mercoledì 31 dicembre 2014

BUON 2015


Riforme: vota la Balla dell’Anno di Marco Travaglio

1. Mai dire 18. “L’articolo 18 è un totem ideologico, inutile discuterne” (Matteo Renzi, 12-8). “Non serve abolire l’articolo 18. Basta il contratto di inserimento” (Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, Corriere, 17-8). “Il problema non è l’articolo 18, che riguarda 3 mila persone” (Renzi, 1-9).   
2. Più Pil per tutti. “Abbiamo abbassato le previsioni di crescita del Pil rispetto al governo Letta. Sono prudenti, ma saranno smentite. Lo prometto” (Renzi, 8-5). “Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente per la vita quotidiana delle persone” (Renzi, 24-7). Letta prevedeva un +1% annuo, Renzi nel Def un +0,8, ora la Commissione Ue lo stima al -0,4%.   
3. Ogni promessa è debito. “Nessuna preoccupazione sui conti pubblici” (Renzi, 2-8). Nel 2014, sotto il governo Renzi, il debito pubblico è cresciuto di 8 miliardi al mese toccando il record di 2.140 miliardi (pari al 131,6% del Pil).   
4. Italicum factum. “Nonostante i gufi, la legge elettorale è passata alla Camera ed entro settembre sarà approvata: mai più larghe intese e chi vince governa cinque anni. È una rivoluzione impressionante, chi vince governa. Politica 1 – Disfattismo 0” (Renzi, 12-3). L’Italicum è arenato al Senato e il governo l’ha lardellato di emendamenti: dovrà pure tornare alla Camera.   
 
5. Antimafia come se piovesse. “…una proposta organica sulla base del lavoro fatto dalla commissione presieduta da Garofoli istituita a Palazzo Chigi, con Cantone e Gratteri, per elaborare strumenti e contributi per rendere più incisiva la lotta alla criminalità organizzata… Porterò questi temi anche sui tavoli del semestre europeo che si apre tra qualche mese, perché la mafia non è più solo un problema italiano. C’è tanto lavoro da fare” (Renzi, lettera aperta a Roberto Saviano, Repubblica, 2-3). Nulla di fatto, men che meno sul tavolo del semestre europeo. A parte la legge che riduce le pene e rende praticamente impunibile il voto di scambio politico-mafioso.   
6. Ottanta euro extralarge. “Ho preso un impegno con partite Iva, incapienti e pensionati nel proseguire il lavoro di abbassamento delle tasse iniziato con i lavoratori dipendenti e lo manterrò” (Renzi, Twitter, 23-4). “Dal 2015 i pensionati saranno dentro la stessa misura prevista nel decreto Irpef degli 80 euro” (Renzi, 23-5). “Il bonus sarà allargato” (Renzi, 3-6). Nessun allargamento degli 80 euro a incapienti, pensionati e partite Iva (queste ultime, anzi, si vedono triplicare l’aliquota fiscale).   
7. Brum brum, che ripresa! “Lavoriamo per una ripresa col botto a settembre” (Renzi,1-8).“La ripresa è un po’ come l’estate: magari non è bella come volevamo, arriva un po’ in ritardo, ma arriva” (Renzi, 5-8). Nessuna ripresa, anzi: stagnazione e recessione.   
8. Il massimo del minimo. “Presentazione entro otto mesi di un Codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero” (Renzi, 8-1). “Nel Jobs Act ci sarà il salario minimo” (Renzi, 12-3). Il Codice del lavoro non esiste nemmeno dopo 12 mesi e nel Jobs Act non c’è traccia di salario minimo.   
9. Spending Dippiù. “La spending review la faremo lo stesso anche senza Cottarelli. Dai tagli di spesa avremo 16 miliardi e porteremo il deficit al 2,3%” (Renzi, 30-7).“I tagli saranno non per 17, ma per 20 miliardi. Il governo valuterà tagli non lineari per ciascun ministero. Lunedì con Padoan incontrerò tutti i ministri. Ognuno potrà e dovrà valutare le singole spese da tagliare” (Renzi, 3-9). Licenziati Cottarelli e la sua spending review, solo tagli lineari alle Regioni (4 miliardi) e agli enti locali (2,2 miliardi); quelli ai ministeri ammontano a poco più di 1 miliardo. Totale: 8 scarsi. E il deficit è al 2,9%. Forse.   
10. Unioni alla tedesca. “Sulle unioni civili ci sarà una proposta ad hoc del governo sul modello tedesco” (Renzi, 27-7). Nessuna proposta del governo sulle unioni civili, né tedesca né esquimese. A parte l’unione incivile con Silvio Berlusconi.

NEMICO PUBBLICO

GLI SCHIAVI “FATTI IN CASA”
Di Ciuenlai
 
Questa storia dell’esclusione dei dipendenti pubblici dal Job – Act non è né una dimenticanza, nè uan scelta di campo, né un retaggio del passato, né la difesa della “politica” di un antico privilegio. E’, invece, un altro tassello della strategia della divisione tra lavoratori e tra poveri. Si cerca di accreditare agli occhi dei “privati”, un privilegio per i “pubblici”, sviando il problema della riduzione generale dei diritti, mettendo in piazza dei “responsabili” inconsapevoli e innocenti e, aprendo le porte ad una ulteriore azione contro i lavoratori pubblici che subiranno, tra qualche anno, forse tra qualche mese, la stessa sorte di quelli privati. Gli diranno “Muti che voi non siete come quelli dell’Ast o dell’Ilva”. E invece, come dimostra la vicenda delle Province, che sono la prova generale di questo disegno, stanno diventando come loro : esodanti, cassintegranti, licenziandi. L’obiettivo è “il precariato per tutti”, per alimentare insicurezza, paure e difendersi con il ricatto da qualsiasi tipo di protesta e di ribellione. Applicano la legge della sopravvivenza, alla quale nessuno si può sottrarre. Ma alla fine, le nuove norme sul pubblico impiego marcheranno qualche differenza, per poter continuare il giochino del “lui sta peggio di te”, naturalmente al ribasso, sempre più al ribasso. Tenendo qualcuno leggermente più in alto, si può far scivolare tutti verso il baratro dei redditi e delle tutele per chi vende la propria forza lavoro. Vedrete, tra qualche anno, finiranno anche le “carrette del mare”. Non serviranno più. L’Italia avrà un mucchio di schiavi “fatti in casa”

martedì 30 dicembre 2014

A che punto è la notte? Marx come bussola nel caos capitalistico Claudio Valerio Vettraino

