di Daniele Balicco
Continuiamo a ricordare nel
ventennale della scomparsa Franco Fortini con un saggio di Daniele
Balicco tratto da AA.VV. (a cura di Pier Paolo Poggio) L’Altronovecento, vol.II, Jaka Book
Tutto se non si vince ritornerà (F. Fortini)
Franco Fortini è stato uno dei più
importanti intellettuali italiani della seconda metà del Novecento.
Tuttavia, il suo nome dice poco, se non addirittura pochissimo, a chi
oggi abbia meno di trent’anni. Del suo lavoro di scrittore, di poeta, di
traduttore, di rigoroso intellettuale politico, di severo polemista, il
presente non porta che rarissime tracce. Rispetto a personaggi molto
diversi, ma a lui facilmente associabili, come furono Pier Paolo
Pasolini o Italo Calvino, la cui fama e popolarità è oggi fuori
discussione, perfino a livello internazionale, Fortini è all’opposto una
figura intellettuale quasi del tutto rimossa; le sue opere, tranne
alcune eccezioni, sono per lo più fuori catalogo. Solo chi si occupa
professionalmente di storia letteraria sa riconoscerlo come uno dei più
importanti poeti della tradizione post-montaliana, collocandolo
correttamente accanto a Vittorio Sereni e Mario Luzi e ricordandone,
magari, la funzione di mediatore in Italia dell’opera di Bertold Brecht.
O poco altro. Per questa ragione, credo che un buon modo per iniziare a
tratteggiare il profilo generale di un intellettuale politico come
Fortini sia anzitutto quello di provare a ragionare sul significato
storico della rimozione che il suo lavoro ha subito. Prima dunque di
presentare gli elementi essenziali della sua biografia e del suo
pensiero, partirò descrivendo il conflitto che per molti anni l’ha
opposto a Calvino, ma soprattutto a Pasolini. Nel confronto con questi
due grandi scrittori del secondo Novecento italiano, dovrebbe risaltare
con una certa chiarezza la differenza specifica del suo lavoro
intellettuale. Da cui mi pare discenda, come logica conseguenza di una
sconfitta storica molto più vasta, l’oblio che la sua opera e il suo
pensiero tutt’ora subiscono.
Attraverso Pasolini e Calvino
A differenza di Fortini, Pasolini e
Calvino sono stati scrittori gravitanti, naturalmente non senza problemi
e scontri, nell’orbita culturale del PCI. Qui non interessa ricostruire
il progressivo evolversi di un distacco – nel caso di Calvino, dopo il
’56 – o di un complicato ed intermittente rapporto di espulsione e
riavvicinamento – come nel caso Daniele Balicco di Pasolini. Quello che
si può sostenere, anche se in modo necessariamente apodittico, è che
entrambi appartengono alla storia della crisi della cultura comunista in
Italia.
Tanto in Pasolini, quanto in Calvino, è
riconoscibile, infatti, un itinerario espressivo ed intellettuale che a
quella crisi cerca risposte e soluzioni nuove. E non senza originalità e
successo. L’itinerario di Fortini, rispetto ad entrambi, è invece molto
più lineare: il suo anticapitalismo è stato radicale quanto il suo
rifiuto politico del comunismo stalinizzato. Del resto, Fortini non fu
mai iscritto al PCI; i suoi saggi, fin dalla fine degli anni Quaranta,
possono all’opposto essere letti come documento storico di
un’implacabile requisitoria contro le distorsioni dello stalinismo,
italico e mondiale1. Se nutrì non poche speranze sulla rivoluzione
cinese – nel 1955 partecipò, insieme a Norberto Bobbio, Pietro
Calamandrei, Cesare Musatti, Antonello Trombadori e Carlo Cassola alla
prima delegazione occidentale nella Repubblica popolare di Mao2 –
l’amicizia con Edoarda Masi lo mise da subito in guardia sulle
contraddizioni di quell’immensa trasformazione sociale; e, dalla fine
degli anni Settanta in poi, sui fenomeni degenerativi che avrebbero
trasformato la Cina in quello che è oggi: l’epicentro dell’accumulazione
mondiale.
In un testo poetico del 1958, intitolato niente meno che Il comunismo3,
Fortini descrive, non senza ironia, il proprio tumultuoso rapporto con
«la causa» e con «i compagni». Credo valga la pena citarlo per intero:
Sempre sono stato comunista.
