Mentre le ultime rilevazioni dell’Istat
indicano un vero e proprio crollo dei consumi delle famiglie, uno
studio commissionato dall’Unione Europea, “Gini-Growing inequality
impact”, ha messo in evidenza che l’Italia è tra i paesi europei che
registrano le maggiori diseguaglianze nella distribuzione dei redditi,
seconda solo al Regno Unito, e con livelli di disparità superiori alla
media dei paesi Ocse. Non solo: nel nostro paese la favola di
Cenerentola si avvera con sempre minor frequenza, nel senso che le
unioni si verificano non tanto tra fasce di reddito diverse ma entro le
stesse fasce frenando la mobilità sociale. Inoltre, appare che la
ricchezza si sta spostando verso la popolazione più anziana accentuando
il divario tra generazioni.
Il crollo dei consumi in Italia è dunque
associato ad un divario nella distribuzione della ricchezza che si è
accentuato durante la crisi: oggi circa la metà del reddito totale è in
mano al 10% delle famiglie, mentre il 90% deve dividersi l’altra metà.
La domanda che si impone è: come siamo arrivati a questo punto?
La risposta non è difficile: questa
situazione va ricondotta al pensiero dominante di ispirazione
neoliberista, che si è affermato all’inizio degli anni ’80 negli Stati
Uniti e in Inghilterra e che poi ha influenzato la politica economica
dell’Unione europea. La teoria economica neo-liberista si fonda
sull’assunto che la diseguaglianza non inficia in alcun modo la
crescita. Anzi, detassare redditi e soprattutto patrimoni immobiliari e
mobiliari dei più ricchi genererebbe un “effetto a cascata” che dai
piani alti della società trasferirebbe la ricchezza fino ai piani bassi,
portando ad un arricchimento generale e ad una maggiore crescita.
Questa idea ha aperto la strada alle privatizzazioni e alla deregulation
dei mercati finanziari (inclusa la proliferazione dei paradisi fiscali)
per permettere agli “spiriti animali” di dispiegare liberamente tutta
la loro forza propulsiva. Così lo Stato diventa un “disturbatore”,
fonte di sprechi e di inefficienza, e pertanto deve essere ridotto ai
minimi termini. “La società non esiste, ci sono solo individui e
famiglie. E nessun governo può far nulla. La gente deve pensare a se
stessa”: così Margaret Thatcher in una sentenza diventata tristemente
famosa.
Dall’inizio degli anni ’80, il drastico
ridimensionamento della capacità di intervento dello Stato nell’economia
e il progressivo indebolimento dei lavoratori, che cominciano a subire i
ricatti delle delocalizzazioni produttive, interrompono l’espansione
della classe media che si era registrata nell’Età dell’Oro (1945-1973).
Ma una crescita fondata su diseguaglianze crescenti può destabilizzare
l’economia riportando indietro di anni il livello di benessere della
popolazione. Joseph Stiglitz ha sintetizzato i risultati delle sue
ricerche in una formula che dimostra come diseguaglianza e sviluppo
economico siano inversamente proporzionali.
Insomma, l’“effetto a cascata” auspicato
dai liberisti non si è assolutamente verificato e sono risultati
evidenti gli effetti nefasti della polarizzazione della ricchezza, così
come era stato teorizzato da Karl Marx.
Dopo la crisi esplosa nel 2008 lo Stato è
dovuto intervenire massicciamente per salvare il settore privato dal
collasso, il che ha determinato un’espansione rapidissima del rapporto
tra debito pubblico e Pil in tutti i paesi avanzati. E ora si è
scatenata una nuova controffensiva del settore privato e dei mercati per
tagliare i servizi sociali e più in generale la spesa pubblica
aggravando la situazione delle fasce più deboli ed alimentando
diseguaglianze sempre più marcate.
Il ceto medio è il vero motore dei
consumi sia perché rappresenta la fascia più larga della popolazione,
sia perché tende a convertire in consumi una percentuale
proporzionalmente molto più elevata del proprio reddito. Se far
ripartire i consumi è una delle principali chiavi per promuovere
l’intera economia ecco allora l’importanza di politiche che favoriscano
una più equa distribuzione della ricchezza ed il rafforzamento della middle class.
La politica dei redditi deve dunque
tornare al centro della politica economica se vogliamo uscire dalla
crisi che sta alimentando tensioni sociali destinate a diventare
insostenibili.
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