martedì 30 luglio 2013

Paese in caduta libera: vogliamo fermarla? di Bruno Steri, Liberazione.it


Paese in caduta libera: vogliamo fermarla?

Il nostro Paese è in caduta libera. Non è certo un mistero, tutti lo sanno, tutti ne parlano: istituzioni, società civile, comune opinione. Accendi la radio e senti il direttore centrale dell’Istat dichiarare che, accanto ai dati drammatici sull’aumento della povertà “assoluta”, negli ultimi due anni sono raddoppiate le famiglie “in grave difficoltà”, quelle che secondo i parametri europei rispondono a caratteristiche come le seguenti: neanche una settimana l’anno di vacanza, niente carne o pesce ogni due giorni, riduzione dell’erogazione di riscaldamento, non disponibilità di 800 euro per spese improvvise; e via di questo passo. Il 17% delle famiglie italiane (otto milioni di persone)  poco sopra la soglia di povertà: un imprevisto sfavorevole e precipiti anche tu verso il fondo. Accendi il televisore e apprendi da un lavoratore dell’Alcoa che, in quello specifico contesto di crisi, dal gennaio ad oggi si sono registrati 40 (quaranta!) suicidi. Storie ordinarie di una straordinaria crisi capitalistica. Non stupisce che vi sia (vedi il cinquestellare Casaleggio e il ministro della Repubblica Delrio) chi profetizza che alla ripresa settembrina dell’anno politico possano verificarsi delle esplosioni di rabbia sociale. Né può sorprendere la  previsione (solo apparentemente opposta) che “una situazione di alta disoccupazione possa essere accettata come la nuova normalità” e che “la gente possa accettare una depressione più o meno permanente, finendo per pensare che è così che vanno le cose” (Krugman).
Quale potrà essere la piega degli eventi dipenderà in molta parte dall’esistenza o meno di una radicale, compatta, convincente opposizione allo stato di cose presente. Un’opposizione che, in ogni caso, deve aver chiaro ciò a cui si contrappone: non semplici errori di questo o quel governo, dettati da visuale corta e/o teorie economiche fasulle; ma la consapevole gestione di un passaggio d’epoca, una generale e strutturale involuzione (sociale e istituzionale) a tutto svantaggio delle classi subalterne. 