Ma giustamente gli altri comunisti
hanno sospettato di me. Ero comunista
troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi.
Giustamente non m’hanno riconosciuto.
La disciplina mia non potevano vederla.
Il mio centralismo pareva anarchia.
La mia autocritica negava la loro.
Non si può essere un comunista speciale.
Pensarlo vuol dire non esserlo.
Così giustamente non m’hanno riconosciuto
i miei compagni. Servo del capitale
io, come loro. Più, anzi: perché lo dimenticavo.
E lavoravano essi; io il mio piacere cercavo.
Anche per questo sempre ero comunista.
Troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi
di questo mondo sempre volevo la fine.
Ma anche la mia fine. E anche questo, più questo,
li allontanava da me. Non li aiutava la mia speranza.
Il mio centralismo pareva anarchia.
Com’è chi per sé vuole più verità
Per essere agli altri più vero e perché gli altri
siano lui stesso, così sono vissuto e muoio.
Sempre dunque sono stato comunista.
Di questo mondo sempre volevo la fine.
Vivo, ho vissuto abbastanza per vedere
da scienza orrenda percossi i compagni che m’hanno piagato.
Ma dite: lo sapevate che ero dei vostri, voi, no?
Per questo mi odiavate? Oh, la mia verità è necessaria,
dissolta nel tempo e aria, cuori più attenti ad educare.
Anche se oggi questo termine può
sembrare quasi del tutto incomprensibile, Fortini voleva essere un
rivoluzionario. Il punto di partenza non negoziabile della sua
riflessione critica e poetica è la fine del modo di produzione
capitalistico. Per tutta la vita sceglierà di stare dalla parte del
lavoro vivo contro la logica astratta ed autodistruttiva
dell’accumulazione.
Calvino e Pasolini hanno seguito invece
un itinerario più tradizionale. Hanno cercato, in un primo tempo, di
interpretare, benché in forme espressive diametralmente opposte, un ruoloantico,
ma in linea con la politica culturale del PCI: quello del letterato
civile, del poeta impegnato, dell’artista coscienza infelice della vita
offesa. In un secondo tempo, entrando in crisi quel modello di cultura
di fronte alla fine del togliattismo e soprattutto alla simmetrica
intensificazione delle forme espressive dell’industria culturale, hanno
cercato strade nuove. E tuttavia, semplificando al massimo, si può
sostenere che entrambi hanno provato a riadattare, in un contesto
culturale ormai mutato, quel ruolo di intellettuale engagé a
cui tutto sommato restano fedeli. Calvino modificherà il proprio
profilo di scrittore civile in quello di scienziato della scrittura: si
immaginerà come un osservatore distaccato dalla vita alla ricerca di un
senso, circostanziato e sempre relativo.
È in fondo, la sua, la messa in scena di
un soggetto malinconico, imprigionato nei confini di una convenzione,
come quella del gioco letterario, vissuta, soprattutto nelle ultime
opere –Lezioni americane e Palomar – come barriera di
sabbia fragilissima eretta contro l’informe barbarico che avanza veloce e
inesorabile come la marea. Pasolini, all’opposto, è l’autore che punta
tutte le sue carte contro le barriere e i confini della convenzione
letteraria, che vuole forare, aprire e oltrepassare: se Calvino sceglie
per sé il ruolo di scienziato, Pasolini preferisce quello del
predicatore profetico capace di indicare, nel proprio personale moto di
ribellione contro il presente, le forze e i poteri che lo devastano.
Da parte sua, invece, Fortini, non
avendo mai scommesso sul PCI, e men che meno su quel modello di lavoro
intellettuale, di fronte alla crisi dello stalinismo non arretra di un
passo. Anzi. I saggi più famosi di quegli anni, come Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo eAstuti come colombe, entrambi pubblicati nel 1965 in Verifica dei poteri,
sono proprio una diagnosi lucida, e forse definitiva, dell’errore
politico nascosto in quel progetto culturale di cui il PCI è stato, in
Italia, il massimo promotore: l’engagement. Ma altrettanto lucida è l’analisi della successiva metamorfosi progressista di quell’idea di un impegno civile tutto e soloculturale. Di fronte alle nuove avanguardie o ai progetti di trasformazione del ruolointellettuale
alla Calvino o alla Pasolini, il suo dissenso sarà sempre radicale. Chi
crede di trasformare la società facendo saltare in aria la sintassi o
semplicemente azzerando il sistema delle forme estetiche non si
rende davvero conto che il capitale sta facendo lo stesso, ma con ben
altri mezzi e potenza; ma soprattutto ignora che l’antitesi è altrove.