Il problema drammatico del marxismo degli ultimi trent’anni riguarda il fatto che il marxismo è stato sempre più considerato come un semplice punto di vista, un’ideale, o peggio un’idea, una Welthanschauung soggettiva, un’etica sociale personale avulsa dalla storia e delle necessità della trasformazione pratica, un’opinione tra le altre mille che affollano, anzi affossano, il dibattito pubblico; una pia volontà di cambiamento, di benessere auspicabile per tutta l’umanità, fumosa nostalgia di un glorioso passato di lotta.
In questo modo, venendo meno la sistematicità scientifica del marxismo come modello, “cassetta degli attrezzi”, universo complesso e contraddittorio di categorie e linguaggio, di epistemologia ed ermeneutica applicata alla realtà concreta, di grammatica strategica delle forze in campo, della lotta tra le classi, analisi critica delle leggi di funzionamento della formazione economico-sociale capitalistica, riducendosi cioè a mera opinione, a mera volontà, a intelletto senza azione, concetto senza strategia, interpretazione senza organizzazione, esso può essere dichiarato – idealisticamente, senza un’attenta e concreta dimostrazione scientifica – morto e sepolto da chiunque abbia l’interesse a insudiciare e demolire una storia, una tradizione, le conquiste sociali, politiche ed economiche che il marxismo ha permesso.
Se il marxismo dunque viene fruito e rappresentato come un’idea tra idee, opinione tra opinioni, pura e semplice gnoseologia astratta, accademico-letteraria, pedante filologia, è già morto.
Se viceversa, viene interpretato, giustamente, come sistema (sempre aperto e critico di se stesso) scientifico in quanto produttore di senso e sapere, unità dialettica di contraddizione e non-contraddizione, di verifica sperimentale dell’ipotesi astratta di lavoro (come direbbe Della Volpe) e fluida criticità dialettica, allora e solo allora potrà difendersi dalle triviali opinioni nichilistiche e pessimistiche dei teorici borghesi e della pigra, miope accademia. Dobbiamo riconsiderare il marxismo come scienza critica dell’esistente, lontano anni luce da qualsiasi forma di dogmatismo althusseriano e di scientismo positivista. Il marxismo ha una superiorità intellettuale, scientifica, teorica indiscutibile, una superiorità però che deve sapersi realizzare come concreta alternativa politica, concreto progetto di trasformazione.
Il problema dell’attualità del marxismo si delinea su un doppio binario: il primo è quello comunicativo, della capacità di ricreare un linguaggio e una grammatica aderente alla fase storica attuale: quella famosa “analisi concreta della situazione concreta” di cui parlava Lenin. Connesso dialetticamente a questo, vi è il problema della capacità organizzativa e politica nel costituirsi come reale alternativa di potere e d’egemonia, per dirla con Gramsci. Due questioni, intrinsecamente connesse l’una all’altra: il deficit linguistico e d’analisi scientifica del capitale finanziario globale, con la proposta alternativa di gestione sociale, economica e politica che propone. Ed è precisamente questa la sfida che il marxismo ha oggi di fronte. Quella cioè di dimostrare di essere una vera ed autentica alternativa utopica, strategico-organizzativa alla crisi radicale e sempre più strutturale del mercato mondiale, nel suo endemico sviluppo ineguale.
Se la ripresa del marxismo  è fin dall’inizio una stagnante ripresa nostalgica, meramente intellettuale, romantica ed accademica, è una battaglia di retroguardia persa in partenza. Se viceversa, si presenta come un’inedita attualizzazione storico-materiale delle sue necessità politiche, delle sue indiscutibili spinte rivoluzionarie, della sua visione totalizzante, nel cogliere le contraddizioni e gli sviluppi, le tendenze della nostra società, i ruoli e le funzioni che gli uomini storici hanno all’interno del suo divenire concreto, allora diventa una lotta d’avanguardia, una battaglia non solo scientifica o prettamente politica (di presa e di gestione del potere politico), ma morale, civile, potremmo dire parafrasando Agnes Heller, valoriale.
Ordinare la nostra azione speculativa e politica all’interno dell’orizzonte concreto del marxismo, non significa ossificarlo, istituzionalizzarlo come scienza panlogistica dell’esistente, una sorta di scientismo assoluto. Al contrario, tutti i nostri sforzi sono indirizzati a recuperare – per quanto possibile – tutta la sua inesauribile fluidità dialettica, le sue potenzialità dinamiche e d’analisi mai chiusa, capace di evolversi, progredire nell’autocritica in quanto riformulazione, ricostruzione, rieducazione integrale del presente, con lo sguardo rivolto alle tendenze future.
Ed è precisamente in questa direzione che diviene sempre più necessario un processo di centralizzazione della ricerca e dell’”intellettualità”marxista, per combattere la spinta (ormai in atto da tre decenni) all’isolamento e alla parcellizzazione individualista degli studiosi, di chi coglie nel pensiero e nei testi di Marx, preziose indicazioni per analizzare, sviscerare, riportare alla luce, l’intricata complessità della fase attuale.
L’obiettivo è quello di istituire una sorta di osservatorio marxista sulla realtà odierna, un centro studi perennemente attivo in grado di connettere e rafforzare, diffondere e criticare, le attuali interpretazioni del pensiero marxiano; un laboratorio aperto a tutte le tendenze e le scuole di pensiero.
E’ urgente oggi capire a che punto sia la ricerca e lo studio del marxismo, proprio in relazione all’urgenza di elaborare quella che Lenin chiamava “una scienza all’altezza dei tempi”. Parafrasando Gramsci, il nostro compito è duplice: da una parte tentare di ricostruire quell’intellettuale collettivo, una coscienza marxista comune (seppur con tante differenze e contrasti) venuto meno con la fine del partito comunista (che ha caratterizzato e forgiato non solo la cultura politica ma sociale e culturale italiana degli ultimi sessant’anni), ricostruire quella egemonia cultural-pedagogica che sembrava obsoleta ed inattuale, a partire dagli anni Ottanta, e che invece è sempre più urgente ripristinare. Dall’altra, tentare di connettere questa operazione di risanamento e di centralizzazione teorica, con le lotte economiche e politiche d’emancipazione e di difesa dei lavoratori, del movimento operaio. A mio avviso, non può esserci marxismo senza movimento operaio. Il marxismo è e deve continuare ad essere la bussola teorica dell’agire pratico, quotidiano dei lavoratori, l’unica possibilità per dargli un’autonomia intellettuale e politica, contro ogni visione interclassi sita e di collaborazione con le forze padronali e le istituzioni borghesi.
Ha perfettamente ragione Lucio Colletti, quando disse nella sua famosa Intervista politico-filosofica del 1974, che se il marxismo non fosse stato più in grado di produrre opere come Il capitale finanziario di Hilferding o L’accumulazione capitalistica di Rosa Luxemburg, si sarebbe avvitato su se stesso, schiavo della sua gnoseologia accademica e di un miope filologismo; avrebbe con ciò svenduto la sua epistemologia critica all’ermeneutica astratta e a-storica dei testi “sacri”, senza riuscire più a produrre materiali d’analisi economica e storica degni di questo nome, con un vero e concreto valore scientifico. Mai profezia fu più vera. Se il pensiero di Marx, come quello dei “maestri del socialismo”, vuole avere ancora un ruolo e una funzione storica generalizzante, di rapporto diretto e proficuo con le masse (soprattutto giovanili), deve sapersi ricostruire come scienza complessiva della società, sguardo totalizzante sul mondo (per dirla con G. Lukàcs), come ebbe a dire Asor Rosa, “punto di vista operaio sulla realtà”, centralizzazione politica di una strategia avvenire dinamica e creativa, altrimenti è vuota retorica, archiviazione nostalgica di un passato che non passa mai.

La sostanza della verità* di Anselm Jappe


verita25255b425255dVoglio cominciare con un ricordo personale. Sono cresciuto sul confine fra due epoche: la modernità classica e la postmodernità, o tarda modernità. Infatti, ho trascorso la mia adolescenza negli anni '70. Allora, il potere utilizzava un linguaggio chiaro: la famiglia, la scuola, la chiesa, l'esercito, le istituzioni dello Stato. Parlavano con linguaggio altezzoso e autoritario. Domandavano rispetto e sottomissione in quanto pretendevano di detenere la verità. Non cercavano di darci soddisfazioni immediate, ma di garantire il nostro futuro insegnandoci, o imponendoci, quello che non eravamo capaci di apprezzare e scegliere spontaneamente. Volevano anche obbligarci a fare sacrifici in nome di una verità superiore all'individuo, come la patria. In realtà, nei settori più importanti della vita, era già tutto stabilito, erano gli individui che dovevano adattarsi. Invece, quelli che non si volevano adattare parlavano di "rivoluzione", di "sovversione", e proponevano soprattutto di minare le certezze comuni. Spargere dubbi, mettere in discussione le verità ufficiali, sottolineare la relatività di ogni sapere, sembravano attività sovversive. Mentre il potere, molto tempo dopo la secolarizzazione ufficiale della società, parlava ancora in nome di un dogma che doveva essere accettato e non discusso; la contestazione, al contrario, si poneva dalla parte degli scettici, dei relativisti. Non è forse meglio, per le religioni, perseguitare gli scettici, piuttosto che i detentori di presunte contro-verità? La libertà politica e sociale dovrebbe andare di pari passo, agli occhi dei nemici dell'autoritarismo esistente, con la denuncia di ogni dogmatismo nel pensiero: l'"anarchismo epistemologico" del filosofo Paul Feyerabend ne è stato forse l'esempio più noto.

