudenze, tentennamenti, lotte intestine, malattie infantili. Ma c’erano.
Oggi c’è invece un fronte compatto omogeneo che ha raggiunto il risultato unitario, mai conseguito dai lavoratori, e che è robusto, denso, indivisibile, contro di noi. Che vive fuori dalla legittimità democratica e mira all’illegalità, se permette licenze, favorisce privilegi, nutre disuguaglianze, eroga elargizioni smantellando gli edifici dei diritti e delle garanzie, in uno stravolgimento di regole, leggi e imperativi morali. Mica vorrete che aumentino i salari o alzino la base imponibile, mica vorrete che impongano investimenti in sicurezza e innovazione, mica vorrete che obblighino al rispetto delle sentenze dei tribunali che censurano i comportamenti antisindacali, mica vorrete che conducano una lotta di contrasto alle grandi evasioni, mica quelle degli scontrini al bar, mica vorrete che rintraccino le tortuose peregrinazioni di conti esteri eccellenti grazie a quei fantomatici accordi con la Svizzera periodicamente annunciati, mica vorrete che prima di svuotare la scomoda a fastidiosa costituzione obbediscano a qualcuna delle sue moleste imposizioni.
Così quella economia informale occupa quella formale, sconfinando nel sommerso e nell’illegale, stringendo le maglie dell´intreccio sempre più stretto che esiste tra lavoro regolare e lavoro nero o sommerso, per convincere che l´organizzazione produttiva delle imprese contemporanee, piccole medie o grandi che siano, non può che fondarsi su quel vincolo e addirittura si bloccherebbe se esso dovesse venire improvvisamente meno. E che i rapporti tra aziende e settore pubblico ha bisogno di alleanze opache e di una commistione tossica di interessi e influenze. E che laddove lo stato è assente o impotente, le burocrazie estreme e inefficienti, i controlli avvelenati o corrotti è inevitabile fare ricorso a protezione criminali, a padrini potenti, a famiglie oscure ma provvidenziali. Ormai a promuoverla come necessaria anzi inevitabile, desiderabile, auspicabile,  è proprio quel partito passato dallo stato liquido a quello liquefatto e gassoso di idee e principi rinnegati e valori traditi, che ha sostituito le radiose visioni del futuro con quelle pragmatiche e funzionali che indicano nell’economia formale la soluzione demiurgica dei   problemi vitali dell’individuo e della società in cui vive. Così che la patologia diventi normalità, l’illegittimità  si cambi in necessità improrogabile, l’illegalità si converta in  opportunità, rimuovendo leggi e regole che ostacolano la prepotenza privata e la sregolata libera iniziativa.
La neo barbarie e il neo feudalesimo confermano le profezie di 2  Karl, Marx e Polanyi,  sulle prevedibili aberrazioni del capitalismo, alimentando il Terzo Mondo interno e promuovendo le sue percentuali di successo, se nei paesi che si affacciano sullo scenario mondiale,  tra il 50 e l’80% della popolazione vive in sistemi economici informali fino all’illegalità. Ed è per quello che il loro Fare ha bisogno di abbattere l’ostacolo maggiore: la democrazia.

In Basilicata sulle orme di Accorinti di Checchino Antonini, Globalist.it

A dieci anni dalla vittoria di Scanzano contro le scorie, i movimenti preparano una lista alternativa per vincere le regionali

Prima il 3 Agosto a Marconia, su invito di "Un'Altrabasilicata è possibile", poi il 7 Agosto a Potenza, su invito di Cittadini Protagonisti, due appuntamenti cruciali per chi sta pensando a ripercorrere su scala regionale le orme di Renato Accorinti, appena eletto sindaco a Messina, o di altre liste della rete delle città solidali. Alleanze tra movimenti e associazioni fuori dalle logiche anguste delle primarie, dal recinto stabilito dal neoliberismo su territori già deformati dal clientelismo. Perché dieci anni dopo la vittoria di Scanzano Jonico contro le scorie del nucleare, in autunno si andrà alle urne per le regionali nella regione dominata da uno dei peggiori Pd e scorticata dalle sette sorelle, le multinazionali del petrolio, e dalla Fiat che proprio qui ha lasciato inaridire il suo "prato verde" di Melfi. Segnali da questa lista alternativa erano già arrivati nell'incontro nazionale delle città solidali che ha ospitato il romano Scup a metà luglio.

«Lontani dai riflettori accesi sul teatrino della politica (che descrivono uno scenario fatto di solite liste di partito, soliti nomi e soliti interessi), sono continuati i contatti e gli incontri fra le reti e i movimenti lucani che si stanno confrontando sulle prossime elezioni regionali - dicono i promotori - gli stessi percorsi ed i luoghi di confronto e discussione si vanno ampliando ed allargando mentre sempre più condiviso è l'obiettivo comune: fare in modo che a novembre all'appuntamento elettorale vi sia la più ampia, forte e credibile alternativa al Partito Regione ed alla sua finta opposizione, per riprendersi il futuro.

Di fronte al fallimento politico e di governo che ci ha portato ad una crisi drammatica ed al miserando spettacolo di miseria umana e morale in cui è precipitata la classe dirigente regionale, le migliori energie di questa regione sono chiamate ad un impegno nuovo rompendo gli indugi e vincendo la tentazione di continuare a stare alla finestra.