Contro l’insieme di questi progetti di modernizzazione del ruolo di
scrittore Fortini opporrà, insieme, Brecht e Mandel’stam: prima di ogni
impegno estetico, si discuta anzitutto dei rapporti di proprietà; prima
di ogni sperimentalismo e fuga in avanti avanguardistica, si ricordi
che la poesia classica è la poesia della rivoluzione. Perché l’idea di
uomo integrale lì protetta è, insieme, anticipo di un futuro liberato e forma che illumina per antinomia la miseria che contro ogni ragionevolezza ancora incatena il nostro presente.
A partire dagli anni Sessanta, Fortini
ha sempre più esacerbato il giudizio politico sulle scelte intellettuali
di Pasolini e Calvino, i quali, da parte loro, nonostante le critiche
ricevute, hanno invece continuato a considerarlo come uno degli
interlocutori privilegiati, se non il lettore ideale, di quanto andavano
scrivendo o realizzando, negli anni, con le loro opere. Molte lettere
di Pasolini e di Calvino, a lui indirizzate, sembrano essere state
scritte nello stesso momento e dalla stessa persona. Ne prenderò come
esempio solo due. La prima è un biglietto che Pasolini invia alla fine
del 1961, in risposta ad una lettera dove, almeno per una volta, Fortini
sembra cedere le armi e complimentarsi con l’amico per il successo e la
bellezza di Accattone («per aver fatto Accattone, ti perdono molte cose»). Vediamo come gli risponde Pasolini:
ti scrivo solo un magro biglietto,
per ricordarti che esisto e che soprattutto tu esisti in me: esisti
tanto da essere l’ideale destinatario di quasi tutto quello che scrivo.
Spero di esserlo un poco anche io per te, anche se non possiedo la tua
formidabile ed esplicita, sempre, reattività 4.
Una risposta quasi identica è quella che
Calvino scrive il 3 giugno 1977 da Parigi. Dopo aver ricevuta una
lettera di complimenti da Fortini per la pubblicazione del racconto laPoubelle Agréée («la tua Poubelle è un boîte à merveilles.
Hai scritto un pezzo bellissimo. Credo che i più ci metteranno un bel
po’ ad accorgersene perché non si presta, come molti dei tuoi scritti
più recenti, alle brame dei giovinetti delle ultime piogge e mode») gli
risponde con queste parole:
Caro Fortini – la tua lettera m’ha
fatto un enorme piacere. Di quelle pagine tu eri – già mentre le
scrivevo – uno dei lettori ideali, e tenevo molto al tuo giudizio. Tu
sei una delle poche persone con cui continuo a dialogare – anche senza
parlarci né scriverci –: devo dire che più raramente di una volta mi
trovo a contraddirti 5.
Fortini, da parte sua, non smetterà
mai, fino alla fine, di distinguere la propria traiettoria intellettuale
e politica da quella dei due suoi amici/antagonisti. In un commento di
raccordo scritto presumibilmente nei primi anni Novanta, interno alla
sezione epistolare di Attraverso Pasolini, che è il suo ultimo
libro pubblicato in vita, la distanza è segnata quasi con violenza.
Pasolini e Calvino, più o meno involontariamente, avrebbero infatti
favorito – e non a caso proprio a partire dagli anni Sessanta – nella
forma di lavoro intellettuale scelto, come nei modelli estetici
praticati, un’idea di cultura e di intervento politico sul presente che
lamutazione avrebbe, negli anni, integrato come opposizione trasgressiva illusoria o come nobile e distaccato disincanto:
È forse difficile oggi rendersi
conto di quanto fosse stridulo il contrasto fra il modo in cui veniva
vissuto il presente fra Torino e Milano in quegli anni di trasformazione
profonda e l’immagine che di quello ci veniva da Roma. Per di più quasi
tutti gli intellettuali che erano stati vicini a pubblicazioni come
«Quaderni rossi» e «Quaderni piacentini», fra il 1962 e il 1964
scomparivano alla vista, rinunciavano alla «presenza», sopravvivevano
nelle forme più modeste e anonime. È forse difficile capire, oggi, che
per costoro, non solo Pasolini ma anche Calvino erano dei «perduti», dei
passati nel campo avverso 6.