Poi, si è assistito ad un cambiamento sorprendente, una vera e propria giravolta (e non mi riferisco al fatto, assai curioso, per cui l'attuale Papa citi Feyrabend del 1990 per giustificare il rifiuto che la Chiesa dell'epoca oppose a Galileo, mettendo il relativismo più estremo al servizio del dogmatismo più estremo). Il relativismo è diventato il dogma ufficiale, a tal punto che ogni affermazione minimamente categorica passa per essere "totalitaria". Allo stesso tempo, il concetto di "rivoluzione" sembra essere passato definitivamente nel campo della pubblicità e del consumo. Se prima si cercava di mettere a tacere il pensiero critico, dichiarando che era in disaccordo con la verità stabilita, ora, al contrario, si cerca di zittirlo accusandolo di pretendere di esprimere una qualche verità. Il relativismo ha assunto una funzione di censura analoga a quella esercitata prima dal dogma. L'idiosincrasia e l'angoscia che le generazioni precedenti provavano nei confronti del prete che scuoteva l'aspersorio, verso il militare che marciava al passo o verso il maestro di scuola che batteva gli alunni, io, che ho conosciuto queste figure quando erano già al declino, provo la stessa angoscia davanti al pensiero postmoderno, davanti all'idea che tutto è permesso, che tutto è ugualmente possibile e legittimo, e pertanto ugualmente privo di valore e di senso - che è inutile discutere, argomentare, cercare di convincere o di combattere per qualcosa. Ogni critica sociale, che non si limiti a criticare alcuni dettagli, ma che intenda denunciare la società capitalista e insieme aspiri a questo cambiamento radicale che riassumiamo sotto il nome di "rivoluzione", viene denunciata da alcune decadi come "totalitaria", ed ogni aspirazione alla coerenza nel pensiero passa per essere "autoritaria" o arcaica. Così, la rinuncia alla verità finisce per essere presentata come una pratica di emancipazione.
Senza dubbio, il nominalismo, sotto forma di empirismo e di positivismo, è stato il fondamento del pensiero moderno a partire dall'Illuminismo. Ogni generazione di nominalisti ha trovato che la generazione precedente era stata ancora troppo poco nominalista - è la "dialettica dell'Illuminismo" della quale parlavano Adorno e Horkheimer. Nietzsche ed altri vanno a dare a questo nominalismo un aspetto più sovversivo. Con la teoria della relatività che la teoria quantica, la scienza stessa sembrava aver abbandonato un concetto univoco di verità. Ciò nonostante, è solo dopo il 1968, in quello che è stato chiamato "nuovo spirito del capitalismo", che questo relativismo arriva nella vita quotidiana e nella mentalità media, nei metodi educativi e nelle relazioni familiari. "Niente è vero, tutto è permesso" era, secondo Nietzsche, il principio supremo del "Vecchio della montagna", il capo della setta medievale degli "assassini". Guy Debord citava questa massima come la regola di chi, come lui, non ammetteva niente di ciò che era socialmente stabilito. Adesso è diventato il principio ufficiale del mondo. Questo sì che merita di essere chiamato cambiamento!
Infatti, la rappresentazione sociale di questo lavoro astratto è il denaro e, pertanto, infine, il prezzo: seppure le merci siano differenti, in quanto oggetti d'uso, in quanto prezzo non conoscono differenza qualitativa. La merce è quindi relativista per natura, mette tutto sullo stesso piano, ogni merce può sostituire qualsivoglia altra merce nello scambio di valore, una bomba equivale ad un sacco di frumento. Per la merce non c'è niente di sacro da rispettare, nessuna trascendenza, ed è questa la ragione per cui la critica reazionaria ne accompagna spesso gli inizi. Si conosce il ruolo avuto dalla logica mercantile nella dissoluzione delle gerarchie tradizionali, le quali affermavano sempre di essere i rappresentanti terreni di una verità trascendente. Storicamente, la mercificazione non si impone nel mondo tutta in una volta, ma si estende poco a poco a quegli ambiti considerati fino a prima come aventi un valore "assoluto", "inviolabile", intraducibile in denaro: nel XVIII secolo, la terra e la forza lavoro, oggi il genoma, l'acqua potabile o il cervello dei neonati. Ogni "progresso" della mercificazione del mondo diventa perciò un passo in avanti nella relativizzazione. Ciò nonostante, le strutture e le mentalità ereditate dalle formazioni sociali antecedenti, dalla religione alla famiglia e dall'austerità ai privilegi di classe, hanno continuato - e continuano a volte ancora oggi - a mescolarsi alla logica "pura" della merce. Al punto che la critica sociale le considera un punto centrale del dominio e si impegna fermamente a combattere la loro pretesa di esprimere certe "verità" indiscutibili. Oggi, la logica pura della merce, che conosce solamente l'imperativo di aumentare il valore, regna sempre più sola, anche se questo compromette le sue capacità di sopravvivenza, oltre a quella degli esseri umani e della natura. Quando l'unica legge dell'esistenza è la legge di vendere e comprare, qualsiasi preoccupazione per qualsivoglia verità non è altro che un ostacolo.
Spesso si elogia questa relativizzazione generalizzata perché si accompagnerebbe al pluralismo, alla tolleranza, alla libertà e all'individualismo. Nonostante questo, la possibilità apparente di scegliere pragmaticamente fra diverse opzioni, senza che la legittimità di tali opzioni possa essere dedotta da una verità trascendente previamente stabilita, può riferirsi solamente - anche nel migliore dei casi - alle opzioni che esistono all'interno di un campo che, in quanto tale, viene messo in discussione meno che mai. Questo campo è, senza dubbio, quello dell'economia stessa della merce, basata sul lavoro e sulla sua trasformazione in valore: l'eternità del vendere e comprare, del denaro e le merci, del mercato e la concorrenza, passa per essere una verità così ontologica, con un'enorme maiuscola, che non c'è nemmeno quasi mai bisogno di pronunciarla, o di evocarla, né per difenderla, né per criticarla apertamente. Passa per essere così evidente, che il fatto stesso di negarla pone lo scettico fuori da ogni discussione possibile - come se fosse un eretico, nel Medioevo, che metteva in discussione, non la natura di Dio, ma la sua esistenza stessa. Diversamente da quello che è successo negli anni '60 dello scorso secolo, si discute solamente del modo migliore di gestire il capitalismo, mai della sua abolizione, ed il ritorno al keynesismo e  alla piena occupazione, condito con un po' di commercio equo e solidale, qualche tassa ambientale ed una maggior partecipazione del Sud del pianeta, costituisce l'ipotesi più audace.
Perciò, nessuna rivoluzione! Almeno, se si intende la rivoluzione come la intendeva Debord alla fine de "La Società dello Spettacolo", definendola, detournando il giovane Marx, come l'auto-emancipazione della nostra epoca con la "missione storica di instaurare la verità nel mondo".
Il pensiero postmoderno - nelle sue forme decostruttiviste, post-strutturaliste, ecc. - ha esorcizzato esplicitamente qualsiasi ricerca di un forte collegamento fra i molteplici fenomeni sociali; tale ricerca non sarebbe, ai loro occhi, altro che un "essenzialismo", dunque un "sostanzialismo" o un "naturalismo". Pertanto, il pensiero postmoderno si presenta come una continuazione dell'Illuminismo e del suo rifiuto della metafisica in nome del nominalismo. Ma come è già accaduto per l'Illuminismo originario, anche tutto il pensiero postmoderno - che si ritiene del tutto disilluso e "laico" - abbandona solo la metafisica classica a beneficio di una "metafisica reale", cioè a dire la metafisica del lavoro e del capitale, che domina questo mondo sublunare. Nella società di mercato, la separazione fra un mondo sensibile ed un mondo sovrasensibile è scesa dal cielo in terra: secondo la formula di Marx, la merce, unità di valore d'uso e valore astratto, è nel contempo sensibile e sovrasensibile. E come nella metafisica, è questo lato astratto, "sovrasensibile", ad essere essenziale, mentre il lato concreto, sensibile, ne è solo la forma esterna, il solo substrato materiale e visibile. Per il platonismo, come per il cristianesimo, l'uomo di carne ed ossa non è altro che una copia del suo modello depositato in cielo; per la merce, l'utilità reale della merce ed il lavoro esistono solo come "forma di rappresentazione" del valore e del lavoro astratto. Marx riassume questa situazione nel termine di "feticismo della merce", il quale indica altresì il carattere surrettiziamente religioso della società moderna. Il feticismo della merce non è una mistificazione, ma una realtà nella quale l'essere umano viene governato dagli idoli che egli stesso ha creato. Così, una forma di verità metafisica, perfino religiosa, costituisce, ancora e sempre, il tessuto della società. Ma, paradossalmente, la denuncia di questa metafisica abusiva, oggi viene accusata di essere un "grande racconto" metafisico. Dunque, un relativismo che è uno pseudo-relativismo che non mantiene la sua promessa principale, quella di difendere il particolare contro la totalità, il dettaglio contro l'universale. Difatti, trasforma questa difesa in qualcosa di estremamente difficoltoso, dal momento che la totalità non può essere né nominata né criticata e passa per essere un'invenzione di coloro che la criticano.
