Per uscire dalle secche della crisi va riportata in cima
all’agenda politica la piena occupazione. Perchè avere un lavoro è più
importante che avere un reddito e la perdita del lavoro può infliggere
danni maggiori della povertà stessa. Intervista al sociologo Luciano
Gallino
Redistribuzione del lavoro e redistribuzione del reddito: è
possibile conciliarle? Sul dibattito lanciato da Sbilanciamoci.info sul
tema del reddito minimo garantito abbiamo interpellato il sociologo
Luciano Gallino, professore emerito, già ordinario di Sociologia,
all’Università di Torino.
Lo slogan più diffuso al momento è: più crescita per
rilanciare l’occupazione. A parte il fatto che si dice ma non si fa,
pensa che sia vero o ritiene che il problema occupazionale abbia anche
dei caratteri strutturali non eliminabili da una ripresa del ciclo
economico?
In generale si parla di crescita come un tempo si parlava del
flogisto, termine medievale che indicava una sostanza imponderabile
circolante ovunque e capace di compiere miracoli. Nove persone su dieci,
tra quelle che parlano di crescita, non sanno di cosa parlano. Se non
corredato di indicazioni precise, infatti, il termine crescita non
significa nulla, o addirittura può essere fuorviante perchè per esempio
la crescita può essere anche legata all’aumento dei profitti finanziari.
Io penso che sia meglio parlare di qualcos’altro, e, per restare alla
domanda posta, credo che una misura realistica di buon funzionamento
economico dovrebbe essere il tasso di occupazione e quello di attività.
Il dibattito aperto da Sbilanciamoci.info si è polarizzato
tra interventi a favore del lavoro di cittadinanza e interventi per il
reddito di cittadinanza: quale ritiene che sia, tra le due, la strada da
intraprendere?
Privilegerei la creazione di occupazione diretta. Riportare in cima
all’agenda politica la prassi e l’idea di piena occupazione è una
questione prioritaria. Il fatto è che la terminologia stessa di “piena
occupazione” è stata rimossa dall’ideologia neoliberale. A partire dal
dopoguerra, e per i primi vent’anni, il concetto è stato in primo piano,
poi è scomparso. Persino nel Trattato Europeo l’espressione “piena
occupazione” ricorre una sola volta e non come fine statutario ma come
esito auspicabile di mercati efficienti. È paradossale. Detto questo,
una prassi di piena occupazione non collide con un progetto di reddito
di base, ma va detto che le due cose hanno due pesi differenti perchè
avere un lavoro è più importante che avere un reddito e la perdita del
lavoro, in termini tanto sociali quanto personali, può infliggere danni
maggiori della povertà stessa.
Pensa che la proposta di legge di iniziativa popolare sul
reddito minimo garantito, consegnata alla Camera il 15 aprile, abbia
buone probabilità di aprire una strada diversa alla tutela del reddito
in Italia?
Ne dubito molto, anche perchè il governo in carica è un governo di
destra che applica le indicazioni, di destra, che provengono da
Bruxelles, e più in generale dalla Trojka. Una proposta di legge di
questo tipo difficilmente potrà trovare ascolto e spazio. A mio avviso
uno degli aspetti più interessanti della legge è il riordino delle
prestazioni assistenziali. La sostituzione della dozzina di prestazioni,
oggi previste, con un unica forma di sostegno al reddito potrebbe avere
un effetto positivo e sarebbe auspicabile. Naturalmente questa unica
forma di sostegno al reddito dovrebbe avere un carattere universale ma
variabile in base ai livelli di reddito e alle condizioni familiari,
come previsto anche dalla proposta di legge.
Chiedere interventi per un “lavoro di cittadinanza”
significa porre come obiettivo di politica economica la creazione di
nuovi posti di lavoro da parte dell’amministrazione pubblica per
ottenere una “piena e buona occupazione”, cosa ne pensa?
Preferisco parlare, come ha fatto recentemente anche la Commissione
Europea, di job guarantee. E se persino la Commissione europea scopre la
“piena occupazione” forse è segnale che è arrivato il momento di fare
qualcosa.
Chiedere un reddito minimo garantito significa fissare di
fatto un salario minimo al quale il soggetto beneficiario è disposto a
prestare il suo lavoro. Non costituirebbe un argine ai processi di
precarizzazione del mondo del lavoro?
Nutro molti dubbi in proposito perchè i rapporti di lavoro precari
non riguardano l’entità della retribuzione ma la possibilità di usare il
lavoro esattamente come si usano ricambi e componentistica nei servizi.
Il principio che si è affermato prima nella produzione e poi nel
mercato del lavoro è quello del “giusto in tempo”. La flessibilità è
figlia di questa idea e non penso che pagando qualcosa in più o in meno
le cose possano cambiare. È sull’organizzazione complessiva della
produzione che bisogna intervenire.
Cosa pensa di proposte che vogliono connettere la
redistribuzione del reddito nella forma di una garanzia universale e una
redistribuzione del lavoro attraverso l’espansione di forme
contrattuali a tempo ridotto?
Penso che siano linee di difesa di secondo e terzo piano, mentre oggi
sarebbe meglio concentrarsi su quelle di primo piano. Negli ultimi
trent’anni abbiamo assistito a una gigantesca redistribuzione del
reddito dal basso verso l’alto: questa è un’enorme questione politica
che andrebbe affrontata attraverso gli strumenti legislativi, il
potenziamento dei sindacati e del contratto nazionale.
Pensa che politiche di sostegno al reddito come quelle di
cui abbiamo parlato siano sostenibili o che richiedano una rimodulazione
della politica fiscale nel suo complesso per il loro finanziamento?
Una rimodulazione delle politiche fiscali sarebbe comunque necessaria
perchè, come ho detto, le politiche fiscali hanno ridotto le entrate e
favorito soprattutto l’aumento delle disuguaglianze. Però è necessario
fare due conti: con 15 miliardi di euro si potrebbero creare posti di
lavoro, in un anno, per 1 milione di persone, mentre destinando la
stessa somma al reddito garantito non si coprirebbe una popolazione
altrettanto numerosa e non si avrebbe quell’effetto moltiplicatore
sull’economia che il creare occupazione produce.
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