Non si capirebbe altrimenti la pervicacia, apparentemente paradossale, con cui – in Italia come in Europa – si insiste nel (cosiddetto) errore. La dura realtà dei fatti ha smentito il mantra neoliberista: decretando che l’austerità deprime l’economia e ammazza la crescita. Si tratta di una delle più clamorose falsificazioni empiriche nella storia del pensiero economico. Eppure, ancora qualche giorno fa, Peter Praet, capo economista e membro del board della Bce, raccomandava di non abbassare la guardia sul terreno del consolidamento dei conti pubblici e dei tagli alla spesa: certo, per l’Italia egli suggerisce di migliorare “la qualità” delle scelte, visto l’esito infausto di quelle già adottate; ma la linea del rigore non va abbandonata, perché non è possibile escludere “un riacutizzarsi delle tensioni nei mercati”. La minaccia dello spread è insomma sempre dietro l’angolo. Poco importa che ripetute analisi (da ultimo, quella degli economisti Paul de Grauwe e Yuemei Ji) dimostrino l’insussistenza di una correlazione tra l’andamento dello spread e i conti pubblici (in particolare, il debito) e, viceversa, confermino un forte collegamento tra lo spread medesimo e la solidità della costruzione europea (e dell’euro) in quanto tale. Tant’è che è bastato l’annuncio nello scorso luglio 2012 di una garanzia assicurata dalla Bce ai Paesi Ue più esposti alla crisi, per raffreddare la tensione attorno a tale parametro. Né vale reiterare l’essenziale considerazione che la spesa pubblica italiana non è affatto superiore alla media europea; ed anzi risulta più bassa, laddove si scorporino gli interessi sul debito (impennatisi dal 1981, cioè da quando il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro ha esentato la prima dall’acquisto di titoli pubblici e costretto il secondo ad attrarre, con alti interessi, gli acquirenti privati nel mercato aperto). Non di ulteriori tagli di spesa avrebbe bisogno il bilancio del nostro Stato, quanto ad esempio di incrementare le entrate con l’abbattimento (finalmente!) dell’evasione e dell’elusione fiscale, oltre che attraverso una revisione del prelievo fiscale in senso fortemente progressivo. Ma, se non bastassero i rilievi di keynesiani e pericolosi marxisti, dovrebbe almeno far riflettere l’impietosa bocciatura sanzionata dalla Corte dei Conti in occasione della cerimonia di parificazione dei conti dello Stato, alla fine dello scorso giugno: le manovre lacrime e sangue hanno “depresso” l’economia italiana; e la politica dei tagli di spesa lineari si è rivelata un fallimento, causando una caduta verticale dei servizi.
Ancorché pressata dall’imperativo della crescita, la linea dell’Eurozona resta appesa alle inequivoche parole pronunciate recentemente da Angela Merkel davanti al Bundestag (la Camera bassa tedesca): “Crescita e consolidamento del bilancio non sono in contraddizione. Al contrario, si determinano a vicenda. In Germania abbiamo dimostrato come si fa”. In effetti, non si tratta affatto di un’inattingibile quadratura del cerchio.“Come si fa” la Germania lo ha mostrato praticandolo su se stessa (con le “riforme” varate a partire dal 2002 sotto il governo Schroeder dallo Hartz Committee: moderazione salariale, razionalizzazione/flessibilità del mercato del lavoro, ridimensionamento delle spese di welfare, liberalizzazione/privatizzazione dei servizi); e poi imponendo tale impostazione al resto d’Europa. Solo applicando rigorosamente questa cura da cavallo (tradotto: un’inflessibile politica di classe), i Paesi della periferia europea potranno forse ottenere qualche deroga sul piano del conteggio del deficit e della tempistica nel rientro dal debito.
Mario Draghi, impegnato a mitigare il rigore teutonico, non contravviene tuttavia alla logica di fondo. E’ di questi giorni la notizia che, per favorire il credito bancario alla piccola e media impresa (Pmi, che com’è noto caratterizza eminentemente il tessuto produttivo di Paesi come l’Italia), la Bce allargherà la gamma di titoli che le banche sono tenute a presentare come garanzia per ottenere liquidità dalla Bce stessa, includendovi titoli cartolarizzati (i famigerati Abs), basati appunto su prestiti alle Pmi. Ciononostante, sarà assai difficile che tale misura interrompa la stretta creditizia: come Draghi sa perfettamente, se tale stretta è in corso non è solo per una carenza di offerta da parte delle banche ma anche per la carenza di richieste da parte del mondo imprenditoriale, restio a rischiare investimenti in tempo di crisi. E’ il solito giro vizioso: la gente non consuma perché ha sempre meno soldi in tasca, le aziende non vendono e (nel migliore dei casi) restringono l’attività (nel peggiore, chiudono). E’ la selezione naturale innescata dalla crisi capitalistica, che ad oggi vede soccombere, assieme alla parte più fragile dell’apparato produttivo, il lavoro in quanto classe. Così è in Italia e in Europa; così è negli Stati Uniti. Anche negli Usa infatti – come documenta Bruno Cartosio nel suo La grande fratturai ricchi stanno combattendo la lotta di classe e stanno vincendo, mettendo a valore “spostamenti decisivi nei rapporti di forza nella società”: “Tra il 1983 e il 2009, secondo l’Economic Policy Institute, poco meno del 92% dell’incremento di ricchezza è andato al 10% più ricco; per il 30% della fascia centrale l’incremento è stato pari al 15,5%, mentre il 60% più povero si è impoverito del 7,5%”. Da tre decenni nel mondo è in atto l’offensiva del potere capitalistico.