La capacità di comprendere la verità potrebbe essere definita come la capacità di andare oltre le apparenze ed i fenomeni, e di arrivare all'essenza delle cose. La scomparsa del concetto di "verità" ha preso la forma di un culto della "finzione", del "discorso", del "simulacro" e del "virtuale". Tutto si riduce alle costruzioni e alle definizioni e si nega la differenza fra fenomeno ed essenza. La polemica contro il concetto di essenza ha sempre caratterizzato il pensiero positivista, empirista. Il trionfo postmoderno, in questa polemica, è legato solamente ad un'evoluzione del pensiero? Oppure, al contrario, possiamo indicare che in realtà c'era una "essenza", che ha cominciato a sparire? La risposta può essere "sì", se per "essenza" intendiamo "sostanza": quello che rimane inalterabile dopo le modifiche di superficie, quelle che riguardano solo ciò che in termini filosofici vengono chiamati "accidenti". Quale potrebbe essere questa sostanza che è venuta meno? Possiamo dire che la vita sociale è una "sostanza"? Una sostanza che non sarebbe il riflesso di una sostanza trascendente, ma che avrebbe la sua origine nella vita umana stessa? Ogni società deve organizzare la sua sopravvivenza materiale per mezzo del suo "interscambio organico" con la natura; ma solo nella società capitalista moderna le attività che garantiscono questo interscambio con la natura, prendono la forma di "lavoro": questo non è più rivolto alla soddisfazione delle necessità, ma, in quanto lavoro astratto, è solo un dispendio di energia umana indifferente a qualsiasi contenuto. Il suo unico obiettivo è quello di far crescere la sua quantità, trasformare cento euro in centodue euro. La produzione di valore d'uso non è altro che una mediazione, la parte sporca, ma indispensabile, per questo aumento tautologico del valore e, quindi, del denaro. La "sostanza" del valore e, perciò, quella del capitale in quanto valore accumulato, è il lavoro astratto che ho prima menzionato. Il valore d'uso ed il valore concreto che essi hanno creato non sono altro che "accidenti" multipli e differenziati di quella sostanza unica ed omologa che è il valore astratto. (Ripeto, non si tratta di due tipi distinti di lavoro, ma dello stesso lavoro considerato ora come un risultato concreto, ora in quanto dispendio indifferenziato di tempo, che ne forma il lato astratto). Non si tratta di un'operazione mentale, di una maniera di vedere le cose, ma di un'astrazione ben reale che domina il concreto. Lo vediamo, nella vita quotidiana, nella supremazia del denaro su tutto il resto. Tuttavia, questa situazione non è naturale, ontologica o eterna, ma è caratteristica della società capitalista, e solo di essa. Questa società in cui continuiamo a vivere, dunque, ha una sostanza, anche se essa non è altro che la proiezione della potenza sociale sulle creazioni umane erettesi ad esseri indipendenti: le merci. Questa sostanza costituisce il feticcio della società moderna, alla stessa maniera in cui gli dei, o i totem, o la terra, costituivano dei feticci in altre epoche.
Il concetto marxiano di sostanza come proiezione feticista e come astrazione reale si situa al di là della distinzione tradizionale fra essere ed apparenza, tra la concezione metafisica della sostanza, come realtà ontologica e insuperabile, e la sua negazione nominalista che ci vede solamente un inganno dello spirito, che basterebbe solo riconoscere come tale per farla scomparire. Questa sostanza viene creata costantemente dall'attività umana, però sotto una forma spettrale che la fa sfuggire al controllo umano, facendola apparire come un auto-movimento delle cose. Ciò nonostante, tale sostanza, proprio perché è creazione degli uomini, dipende da loro ed ha la particolarità di poter diminuire. Il sistema capitalista vuole solo l'aumento di questa sostanza, il valore, e lo fa facendo lavorare il più possibile. Ed anche così, il sistema capitalista è andato sostituendo, fin dai suoi inizi ed in maniera crescente, questa "sostanza" che lo fa vivere, con la tecnologia che non crea valore. La concorrenza spinge ciascun proprietario di capitale a dotare la forza lavoro che ha comprato, di un massimo di tecnologia, per produrre il più possibile; sostituendo così il lavoro vivo con la tecnologia. Ma così facendo, contribuisce a ridurre l'uso globale del lavoro vivo, che è l'unica fonte di valore (e, perciò, di plusvalore, cioè a dire, di profitti). Tutta la storia del capitalismo è la storia di questa caduta della massa di valore (e non solo del famoso saggio di profitto) e dei conseguenti tentativi di compensare la diminuzione del valore in ciascuna merce particolare, mediante l'aumento della massa di merci prodotte. La sostanza del capitale, il risultato della trasformazione di energia umana nella categoria sociale del valore, si espone, quindi, ad un esaurimento ad ogni avanzamento tecnologico. Questo limite interno che il capitale porta in sé fin dai suoi inizi sembra sia stato raggiunto negli anni 1970. L'abbandono della conversione in oro, da parte del dollaro, annuncia la fine della "sostanza": a partire da allora, il denaro smette di essere una rappresentazione della sostanza-lavoro, frutto della trasformazione riuscita, di lavoro vivo in lavoro morto, cioè a dire in capitale. Da allora in poi, il denaro si basa esclusivamente sulla garanzia data dallo Stato. Lo si può aumentare anche in assenza di una valorizzazione riuscita del lavoro, quindi in assenza di un beneficio reale; e se questo aumento miracoloso del denaro, sotto forma di una stampa eccessiva di biglietti di banca, è la causa dell'inflazione, in quell'epoca, il suo aumento ancora più considerevole sotto forma di valori borsistici ed immobiliari non sembra aver conosciuto limiti. Fu l'inizio della famosa finanziarizzazione: il trionfo del credito - dal momento che non esiste - su una scala mai vista nella storia, la moltiplicazione del denaro senza che fosse coperto da un'accumulazione reale del capitale. Quello che Marx chiama "capitale fittizio".
Da alcuni anni, è di gran moda attribuire la responsabilità della crisi globale del capitalismo alla gigantesca torre di Babele delle finanze globali, o direttamente ai finanzieri. In realtà, è stato l'aumento esponenziale delle finanze che ha permesso di differire di varie decadi, la crisi del sistema del lavoro e del capitale, nascondendo per mezzo dei crediti, e del denaro fittizio, la sua mancanza reale di redditività. Se all'inizio degli anni 1970, ad ogni dollaro "sostanziale" - che rappresenta lavoro realmente effettuato - corrispondeva più o meno un dollaro fittizio, nel senso di un credito estratto dal dollaro sostanziale, oggi, secondo varie stime, ad ogni dollaro sostanziale corrispondono cinque, perfino dieci, dollari fittizi. Ci troviamo di fronte ad una vera e propria "desustanzializzazione" del denaro, diventato una finzione sociale. E nessuno dice che questo sia un problema unicamente economico: in una società nella quale, da almeno due secoli, il denaro è diventato il legame sociale principale, nella quale la soddisfazione di ogni ogni minimo desiderio passa per il denaro, la sua desustanzializzazione comporta una sorta di desustanzializzazione di tutta la vita.  
La relativizzazione e la virtualizzazione, la simulazione e la finzione, tanto deplorate e tanto esaltate nel corso di questi ultimi decenni, non hanno prodotto un background troppo immaginario, qualcosa che possa essere ridotto a mero "discorso", o a "rappresentazione". La simulazione ha funzionato così bene per tutto questo tempo perché tutti gli attori si tranquillizzavano a vicenda, assicurando che non c'era "verità", che non c'era "sostanza" e che le simulazioni avevano lo stesso gradi di realtà delle vecchie realtà. Ora, sembra che la sveglia abbia suonato ... Ma le mentalità, i comportamenti e gli atteggiamenti individuali e collettivi sono profondamente impregnati della simulazione. Se il capitalismo nella sua lunga fase ascendente, ha imposto il principio di realtà contro il principio di piacere, creando così la nevrosi classica frutto della repressione del desiderio, nella sua fase attuale si è liberato dei riferimenti alla realtà e alla verità, per soccombere ad un narcisismo generalizzato, in senso psicoanalitico, che effettivamente può ancora stimolare un qualche consumo, ma che però renderà ancora più difficile qualsiasi uscita dal disastro. Tuttavia, la scomparsa della nozione di verità, anche nella vita quotidiana, facilita di molto quei comportamenti necessari per adattarsi ad un mondo in mutazione permanente. Come dice lo psicanalista francese Jean-Claude Liaudet, nel suo libro "L'impasse narcisista del liberalismo": "Il perverso instaura uno statuto specifico di fede: io so che non è vero, ma ha tutta l'aria di esserlo. Una credenza, propria della nevrosi liberale, che si distingue per la fede in un grande Altro. E che dà alla verità un nuovo statuto: in un sistema simbolico, la verità è un ideale, ha un carattere trascendente; nel sistema di negazione della nevrosi liberale, la verità è sempre relativa, circostanziale, parziale, rivedibile, addirittura opportunista; e qualsiasi fermo posizionamento  a favore di una verità che si impone su di noi, viene considerato come totalitario. Di qui, la mentalità postmoderna, imbevuta di un'incertezza fondamentale che permette ogni cinismo - fino al punto che si potrebbe pensare che è proprio questo l'obiettivo". Effettivamente, l'indebolimento del Super-io, di Edipo e dell'ordine simbolico tradizionale, che dovevano essere tutti vettori di emancipazione, alla fine hanno avuto conseguenze abbastanza inattese per il progetto di emancipazione.
Ho appena menzionato il concetto di emancipazione. Questo concetto ha sostituito, in effetti, quasi dovunque, la vecchia idea di rivoluzione. E' vero che l'emancipazione è un termine così vago che ciascuno può trovarci quello che vuole. Cosa ne è stato, dunque, nell'epoca della desustanzializzazione, della rivoluzione nel senso forte, della rottura violenta dell'ordine esistente, presente dalla Grande Rivoluzione francese fino alla rivoluzione iraniana del 1979? Attribuire la sua assenza unicamente al "tradimento degli intellettuali" sarebbe un spiegazione troppo banale. La rivoluzione moderna è sempre stata concepita come una rivoluzione di lavoratori, come una liberazione del lavoro dai suoi sfruttatori. Quelle rivoluzioni non erano contro il capitalismo, ma lo aiutavano, sovente contro la volontà dei suoi attori, ad installarsi e ad evolversi nelle diverse regioni del mondo. L'obiettivo principale del movimento operaio era quello di far lavorare tutti. Adesso, il lavoro è un elemento secondario dentro l'apparato produttivo mondiale, ed il suo mantenimento come legame sociale incontra sempre più difficoltà. "La società del lavoro non lavora più" diceva Hannah Arendt già nel 1958. Da allora, le possibilità di accedere in maniera autonoma al mercato mondiale - che era l'obiettivo nascosto delle rivoluzioni nei paesi arretrati - si è definitivamente dissipato. Oggi, una rivoluzione in nome del lavoro non è più possibile. Ma, chiamiamola come più desideriamo, la necessità di una rottura con un mondo mancante di verità e di sostanza, non è scomparsa. Anche se va intesa come quel "freno di emergenza" di cui parlava Walter Benjamin.
* Intervento contenuto in "QUÈ SE N’HA FET DE LA VERITAT ? QUÈ SE N’HA FET DE LA REVOLUCIÓ ?" Giornate filosofiche - Barcellona 2010