Obbligata è la strada: quella dell'unità che supera le tentazioni di piccoli orticelli, le presunzioni di avere la ricetta in tasca per risolvere i conti, le velleità di autonominarsi "salvatore della patria", l'ignavia di stare a guardare per capire se vale la pena, le divisioni ideologiche usate per dividerci nell'unico interesse di chi ha governato fin qui o ha fatto finta di fare opposizione. Tutti limiti che, se non superati, porteranno alla sconfitta e condanneranno uomini e donne di Basilicata a subire la continuità con il passato e dunque la crisi economica, morale e di democrazia.

C'è bisogno di tutti: di fronte al salire dalla società lucana del giudizio fortemente negativo sulle bugie del "Modello lucano come regione felice" e sulla speranza di cambiamento ed alla voglia di "mandarli a casa", tutti siamo chiamati a lavorare perché il cambiamento si realizzi e gli uomini e le donne lucani abbiano una vera e credibile alternativa di governo; i cittadini dei 131 comuni lucani hanno diritto ad un forte cambio di rotta che porti moralità nella vita politica regionale e negli indirizzi di gestione della dinamica sociale, economica e politica lucana partendo dalle proposte che mettono a valore le sue straordinarie risorse umane ed ambientali che vanno sottratte alla speculazione dei soliti noti.

I protagonisti della nuova Primavera Lucana di cui abbiamo bisogno stanno nella vasta area di impegno civico, sociale e di movimento che quotidianamente fa i conti con i mille problemi che la politica regionale non ha saputo fin qui risolvere, fra gli amministratori dei nostri comuni e degli Enti territoriali che quotidianamente cercano di dare risposte sollecitando, inascoltati, la politica a fare il proprio dovere, fra gli imprenditori che cercano di mettere a frutto i loro investimenti trovando chiuse le porte in nome degli interessi delle solite cordate, fra i professionisti costretti a piegarsi al volere delle segreterie dei Partiti o all'esilio, fra i giovani umiliati dal non avere occasioni per mettere alla prova le proprie capacità, fra i disoccupati e i lavoratori che hanno diritto al futuro senza doversi scappellare come è sempre avvenuto in questa Regione per colpa di una classe dirigente incapace di dare risposte trasparenti e credibili ma sempre pronta a garantire privilegi e piccoli/grandi interessi privati.

L'unità di cui abbiamo bisogno è la loro unità che si fa proposta alternativa decisa, forte e responsabile permettendo a tutti gli uomini e le donne di avere una motivazione vera per andare al voto a Novembre: quella di vincere, mandarli a casa ed aprire la strada alla Primavera Lucana di cui abbiamo bisogno.

L'assemblea dei movimenti tenuta a Potenza l'8 luglio aveva indicato con chiarezza i tre obiettivi su cui siamo chiamati:

- aprire una fase nuova nei contenuti e negli indirizzi di governo, una vera e propria fase costituente che parta dal programma immediato per affrontare la crisi drammatica e i disastri di una gestione fallimentare ma che, al tempo stesso, lavori con ambizione a tracciare un futuro non subalterno per una regione ricca di risorse umane, ambientali e culturali;

- dare vita ad una campagna elettorale dove si realizzi la più larga, aperta, trasparente e democratica partecipazione di tutti gli uomini e le donne di Basilicata, uno spazio da coltivare nel tempo e ben oltre le elezioni per chi cerca di avere risposte e non le ottiene o, al contrario, è escluso o emarginato dalle cricche di sottopotere regionale cresciute all'ombra del modello dell'isola felice, per chi ha proposte, idee, istanze da far valere e vuole contribuire al progetto

- chiamare alla responsabilità i soggetti organizzati e quanti stanno discutendo della costruzione di liste con proposte elettorali a coordinarsi, a stare insieme facendo cartello, costruendo l'alleanza e trovando le unità necessarie per vincere.

Con questo spirito, ed in continuità con le riunioni precedenti di Un'Altra Basilicata è Possibile, invitiamo tutti e tutte a partecipare a Marconia il 3 Agosto alle ore 18 presso la sala del Comune per approfondire la proposta di contenuti di indirizzo e programmatici, le forme dell'Alleanza larga e rispettosa delle autonomie e la proposta di tenere a Settembre le primarie degli uomini e delle donne di Basilicata che dovrà decidere sulla proposta programmatica, sul codice morale per gli eletti, sulla composizione delle liste e sulla candidatura a Presidente della Regione Basilicata per la Nuova Primavera Lucana.

Con lo stesso spirito parteciperemo tutti ed invitiamo alla partecipazione a Potenza il 7 Agosto all'incontro "LA VERA BASILICATA" convocato a Potenza da "Cittadini Protagonisti", soggetto politico nuovo fondato per "lanciare la sfida al vecchio potere politico cambiando e modernizzando la Basilicata" che chiama a discutere

- Per elaborare un vero programma di cambiamento

- Per proporre una nuova classe dirigente

- Per mandare a casa i politici incapaci, furbi e affaristi

Due appuntamenti di lavoro cui ne seguiranno altri nel mese di Agosto, mentre continuiamo a discutere con tutti i soggetti in campo alternativi a centrodestra e centrosinistra per dare vita al più ampio accordo elettorale.

Nessuno si faccia illusioni e scambi per debolezza, il lavoro vero e lontano dai riflettori cui sono abituati i movimenti, le associazioni e i cittadini.

Siamo in campo sul serio, ci saremo alle elezioni e ci saremo per vincere!