Entro un tale quadro va collocata e giudicata l’azione dei nostri ultimi governi (inflessibilmente orientata dal ruolo di garanzia presidenziale assunto e mantenuto oltre il consueto da Giorgio Napolitano). Nel nostro caso, il conflitto di classe si intreccia con il ruolo subalterno previsto per il nostro Paese nella competizione sovranazionale tra capitali. Cosa avrebbe dovuto dire alla signora Merkel un Presidente del Consiglio che non fosse Letta (ma neanche Renzi o Alfano)? Poche cose ma chiare: Cara signora, con il Patto fiscale (Fiscal compact) concordato in sede Ue e approvato nel luglio 2012 da un Parlamento italiano in larga maggioranza sottomesso (e senza comunisti), ci costringete a prelevare dalle tasche dei nostri cittadini una cinquantina di miliardi all’anno per i prossimi 20 anni. In più, contribuiamo al cosiddetto “Fondo salva stati” – che l’Europa mette a disposizione degli Stati in difficoltà col vincolo del varo di misure socialmente pesantissime – versando una quota parte del 18% del capitale totale (125 miliardi di euro in cinque anni). Tutto ciò è incompatibile con qualunque prospettiva di sviluppo socialmente e ambientalmente progressivo. Chiediamo quindi una revisione dei Trattati; in caso di rifiuto disubbidiremo ai Trattati stessi.
E’ grosso modo quello che ha detto Alexis Tzipras, leader di Syriza, a proposito del memorandum capestro imposto alla Grecia. E’ quello che dovrebbe dire un Presidente del Consiglio eletto da un cartello delle sinistre in Italia. Purtroppo siamo dentro tutt’altra scena. Qualche giorno fa Enrico Letta era a Londra presso l’ambasciata italiana che, per l’occasione, riuniva il Gotha della City: presidenti delle grandi banche di Wall Street, gestori dei grandi fondi d’investimento ecc. Le cronache raccontano (vedi la Repubblica del 19 luglio scorso) che un investitore ha alzato la mano e ha avanzato provocatoriamente la seguente domanda:  quand’è che vi arrendete all’evidenza, ristrutturate il debito o applicate una patrimoniale? Risposta pronta di Letta: nessuna ristrutturazione del debito e nessuna patrimoniale. A settembre o ottobre – ha aggiunto – “lanceremo un piano di privatizzazioni” ed esso riguarderà “anche le imprese pubbliche quotate in Borsa”. Era precisamente ciò che quel pezzo ragguardevole di capitale transnazionale voleva sentire da un capo del governo italiano ligio allo status quo e ai “poteri forti”: Eni, Enel, Finmeccanica, municipalizzate; ma anche (perché no?) patrimonio paesaggistico e artistico (in Italia è concentrato il 60% di tutti i beni artistici e archeologici dell’umanità). Tutto ciò fa gola al capitale globale, soprattutto se messo a disposizione a prezzi di saldo dalle urgenze della crisi. E’ dunque questo il piatto forte che si sta preparando per il nostro Paese, dopo l’antipasto già consumato dalle multinazionali francesi del lusso, venute da Oltralpe a fare shopping (col tricolore bianco rosso e blu che sventola su Bulgari, Gucci, Fendi, Bottega Veneta, Pucci, Acqua di Parma; e ora anche su Cova, storica pasticceria di via Montenapoleone).
Eppure questo impresentabile centro-sinistra dovrebbe trarre insegnamento dalle esperienze passate: non è vero che privatizzando si risolve la questione del debito pubblico; è vero piuttosto che il debito pubblico è usato come cuneo per favorire operazioni a tutto vantaggio del profitto privato. Le grandi privatizzazioni degli anni 90 hanno aggravato i problemi del Paese: smantellando settori produttivi di eccellenza, indebolendo la capacità del settore pubblico di orientare le politiche industriali con investimenti ad alta intensità tecnologica e ad alta produttività. C’è da sorprendersi se i nostri ricercatori, vincitori di fondi europei per progetti di ricerca, scelgono l’estero e non l’Italia? Come si sa, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Nel giugno del ’93 Carlo Azeglio Ciampi, proseguendo la svendita del patrimonio pubblico iniziata con il suo predecessore Giuliano Amato, nomina un Comitato di consulenza per le privatizzazioni. A presiederlo c’è un certo Mario Draghi, uomo di Goldman Sachs. Oggi  presidente della Bce: a volte ritornano…
In tutta questa orribile storia, brilla un’assente: una sinistra unita, che si proponga di costruire veri e consistenti argini a tale deriva. Perché non cominciamo a unire i comunisti?

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