Renzi: pensavo fosse il premier invece era un calesse di Andrea Scanzi, Il Fatto

Non era Crozza, anche se sembrava. Era quello vero, quello originale. Matteo Renzi in persona. La conferenza di fine anno è stata l’occasione giusta per esaltare la prossemica d’ordinanza: faccette caricaturali, sguardo all’insù tipo Verdone e risatine di chi si crede Lenny Bruce ma pare piuttosto un Panariello in diesis assai minore. Protetto da domande quasi sempre accomodanti (mancava solo “Preferisce pandoro o panettone?”), Renzi ha dispensato una volta di più ottimismo, che come noto è il profumo della vita.
Per l’occasione aveva i capelli scompigliati, quasi a lasciare intendere che lui di notte non organizza cene eleganti ma si occupa di massimi sistemi e Norman Atlantic. L’effetto scenico è stato un po’ diverso, al punto che un satirico come Luca Bottura ha twittato: “Vorrei fare a Renzi la critica politica che lo infastidirà di più: ha un sacco di capelli bianchi nuovi e non li lava da qualche giorno”. L’apice politico è stato riassunto in una frase che ha saputo inebriare le masse: “Voglio cambiare l’umore degli italiani. La parola del 2015 sarà ritmo”. E tutti, subito, a chiedersi se ci attenda un anno di merengue, rumba o meneito: è da questi particolari che si giudica uno statista.
Da questi e dalle supercazzole regalate come fossero grandine d’estate sulle vigne: “Dobbiamo cambiare il paradigma economico dell’Europa” (tapioca a destra), “Punire chi sbaglia” (prematurata a sinistra), “I prossimi 12 mesi saranno decisivi” (come fosse Antani), “Meglio arroganti che disertori” (con scappellamento tarapìa tapiòco) e il misericordioso “Se ce la facciamo ha vinto l’Italia, se non ce la facciamo ho perso io”. Frase, quest’ultima, che ha ispirato su Twitter la replica greve del comico Pinuccio: “Renzi: ‘Se non ce la facciamo ho perso io’. Ma ce la prendiamo in culo noi”. Particolarmente entusiasmante la fenomenologia sui gufi: “Non penso che l’Italia sia spacciata, come pensano gufi e non solo”. Renzi si è qui doviziosamente dilungato, con capacità analitica assai puntuta: “Non voglio lasciare l’Italia a chi parla male dell’Italia”. Renzi ha alfine risolto il più annoso dei quesiti: sì, ma chi sono esattamente i “gufi”? Marmorea la risposta: “Gufo è chi parla male dell’Italia, non del governo”. Amen.
Qua e là, avvincenti Sticazzi-Moments, per esempio quando Renzi ha fatto sapere che adora la serie tivù Newsrooom. Il Presidente del Consiglio, disgraziatamente, a un certo punto ha detto la verità: “Mi vanto di avere fatto meno leggi di tutti”. Gli è uscita come un rigurgito, come un riflusso esofageo mal trattenuto. Resosi conto dell’inciampo, Renzi ha prontamente stigmatizzato l’oltraggioso atteggiamento dei siti da lui compunsati ogni minuto, forse per rubacchiare idee o forse per vedere se il suo nome era diventato Trending Topic: avevano appena osato rilanciare che “Renzi si vanta di avere fatto poche leggi”, anche se lui ovviamente intendeva tutt’altro. Proprio come capitava quando c’era (e c’è) Silvio. Esortando la plebe ad avere fuducia nel futuro, come lui stesso ripeteva al predecessore Letta, Renzi ha parlato tanto per dire pochissimo. Quando – per disgrazia – arrivava una domanda appena insidiosa, lui sparacchiava la palla in tribuna.
Fortunatamente le amate citazioni non sono mancate. Nei primi libri citava i Righeira, nei primi discorsi a Camera e Senato i Jalisse e Gigliola Cinquetti. Ieri, non potendo scomodare alcuni dei suoi capisaldi culturali – Jerry Calà, Minnie e Jimmy Il Fenomeno – ha riesumato “Indovina chi”. Roba forte, mai però come l’ardito riferimento filmico: “Mi sento come Al Pacino in Ogni maledetta domenica”.
 Una citazione appena consunta e scontata, ma retorica e banalità sono cifre che il renzismo applica pure al citazionismo. Accadde anche quando la nota statista Boschi scomodò Fanfani per citare una frase – “Le bugie non servono in politica” – così debole che sarebbe venuta in mente anche alla Picierno (forse). E’ stata comunque una conferenza stampa bellissima. Per certi versi ha ricordato Pensavo fosse amore invece era un calesse. Massimo Troisi, nel film, viene lasciato da Francesca Neri. Gli amici gli dicono che lei adesso sta con un uomo coraggioso e bellissimo, dunque non c’è speranza. Troisi non si arrende e scopre che il rivale è Marco Messeri, non proprio un adone, e di professione fa il giudice di sedia in gare tra barbieri: non esattamente un eroe. Quando però Troisi lo fa notare, tutti lo trattano come un invidioso. Come un rosicone, come un gufo. Ecco: ieri si è nuovamente vissuta questa sensazione di tragicomica sbornia collettiva. E purtroppo Troisi non c’era.

Liguria 2014: Scajola batte Pertini di Ferruccio Sansa, Il fatto quotidiano

Stella’, indica la freccia che punta a sinistra. ‘Palazzo dello sport di Albisola’, quella a destra. È questa che devi seguire, devi andare all’appuntamento elettorale per Raffaella Paita candidata alle primarie liguri per le elezioni regionali Pd. Poche centinaia di metri e ti trovi davanti i manifesti, gli striscioni, i simpatizzanti mezzi congelati. Quell’atmosfera di attesa di tanti incontri elettorali. Eppure tu, con il taccuino e la matita in tasca, senti che stai per assistere a un appuntamento particolare: stasera sarà ufficialmente sdoganata l’alleanza tra il Partito Democratico e il centrodestra scajoliano.