A partire dagli anni Sessanta, mentre
Fortini, licenziato da Olivetti e da Einuadi, lavora come professore di
scuola secondaria e si muove all’interno della galassia non
istituzionale dei movimenti e della nuova sinistra, Pasolini e Calvino
iniziano invece a posizionarsi, con successo, al centro del campo
intellettuale ed artistico italiano; il primo come regista mauditintegrato
nello star-system del cinema di ricerca europeo, il secondo come
scrittore di best-seller raffinati, tradotti in moltissime lingue, e
consulente di punta dell’Einaudi, la più prestigiosa casa editrice
italiana. Dunque: da una parte, successo economico, prestigio, fama,
riconoscimenti; dall’altra, impegno politico come lavoro di servizio invisibile e internoalle
lotte dei movimenti antisistemici. Due mondi opposti, non c’è dubbio;
come opposte, inevitabilmente, sono le forme pratiche di intervento e di
lavoro intellettuale vissute. Non è un caso dunque se, ancora oggi, il
valore politico della scrittura di Fortini, diversamente da quanto è poi
accaduto con gli scritti polemici di Pasolini anzitutto, ma anche di
Calvino, è riconosciuto – purtroppo – quasi esclusivamente da chi è
appartenuto a quella storia di trasformazione sociale, che il presente
ha con forza annientato. Come ha scritto, non senza ragioni, Rossana
Rossanda:
Fortini giace insepolto fuori dalle
mura. E si spiega: ha voluto essere una voce poetica di quella parte
del secolo che aveva tentato l’assalto al cielo d’un cambiamento del
mondo, ha perduto ed è ricaduta fra le maledizioni del Novecento e
l’inizio di un millennio che non ne sopporta il ricordo 7.
Pasolini e Calvino, invece, hanno
riscosso in vita, e proprio a partire dagli anni Sessanta, un vasto e
duraturo successo di pubblico, anche internazionale; per diventare,
negli anni successivi alla morte, due classici riconosciuti del secondo
Novecento italiano.
Entrambi: con buona pace di Carla Benedetti. Dopo la pubblicazione dei dieci volumi nei Meridiani dell’Opera omnia di Pasolini – unico autore
di tutta la tradizione letteraria italiana a godere di un
riconoscimento di queste dimensioni editoriali – credo che le sarà molto
difficile sostenere oggi la tesi che mosse un suo fortunato pamphlet di
qualche anno fa8. Per essere chiari: quello che distingue realmente
Fortini, come scrittore e poeta, da Calvino e Pasolini, è il suo posizionamento come
intellettuale all’interno dei conflitti di massa. La sua convinzione
profonda è che il lato politico della cultura vada studiato e praticato
anzitutto nell’organizzazione del lavoro intellettuale. Se non si
analizzano le condizioni di possibilità materiale del proprio lavoro, se
non si attraversano, fino in fondo, le contraddizioni di classe che ne
deformano l’autocoscienza e i poteri; se non si porta fino alle estreme
conseguenze la critica dei propri strumenti espressivi, si può
tranquillamente vivere nell’inganno di essere autori al di sopra del
processo di mercificazione che invade l’esistente; si potranno perfino
criticarne gli effetti devastanti sul mondo, ma senza riconoscerne
le cause reali; le stesse che trasformano un autore in un’icona/merce
della trasgressione o del disincanto. Quello che Pasolini e Calvino
rifiutano di compiere è in sostanza una critica radicale dei mezzi di
comunicazione che usano, la sola che avrebbe potuti introdurli in un
universo realmente politico. È una questione centrale per capire Fortini
e va approfondita.
Liberazione del lavoro
In un articolo intitolato Le firme supplici, pubblicato alla fine del 1977 e poi confluito inInsistenze,
Fortini prende spunto dalla sostituzione di Piero Ottone con Francesco
Di Bella alla direzione del «Corriere della Sera» per riflettere
sull’uso politico che le direzioni dei quotidiani hanno fatto, negli
ultimi trent’anni, dei propri collaboratori esterni.
