Sono trascorsi alcuni giorni, ma vale la pena di ritornare sulla
prima di Sant’Ambrogio a Milano, il 7 dicembre scorso, inaugurazione
della stagione del Teatro Alla Scala. Vale la pena di ritornarci, perché
si è trattato di un momento straordinariamente rivelatore,
paradigmatico, della situazione presente: italiana, ma non soltanto.
Quelle viste in Piazza della Scala, erano le due facce del Paese che
si fronteggiavano: i ricchi – protetti, come sempre, dalle “forze
dell’ordine” – che volevano “soltanto” godersi lo spettacolo e la cena
di gala, consapevoli e lieti di far parte degli happy fews, da
una parte; dall’altra, i “vecchi” e “nuovi” poveri, gli inoccupati, i
licenziati, i cassintegrati, i senza casa, i precari, che contestavano
proprio quel diritto a coloro che ritengono (giustamente) siano in gran
parte responsabile della propria miseria. Era la lotta di classe che si
affacciava ancora una volta nella sua dimensione elementare: scontro tra
chi ha e chi non ha, tra chi detiene potere finanziario, culturale,
politico, e chi è non solo deprivato di qualsiasi briciola di quel
potere, ma ne viene inesorabilmente allontanato ogni giorno di più.
I poliziotti fanno il loro mestiere, incuranti della realtà di essere
gente in miseria, assoldati per tenere in miseria altri poveri, come
notava Antonio Gramsci, molti decenni or sono.
Qui si aprirebbe una riflessione sul tema “forze dell’ordine”, che,
nel decennio Sessanta-Settanta, fu vivace e assai utile, ma che in
seguito, colpevolmente, è stata del tutto abbandonata, e gli effetti si
vedono. Le forze di polizia, nelle varie, troppo numerose e scoordinate
componenti, svolgono un lavoro ingrato, spesso in condizioni molto
difficili. Ma, difendendo lo Stato di diritto sono costrette a difendere
uno Stato ingiusto, un ordine che sempre più si disvela come classista.
E appunto il paradosso è che la composizione sociale degli agenti e dei
carabinieri (ancor più) è medio-bassa, e le loro ragioni sociali li
dovrebbero collocare dalla stessa parte della barricata dove sono i
proletari, i sottomessi, gli sfruttati. Invece per il loro ruolo
finiscono per stare dalla parte dei potenti e dei ricchi: che sono i
loro nemici naturali. E nell’ultimo quindicennio/ventennio, sempre di
più la ventata democratica che aveva percorso soprattutto la Polizia di
Stato negli anni Settanta, a seguito di quel dibattito cui facevo
riferimento, si è illanguidita fino quasi a scomparire.
Come dimostra una serie incessante di episodi, da Genova 2001 alle
uccisioni dei poveri Aldrovandi, Cucchi e così via, in un triste, troppo
lungo martirologio; senza citare poi gli episodi di corruzione che
coinvolgono le stesse forze che dovrebbero reprimerla. La sinistra,
soprattutto, ha avuto, fra i tanti torti, quello di lasciar cadere la
“questione polizia” che invece è una questione importante.
Ma torniamo a Milano. I politici, quest’anno, si sono dati alla
macchia, comprensibilmente: il presidente della Repubblica, credo, per
stanchezza (e forse anche un po’ di senso del pudore); il premier, sono
certo, per timore di proteste, quelle proteste che lo stanno
accompagnando come un’ombra. Nessun capo di governo degli ultimi anni,
Berlusconi compreso, ha subito altrettante contestazioni: dovunque lo
porti la sua agenda politica, che sia una villa da meeting finanziario, o
una fabbrica dove ostentare la sua familiarità col lavoro “vero”, Renzi
viene preso a pernacchie, fischi e peggio. Dunque, saggiamente, ha
evitato la Scala, dove invece ha troneggiato la inutile figura di Pietro
Grasso, presidente del Senato, un uomo rivelatosi al di sotto di ogni
pur prudente aspettativa.
A rappresentare il governo, c’era invece il figurino del ministro dei
Beni Culturali, Dario Franceschini, democristiano, bersaniano,
renziano, che sta alacremente lavorando per aziendalizzare e
privatizzare quell’immenso patrimonio di cui dovrebbe essere il supreme
custode e valorizzatore (ma forse qualcuno dovrà spiegargli che il
valore di un bene non sta nel suo prezzo mercantile). Mostrando un gran
senso della politica e soprattutto un gran rispetto verso chi non si
identifica nel renzismo, Franceschini ha fatto commenti a dir poco
imbarazzanti: le proteste? Rovinano l’immagine di Milano e dell’Italia. E
per di più possono danneggiare economicamente la città e la nazione,
impegnate nello sforzo titanico di preparazione dell’Expo 2015 (tra
alluvioni, conflitti di competenze, manifestazioni di incompetenza e,
naturalmente, mafia). Neppure il minimo sforzo di comprensione di quello
che accadeva fuori delle belle sale del più celebre teatro europeo. Una
reazione che aggiunge pepe sulla ferita, dimostrando la lontananza
siderale di questo ceto politico dall’Italia reale.
L’ultimo paradosso è che il mirabile Fidelio di Beethoven,
con cui si è aperta la stagione scaligera, è un’opera “politica”, e
dietro la storia d’amore rappresenta la ribellione contro la tirannia, e
l’esigenza di dare voce agli oppressi. Nel finale del II atto,
conclusivo, si parla della necessità di coniugare “grazia” e
“giustizia”. Ma nel pomeriggio ambrosiano, a Milano, la grazia e la
giustizia erano sui fronti opposti della barricata. La grazia era nella
musica beethoveniana, nelle voci dei cantanti, nella perfetta direzione
orchestrale di Barenboim (il suo commiato), e anche nella efficace messa
in scena della regista Deborah Warner (pur ricordando con nostalgia
quella di Mario Martone, alla prima torinese del Teatro Regio nel 2011);
mentre la giustizia – l’ansia di giustizia – era nella protesta della
piazza, anche nei suoi aspetti più discutibili. Può essere vera
“grazia”, quella protetta dai manganelli?
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