paita-liguria
Un’unione di fatto che si conosceva da anni, eppure ti fa un certo effetto vedertela davanti alla luce del sole. Anzi, dei riflettori: eccola Raffaella Paita, con quell’energia un po’ elettrica di chi arriva esausto all’ultimo appuntamento elettorale. Con i toni sicuri, però, di chi sente la vittoria a portata di mano. Accanto a lei c’è Franco Orsi, prima dc, quindi Forza Italia, infine Pdl. A lungo sostenitore doc di Claudio Scajola, ma impegnato anche nelle campagne elettorali di Luigi Grillo (entrambi i leader liguri del centrodestra sono stati arrestati quest’anno). Il curriculum perfetto. Ma non è solo Orsi. C’è mezzo centrodestra savonese sugli spalti, consiglieri comunali Pdl seduti accanto a vecchi militanti Pci. C’è il capogruppo del Pd indagato per lo scandalo dei rimborsi di soldi pubblici a pochi passi dall’ex esponente di centrodestra diventato assessore regionale di centrosinistra.
Tutti a sostenere Paita. Certo, sono mesi che il centrodestra scajoliano sta salendo sul carro Pd. Prima Pierluigi Vinai, già candidato sindaco di Genova con il Pdl e il sostegno della Curia di Bagnasco. Poi ecco Roberto Avogadro, ex sindaco di Alassio (centrodestra) che sostiene Paita. Ma erano solo i primi frammenti di una valanga. Pochi giorni fa arriva un sostenitore che suscita clamore. Quell’Alessio Saso, oggi Ncd, così definito dagli stessi vertici Pd: “Oltre a essere un ex esponente di An, Saso è indagato (voto di scambio, ndr) nell’inchiesta Maglio 3 sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nel ponente ligure”.
Ma oggi è diverso. Orsi è un pezzo grosso in grado di spostare centinaia di voti. Perché con sé porta i suoi uomini. Soprattutto, però, tutto avviene ufficialmente. È una vera e propria alleanza. Orsi lo sa che l’occasione è importante e delicata, dovrà pesare le parole, dovrà convincere: “Sono qui senza imbarazzi”, esordisce, “gli schieramenti si stanno rivoluzionando. Ormai è difficile pensare in termini di appartenenza. La politica e gli schieramenti non sono un fine”. Poi tocca al sindaco di Varazze (Pd), che aiuta a capire che cosa abbia cementato la Santa Alleanza: “La politica deve uscire dai partiti, sentire persone fuori dai partiti… con questa maggioranza di centrosinistra abbiamo avuto rapporti ottimi, ci hanno ascoltato, hanno risolto i nostri problemi, ci hanno dato tanti soldi”. Più chiaro di così…
Infine ecco la candidata con il tono di chi si sente vicina al traguardo. Gli scajoliani imbarcati nella sua compagine? “Ridicolo”, preferisce parlare di “alleanza tra centrosinistra e centro moderato”. Poi aggiunge: “Criticano me per questo, e non ricordano che Scajola ha pubblicamente dichiarato che preferirebbe il mio avversario Sergio Cofferati”. Di male in peggio, verrebbe da dire. Chissà se l’affermazione di Scajola era sincera o se rispondeva, come pensa qualcuno, a una sottile strategia.
Poco importa. Dopo oltre mezzo secolo è successo: un patto di Albisola, dopo quello del Nazareno. A Roma Renzi e Berlusconi. In Liguria burlandiani ed ex scajoliani (pidiellini, leghisti, duri e non sempre puri di destra). Dopo decenni una rivoluzione copernicana nella politica ligure. Sì, nella terra dei partigiani, delle Medaglie d’Oro alla Resistenza. Nella Liguria operaia e comunista.
Tutto finito. Te ne accorgi perché nel Palazzetto dello Sport una buona parte della folla numerosa applaude e amen se le primarie (e quindi l’esito finale delle elezioni) saranno decise dagli ex luogotenenti di Scajola. Te ne accorgi dal silenzio del Pd ligure. Molti tacciono, sembrano spariti nel nulla per riemergere a giochi fatti. Altri, che in privato scagliano invettive di fuoco contro Paita e i suoi nuovi amici scajoliani, in pubblico si fanno timidi come pulcini.
Allora esci dal Palazzetto dello Sport e ritorni a quel bivio: ‘Stella’, indica la freccia a sinistra. Proprio a sinistra. E dopo una manciata di chilometri arrivi in un paese mezzo deserto, davanti a una casa grigia, squadrata. Qui visse Sandro Pertini, il presidente della Repubblica partigiano. Chissà che cosa ne direbbe.
Ma stasera, 29 dicembre 2014, forse è meglio che non ci sia.

Papadimoulis: «Un voto per cambiare tutta l’Europa»




Intervista. Il vicepresidente del Parlamento europeo, capogruppo degli europarlamentari di Syriza: nella Ue vogliamo essere uno Stato membro paritario con pieni diritti, come gli altri
Syriza vin­cerà le ele­zioni per cam­biare la Gre­cia e l’Europa, sostiene con­vinto il vice­pre­si­dente del Par­la­mento Euro­peo Dimi­tris Papa­di­mou­lis, che si pre­para per dare bat­ta­glia elet­to­rale e rom­pere il cer­chio dell’austerità in Europa. Papa­di­mou­lis crede che la vit­to­ria di Syriza offrirà una grande pos­si­bi­lità alla Gre­cia e ai paesi della Ue col­piti dalla crisi per cam­biare gli equi­li­bri in Europa. Dimi­tris Papa­di­mou­lis, è vice­pre­si­dente del Par­la­mento euro­peo, capo­gruppo degli euro­par­la­men­tari di Syriza, con una lunga espe­rienza anche nel par­la­mento greco, dove è stato por­ta­voce di Syriza. Pro­viene dai gio­vani dei comu­ni­sti demo­cra­tici del Par­tito Comu­ni­sta Greco e ha rap­pre­sen­tato per anni Syna­spi­smos nel par­la­mento greco e nel Par­la­mento Euro­peo fino alla nascita di Syriza, di cui è diven­tato uno dei suoi più noti esponenti.
Come valu­tate il risul­tato della terza votazione?
Era quanto ave­vamo pre­vi­sto. La sfida ora è di andare alle ele­zioni con una vera con­trap­po­si­zione poli­tica tra i pro­grammi e i pro­getti per il futuro del paese. Senza il mer­ca­tino della paura e l’allarmismo, senza un clima poli­tico da guerra civile, per­ché tutto que­sta pro­voca danni al paese e la sua eco­no­mia. Noi abbiamo lavo­rato sem­pre per unire le forze demo­cra­ti­che e il nostro popolo. Non vogliamo divi­sioni. Il governo è stato costretto ad acce­le­rare per l’elezione del pre­si­dente della repub­blica per­ché altri­menti doveva far votare un altro pac­chetto di misure di auste­rità. Sape­vano molto bene che dopo le tre vota­zioni in par­la­mento dove­vamo andare alle urne. E loro sanno bene che per­de­ranno le ele­zioni. Per Syriza si pre­senta una vera sfida per cam­biare il nostro Paese e non solo. Per que­sto serve una grande alleanza elet­to­rale con un pro­gramma rea­li­stico, effi­ciente e prag­ma­tico. Syriza è coe­rente con tutto quanto ha detto e fatto. Non fa alleanze occa­sio­nali. Gli ultimi anni abbiamo visto di tutto, Nuova Demo­cra­zia e Pasok gover­nare insieme, un primo mini­stro venuto dalle ban­che senza nes­suna legit­ti­mità e una piog­gia di Memo­ran­dum e decreti fuori da ogni legit­ti­mità demo­cra­tica e parlamentare.
Syriza rap­pre­senta un peri­colo per l’Europa?
L’obiettivo prin­ci­pale del nostro pro­gramma è far diven­tare la Gre­cia uno stato mem­bro pari­ta­rio con pieni diritti den­tro l’Unione Euro­pea e den­tro l’eurozona. Un paese dove ci sarà in vigore lo stato di diritto e la giu­sti­zia sociale, con una cre­scita eco­no­mica senza que­sta atroce disoc­cu­pa­zione e la galop­pante reces­sione. Il pro­gramma di Syriza è pieno di pro­po­ste per cam­biare la situa­zione, pieno di pro­po­ste per vere riforme. Il governo uscente ricorre ad un allar­mi­smo peri­co­loso. È ine­vi­ta­bile che per­de­ranno le ele­zioni. Le pote­vano per­dere con dignità e senza cer­care di fare ulte­riore danno al nostro paese.
Le nostre pro­po­ste potranno aiu­tare l’Europa a rial­zarsi in piedi, per­ché dob­biamo risol­vere la que­stione del debito. Ora in tanti ammet­tono che la sola pro­po­sta pos­si­bile è la Con­fe­renza Euro­pea per il debito. Quando l’avevamo pre­sen­tata sem­brava che ave­vamo pro­po­sto la fine del mondo. L’unica pro­po­sta cre­di­bile per sal­vare l’Europa dal bara­tro è la nostra. Il voto dei greci sarà anche un voto per sal­vare l’Europa e risol­verà parte dei pro­blemi di tutti i paesi del Sud Europa com­presa l’Italia.
I
son­daggi dicono che Syriza vin­cerà le ele­zioni. Che dirà il giorno dopo all’Unione Europea?
Il governo che avrà come asse prin­ci­pale Syriza si muo­verà per cer­care rispo­ste effi­cienti e rea­li­sti­che a livello euro­peo, lato debito e poli­tica fiscale. Vogliamo met­tere ordine nelle nostre finanze e vedere la nostra eco­no­mia tor­nare a cre­scere. Obbiet­tivi impos­si­bili da rag­giun­gere quando il debito pub­blico vola al 180% del Pil. In tutti i paesi euro­pei che si sono appli­cate le misure di auste­rità sono aumen­tati i debiti e si è distrutta l’economia. Abbiamo biso­gno di far ripar­tire la nostra eco­no­mia e per que­sto ser­vono inve­sti­menti pub­blici. Per que­sto il patto di sta­bi­lità rap­pre­senta un cap­pio al collo dei popolo euro­pei.
Il pre­ce­dente governo era impe­gnato ad avere un sur­plus che doveva arri­vare al 4,5% in media per i pros­simi anni. Ma per avere un sur­plus di que­ste dimen­sioni in que­sta dram­ma­tica situa­zione signi­fi­che­rebbe di distrug­gere com­ple­ta­mente la nostra società. Dob­biamo libe­rarci da que­ste impo­si­zioni e tro­vare il modo di creare lavoro vero e ben remu­ne­rato, ridi­stri­buire la ric­chezza e lavo­rare per la coe­sione sociale della nostra società. Anche que­sti non sono solo pro­blemi della Gre­cia ma di tanti altri paesi europei.
Lei è anche vice­pre­si­dente del Par­la­mento euro­peo. Crede che una vit­to­ria di Syriza può avviare un cam­bia­mento in Europa tanto nei sin­goli paesi quando nelle isti­tu­zioni euro­pee?
Durante la cam­pa­gna per le ele­zioni euro­pee abbiamo visto un gran­dis­simo inte­resse da parte dell’opinione pro­gres­si­sta euro­pea per la situa­zione in Gre­cia e la vit­to­ria di Syriza nelle ele­zioni euro­pee. Con Syriza à nata una grande spe­ranza e noi abbiamo il com­pito di far diven­tare que­sta spe­ranza una con­creta realtà per cam­biare le con­di­zioni di vita dei nostri cit­ta­dini.