La sostituzione di Ottone nascondeva in
realtà questioni politiche molti gravi, che di lì a poco sarebbero state
scoperte: vale a dire il coinvolgimento diretto della famiglia Rizzoli,
allora proprietaria del quotidiano, nella loggia massonica P2, di cui
Di Bella era membro. Dopo questa inquietante sostituzione, un gruppo di
collaboratori esterni, fra cui Fortini – che in un primo momento è
incerto se firmare o meno il documento, visto che ha già deciso di
andare allo scontro diretto e dimettersi – chiede l’estensione del
diritto sindacale di poter discutere, con il direttore e la redazione
del giornale, la linea editoriale del quotidiano. Di fronte ad un così
brusco cambio di direzione, infatti, i collaboratori esterni chiedono un
minimo di verifica e di controllo sulla linea del giornale di cui
comunque restano firme prestigiose. La richiesta viene naturalmente
respinta. Alcuni collaboratori, insieme a Fortini, daranno le
dimissioni; altri continueranno a collaborare lo stesso. La storia di
questo piccolo conflitto sindacale portato all’interno della direzione
del più influente quotidiano nazionale da uno sparuto gruppo di firme
esterne, più o meno importanti, offre a Fortini l’occasione per
riflettere sull’uso ambivalente della funzione autore in questa circoscritta forma di collaborazione.
L’articolo anzitutto ricostruisce per sommi capi un problema già analizzato da Fortini in Astuti come colombe. Il problema è quello della fine del mandato sociale per gli scrittori a partire dal boom degli anni Sessanta:
Se ben ricordiamo, nella prima metà
degli anni Sessanta, lo «scrittore» aveva perduta la sua rilevanza
semisecolare sulla terza pagina del quotidiano e aveva dovuto ripiegare
sulle rubriche dei settimanali. Le mode della neoavanguardia prima, poi
la crescita della protesta giovanile e studentesca dissolsero
definitivamente l’aura del «direttore di coscienza».
Fortini continua ricordando
che l’attacco a quell’idea di scrittore come umanista generico, veniva
da due direzioni antitetiche: la prima, di area tecnocratica
progressista, chiedeva specializzazioni e scienza, quindi esperti. La
seconda, invece, propria dei movimenti di contestazione giovanile,
disprezzava la letteratura per le sue forme tradizionali di linguaggio e
di illusorio engagement al di sopra delle parti, in stile anni
Cinquanta: di qui il non riconoscimento, per quella generazione, della
funzione politica di autori come Moravia, Morante, Pasolini e Calvino.
Era un rifiuto ambivalente, ma che avrebbe portato fino ad una negazione
profonda del presunto potere della cultura, tanto umanistica quanto
tecnica, e alla conoscenza approfondita della sua subordinazione diretta
alle forme di sfruttamento, di selezione e di produzione,
dell’industria culturale.
Ma è solo a questo punto, per Fortini,
che il lavoro intellettuale può entrare realmente in una dimensione
politica. Dopo aver attraversato fino in fondo le falsi immagini di Sé
come autore(prestigio, autonomia, libertà), dopo aver
ricostruito il posizionamento reale e lo sfruttamento subito all’interno
della macchina dell’industria culturale, a quel punto il livello dello
scontro può alzarsi e diventare politico: gli intellettuali si
riconoscono come lavoratori, si organizzano sindacalmente, chiedono
potere di verifica e di controllo sulla propria attività:
non è un caso che questa conoscenza
si traducesse, in quel periodo, nei primi tentativi di organizzazione
di una rappresentanza politico-sindacale di tipo fino allora sconosciuto
all’interno di alcune case editrici, dove la forza-lavoro intellettuale
chiedeva compartecipazione alle scelte e alla gestione culturale.
Questo tipo di educazione
politica e di organizzazione del lavoro intellettuale portava con sé
richieste sindacali di settore, ma soprattutto esprimeva esigenze
generali di trasformazione sociale. Era solo una parte, infatti, di un
movimento più vasto, e per quasi un decennio egemonico in Italia, di
conflitto sociale portato dentro la dimensione del lavoro, mettendone in discussione comando, condizioni materiali e insieme qualità.