Come valu­tate la mobi­li­ta­zione di tanti ita­liani a favore di Syriza o per­lo­meno del diritto del popolo greco di sce­gliere libe­ra­mente il suo governo senza le pres­sioni e i ricatti?
Hanno visto giu­sto tutti quelli che hanno fir­mato l’appello «Cam­biar la Gre­cia — Cam­biare l’Europa», per­ché hanno una con­ce­zione glo­bale per la dina­mica della crisi e una visione soli­dale per risol­vere i pro­blemi den­tro l’Unione Euro­pea. Rap­pre­sen­tano tra l’altro una gran parte delle forze migliori dell’Italia. A molti di noi ha ono­rato il soste­gno dei cit­ta­dini ita­liani, di scrit­tori come Andrea Cami­leri o medici come Gino Strada. Que­sto ha molto signi­fi­cato per un paese in piena crisi uma­ni­ta­ria e con una parte della sua popo­la­zione senza nes­suna assi­stenza sani­ta­ria gra­zie alle poli­ti­che di auste­rità. Siamo con­tenti che tante per­sone che lavo­rano al mani­fe­sto, come la sua diret­trice, Norma Ran­geri, abbiano fir­mato l’appello.
In Syriza, dall’inizio, abbiamo detto che non lasce­remo nes­suno solo nella crisi. Noi abbiamo il com­pito di unire tutto quanto viene diviso da que­ste dram­ma­ti­che poli­ti­che di auste­rità. E cer­chiamo di farlo nel modo migliore, con la soli­da­rietà a livello nazio­nale e a livello inter­na­zio­nale. Solo così potremo rico­struire l’Europa con i suoi popoli. ll lea­der di Pode­mos Pablo Igle­sias ha detto recen­te­mente, e ha ragione, che le ele­zioni in Spa­gna alla fine dell’anno par­ti­ranno dalla Grecia.

lunedì 29 dicembre 2014

Geostrategia, petrolio, economia a pezzi di Alessandro Fugnoli

Geostrategia, petrolio, economia a pezzi
Sapere come vedono le cose i finanzieri, in un mondo finanziarizzato, ha la sua dannata importanza. Questa ricostruzione della recente "guerra del prezzo del petrolio", dell'intreccio tra ambizioni statunitensi, resistenza russa, mosse saudite è decisamente fuori tono rispetto alla propaganda dei quotidiani mainstream, ormai ridotti al ruolo di "fabbricanti di nemici".
Non sorprendentemente, secondo noi, nella visione del mondo dei finanzieri non ci sono "demoni", "mali assoluti" e mostri d'ogni tipo. Ma solo agenti economico-politici con interessi razionali, consapevoli dei reciproci rapporti di forza e delle finestre di opportunità che ogni piccola crisi - all'interno di quella generale del modo di produzione capitalistico, per cui non hanno nessuna ricetta vera - inevitabilmente apre.
Interessante quindi anche per chi, a sinistra, non ne può più di ragionare per "complotti" e sente il bisogno di fondare le proprie personali considerazioni su basi un po' più realistiche.
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Mercati: la geopolitica ritorna prepotente sulla scena
di Alessandro Fugnoli, Il Rosso e il Nero, Settimanale di strategia (Kairos Partner)
È andata così, forse. Il petrolio era da tempo strutturalmente debole. Stava a 100 dollari perché il mercato spot, quello delle transazioni fisiche per consegna immediata, era ancora in equilibrio. Non c’erano, e non ci sono nemmeno adesso, quantità rilevanti di offerta invenduta. Non c’era, cioè, un accumulo abnorme di greggio nei magazzini di Singapore, Rotterdam o Houston. Quello che c’era, e ora c’è un po’ meno, era una quantità eccezionalmente elevata di petrolio che si preannunciava in arrivo per i prossimi mesi e anni. Lo shale oil americano e canadese in continua accelerazione, il Kurdistan diventato padrone delle sue risorse, la Libia che riprende a produrre, l’Iraq che galleggia sul greggio (nonostante l’Isis, che in ogni caso si finanzia con il petrolio delle zone che controlla e quindi produce più che può). Di poco più distanti, il petrolio e il gas delle acque profonde del Golfo di Guinea e al largo del Brasile e della costa orientale africana, una produzione potenziale molto ampia. E poi il Messico che riapre ai privati ed è pronto ad aumentare la sua produzione. E l’Argentina. E l’Iran a un passo dalla revoca delle sanzioni. E, sullo sfondo, l’Artico russo e la Groenlandia. E in più la concorrenza crescente del carbone, talmente abbondante che molti paesi, l’America tra questi, ne boicottano in tutti i modi la crescita. Quella del gas naturale, sempre più disponibile non solo negli Stati Uniti ma anche in Russia e in Australia. Quella delle rinnovabili, passate di moda ideologicamente ma comunque in espansione. E perfino quella del nucleare dalle nove vite, in via di clamoroso rilancio in Giappone e in forte espansione in Cina, in India e nella stessa Arabia Saudita. I teorici del Peak Oil, che ebbero il loro ultimo momento di gloria nel 2008, non avevano sbagliato anno nella loro previsione di una crisi energetica incombente e fatale per la nostra civiltà. Avevano probabilmente sbagliato secolo.
Per non parlare della domanda. Sempre in crescita nei paesi emergenti, certo, ma stabilizzata e in strutturale declino in Europa e in America.
Meglio agire subito, deve avere pensato l’Arabia Saudita. Meglio buttare giù violentemente il prezzo adesso, prima che sia troppo tardi. Meglio convincere tutti che buona parte degli investimenti programmati nell’energia per i prossimi anni si riveleranno fallimentari o comunque antieconomici. Tagliate i vostri programmi finché siete in tempo. Liquidate le vostre società che estraggono gas o petrolio, restituite il capitale agli azionisti o dedicatevi ad altre attività. Questo shock, accolto all’inizio con incredulità e sufficienza da molti produttori, ha dovuto essere violento e dovrà essere prolungato per risultare convincente. Finché ci sarà, come c’è ancora, l’idea che i prezzi del greggio si riprenderanno presto, nessuno cancellerà i suoi progetti (e la ripresa dei prezzi sarà solo temporanea).
Ad accelerare la decisione saudita ci sono state anche considerazioni strategiche di natura geopolitica. La casa di Saud è consapevole della sua fragilità e vive nel costante terrore di essere estromessa dal potere da un militare nasserista, qaidista o legato alla Fratellanza Musulmana o all’Isis. Teme anche rivolte fomentate dall’Iran dei suoi cittadini sciiti. Il caos yemenita è del resto un monito costante per Riyadh. L’idea di un’America troppo autosufficiente nell’energia e quindi sempre più indifferente ai destini del Medio Oriente (e sempre più vicina all’Iran) proprio nel momento in cui l’Isis consolida il suo potere e pianifica di espanderlo verso sud è ancora più preoccupante della debolezza strutturale del greggio. Visti dalla Casa Bianca, il panico saudita e il crollo del greggio sono stati vissuti come un’opportunità da sfruttare. Da una parte la possibilità di infliggere un colpo durissimo alla Russia, di tenersi definitivamente l’Ucraina, di eliminare il chavismo dal Venezuela e dall’America Latina, di ammorbidire ulteriormente l’Iran, di confermarsi iperpotenza, di chiudere la presidenza Obama con la benzina a metà prezzo e una ripresa dei consumi e della fiducia. Dall’altra, come prezzo da pagare, un rallentamento dell’espansione nell’estrazione di gas e petrolio non convenzionali (e un altro colpo al carbone) negli Stati Uniti. Rallentamento che va a colpire solo stati repubblicani e avvantaggia, con il gasolio da riscaldamento a basso prezzo, soprattutto stati democratici. Rallentamento che comunque non compromette l’espansione inarrestabile del settore energetico americano.
La Russia è la grande vittima di quello che sta accadendo. L’America, nei giorni scorsi, ha accarezzato l’idea di fare saltare Putin e di fare tornare la Russia ai tempi di Eltsin, quando era inoffensiva e in bancarotta. Putin ha agito in modo razionale, arretrando significativamente ma tracciando una linea da non superare. Senza troppo clamore ha congelato la situazione militare in Ucraina e fatto arretrare le forze filorusse. Sul piano più importante, quello politico, ha cercato di presentare la Russia non come un antagonista dell’Occidente ma come un mediatore. Non vogliamo, ha detto Lavrov a Kerry, essere per forza un alleato della Siria, dell’Iran, di Hizbullah e del Venezuela, vogliamo solo essere un mediatore tra questi e gli Stati Uniti. Anche sull’Ucraina ci proponiamo in questo ruolo e, dopo la Crimea, non vogliamo annettere più niente. Chiediamo solo che la Nato non entri nel paese e un po’ di autonomia per i russofoni.
D’incanto la pressione occidentale si è arrestata. La campagna sul default russo imminente e sulla disperata e controproducente difesa del rublo è cessata. Putin si lecca le ferite ma è ancora in piedi. Spingere la Russia nel precipizio, per l’Occidente, avrebbe significato un’onda d’urto di ritorno fatta di vero default russo e recessione europea. Ancora peggio, al posto di Putin sarebbe potuto arrivare un nazionalista o un militare pronto a sfoggiare, nella disperazione, il suo arsenale nucleare. Natale tranquillo, dunque, con l’ulteriore conforto, per i mercati, di un buffo e aggrovigliato comunicato del Fomc che si sforza di non dire nulla di nuovo ma lo fa con un tono gentile e premuroso. Terremo le mani libere, è il senso, ma sappiate che siamo sempre con voi. Ci si stava cominciando a preoccupare per la Grecia, ma l’arrivo della crisi russa ha ridimensionato, agli occhi dei mercati, il previsto flop di Samaras nella prima votazione per il presidente della repubblica.
Per ora si fa festa. Il 29 dicembre, il giorno dell’ultima e decisiva votazione greca, appare lontano. L’Europa sta scendendo in campo con grande pesantezza per spaventare gli elettori greci. Non vi faremo nessuno sconto, lasceremo fallire le vostre banche, perderete i vostri depositi come è successo a Cipro. E sarete anche isolati, nessuno piangerà per voi, Italia e Francia non faranno asse con Tsipras. L’Europa ha rinunciato a farsi amare e punta al farsi temere, cosa che spesso funziona di più.
Sul Qe europeo, l’opposizione di Weidmann si fa sempre più stizzita e sfiora l’isteria. Non va presa alla lettera, ma rende più probabile, in gennaio, un Qe composto da corporate bond che rinvii a marzo la parte sui governativi. Il 2015 si preannuncia movimentato, ma non così tanto da rovinare ulteriormente l’atmosfera di fine anno.

In difesa si perde sempre di Alessandro Gilioli


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In un’intervista a Federico Fubini di ‘Repubblica’, l’economista renziano Yoram Gutgeld anticipa la fase due: «Per ora non potevamo, ma l’anno prossimo vogliamo affrontare una legge di rappresentanza sindacale che permetta alle aziende di facilitare i negoziati di secondo livello. È fondamentale che un’azienda in crescita possa offrire di più ai suoi lavoratori». E – chiede Fubini – che una in crisi possa offrire di meno? «Anche, se serve a evitare i licenziamenti», risponde Gutgeld.
Et voila: questo accade, quando si gioca solo in difesa, quindi si prendono gol. Appena ne ha segnato uno, la squadra avversaria vuole farne subito un altro. Sicché, ottenuto il licenziamento facile, si parte verso lo svuotamento dei contratti nazionali: agli imprenditori più furbetti o avidi – non pochi, purtroppo, in Italia – non costerà fatica dirottare liquidità in qualche altra azienda o semplicemente altrove, piangere miseria e ottenere stipendi più bassi.
Il tutto in un Paese, uno dei pochi in Occidente, dove non esiste una legge che stabilisca la paga minima oraria: quindi l’asticella del salario potrà nel caso essere abbassata indefinitamente verso il pochissimo, sempre con l’alibi del “sennò dobbiamo licenziare”.
Questo accade, dicevo, quando si gioca solo in difesa. Quando ci si trincera a difendere pezzetti e pezzettini, “abbiamo evitato danni peggiori”, “abbiamo fatto passare un buon emendamento”, “abbiamo votato la legge altrimenti arrivava la Troika”.
Chissà se sono balle in cattiva fede o è stupidità congenita, antica attitudine alla mediazione al ribasso.
Di fronte al Jobs Act – lo capisce anche un ragazzino – la battaglia non andava condotta per “migliorarlo”, per “temperarlo”, ma spostando tutto il dibattito (politico, mediatico, parlamentare) su un altro piano: reddito minimo garantito universale, diritto alla riqualificazione professionale gratuita, salario orario minimo, introduzione del reato di molestie morali e di pressioni psicologiche di qualunque dirigente verso un sottoposto in qualsiasi organizzazione aziendale (unico deterrente al nuovo clima che da domani respireranno i dipendenti assunti con i nuovi contratti), norme severe contro i falsi tirocini e i falsi stage (lo sapete che il giorno di Natale, nella profumeria della stazione Termini, lavorava una ragazza con il cartellino con il nome di battesimo e la qualifica “stagista”? il giorno di Natale?). E molto altro, naturalmente: per esempio tasse di successione, che le nostre sono tra le più basse del mondo, e pure se da una riforma di tipo vagamente scandinavo si incassassero solo poche decine di milioni l’anno sarebbe comunque un bel segnale in controtendenza.
Ciccia.
Abbiamo la destra economica più vorace d’Europa: Sacconi, Ichino, Gutgeld. E la sinistra più incapace di risponderle. Sul piano culturale e politico, quindi anche su quello di mobilitazione delle persone, qua fuori. Persone che su temi come garanzie universali, salario orario minimo, diritto al rispetto dei subalterni nei rapporti di lavoro e proibizione delle forme più estreme di sfruttamento si sentirebbero con ogni probabilità molto più coinvolte rispetto al triste e perdente gioco in difesa per rendere un po’ meno violento il Jobs Act.

L’anno del Cazzaro di Alessandra Daniele, Carmillaonline




low-battery
Matteo Renzi è davvero come uno smartphone: dopo neanche un anno la batteria è già bollita.
Il reale bilancio del suo governo è identico a quelli dei precedenti governi Monti e Letta: meno lavoro, più tasse.
Tutto il resto è solo facciata.
Solo una pericolante catasta di promesse sempre più assurde e scadenze sempre più distanti, come le Olimpiadi del 2024 (!), una penosa sceneggiata fatta di slogan da televendita di frullaminchiate, pose ridicole da capoclasse, e battute da terza elementare su gufi, gattopardi, coccodrilli, canguri, sciacalli, liocorni, e facce da serpente.
Matteo Renzi è un cazzaro, e neanche uno dei migliori.
È il mago Casanova della politica italiana, ed è arrivato alla sconocchiata poltrona che occupa solo perché in tempi di crisi a chi gestisce davvero il potere politico-economico non interessa più occuparla direttamente, e preferisce piazzarci un prestanome, o meglio un prestaculo che ci si bruci le chiappe al suo posto.
Gli italiani si sono stancati presto della sobrietà, per tenerli buoni l’esangue Letta andava sostituito con qualcuno che ricominciasse a raccontargli le loro balle preferite: meno tasse per tutti, il Senato è un doppione, l’Italia è un grande paese, possiamo farcela se solo diamo agli imprenditori la possibilità di cacciare i fannulloni e assumere TE.
Contrapposte dai media alle quartine millenariste di Casaleggio, le slide renziane sono sembrate a molti italiani persino moderne.
Napolitano ha gestito da Camerlengo il turnover Letta – Renzi come aveva fatto coi due precedenti.
Questa è la funzione rimasta al presidente della repubblica nell’Italia post-democratica commissariata dall’UE: garantire che a prescindere dal risultato delle elezioni, e dei congressi dei partiti, il governo conseguente continui comunque a seguire le direttive BCE.

Infatti per il successore di Napolitano si fa il nome di Padoan, ministro dell’Economia, e resta in ballo anche quello di Prodi, nonostante ai berlusconiani faccia lo stesso effetto che fa il nome di Frau Blücher ai cavalli.
Il dopo-Napolitano potrebbe però diventare il dopo-Renzi.
Il Piccolo Cazzaro Fiorentino non s’è arrampicato in cima da solo come narra la leggenda, c’è stato installato come una batteria di ricambio, che dopo neanche un anno è già bollita.

L’anno del Cazzaro è agli sgoccioli. La mezzanotte s’avvicina.
Cosa succederà ai renziani quando il carro del vincitore sul quale sono saltati si ri-trasformerà in una zucca?