Contro questo movimento, che nei suoi punti più alti e rigorosi fu
realmente capace di mutare temporaneamente i rapporti di forza
all’interno di vasti settori della società italiana, lo Stato agì con
tutti i mezzi, leciti ed illeciti, dalla strategia della tensione
all’inflazione. Ed essendo lo scontro poderosamente giocato ad armi
impari, i movimenti per un po’ resistono e poi si sfaldano; e una volta
separata dal conflitto politico di cui era logica continuazione,
l’esigenza di una trasformazione complessiva del costume e della cultura
viene parzialmente accolta, maconformata a diritto civile. Poco più di un adeguamento necessario all’incremento di nuovi consumi in una società ormai affluente.
Ed è proprio su questo processo di modernizzazione repressiva che, come è noto, si scaglia Pasolini. Ma solo come autore,
appunto; come spettatore al di sopra delle parti. Può denunciare gli
effetti, può profeticamente disegnare una tendenza apocalittica
generale; non può tuttavia capire l’uso che viene fatto del suo lavoro e
del suo nome. Che è quello, secondo Fortini, di trasformare in generico
discorso antropologico e in questione di diritti civili e libertà della
persona, la forza di un ben più destabilizzante conflitto politico di
massa. Non è un caso, dunque, che proprio negli stessi anni in cui lo
Stato agisce brutalmente contro i movimenti, i più importanti quotidiani
nazionali tornino a conferire a scrittori come Pasolini, Calvino,
Moravia e la Ginzburg, un mandato sociale come generici direttori delle
coscienze:
Di qui la sorpresa di alcuni di noi
quando, qualche anno più tardi, la direzione di Piero Ottone aprì spazi
e conferì autorità proprio a quel tipo di intervento «etico» che pareva
scomparso. (…) L’operazione che gli «scrittori» adempirono sul
«Corriere» (e anche su non pochi altri giornali) fu di disinnescare
quanto ancora restava di propriamente eversivo nel repertorio
extra-parlamentare e di accettarne e discuterne invece le richieste di
«diritti civili». (…) Per questa tematica hanno lavorato, fra terza e
prima pagina, proprio gli autori ( Calvino, Pasolini, Moravia, Ginzburg,
e non pochi altri) che il decennio precedente aveva allontanato dalla
ribalta: essi interpretavano le esigenze di un’area che diviene
importante ogni volta che sono in gioco problemi di libertà; e che perde
importanza quando i conflitti sociali, espliciti o impliciti, inalveati
o no nelle forme del gioco politico, si fanno più seri 9.
Dietro l’uso delle collaborazioni
esterne, è come se la funzione pubblica dell’autore riconquistasse
proprio quel falso potere – prestigio, autonomia, libertà – contro cui
le forme comuni dell’intellettuale massa, e solo qualche anno prima,
avevano radicalmente combattuto. Dietro questa restaurazione del
mandato sociale allo scrittore, dunque, va letta, per Fortini, la
volontà di neutralizzare l’idea che un conflitto sociale, portato dentro la dimensione del lavoro,
anche intellettuale, possa di nuovo arrivare fino al punto di mettere
in discussione i presupposti generali (politici, culturali,
antropologici) della riproduzione allargata.
Attraversare le false immagini di Sé
Con la fine degli anni Settanta, e la
sconfitta politica del lavoro, naufraga sempre più anche l’idea di una
necessaria trasformazione del ruolo intellettuale; e con
quest’ultima viene forzatamente spostata nell’irrealtà la persuasione
che sia possibile lottare per una cultura diffusa, capace di portare il
senso comune fino alla comprensione politica del presente. È difficile
capire oggi il senso di molti degli scritti saggistici, e perfino della
poesia, di Fortini, perché sono precisamente orientati a questo fine. Lo
presuppongono come un orizzonte scomparso. La sua scrittura, infatti,
non si rivolge ad un pubblico generico, come invece quella di Pasolini o
di Calvino e, nello stesso tempo, non è neppure organica ad un partito, ad un movimento sociale o tecnicamente accademica. Come ha più volte egli stesso ripetuto:
non parlo a tutti. Parlo a chi ha
una certa idea del mondo e della vita e un certo lavoro in esso e una
certa lotta in esso e in sé10.
Non dovrebbe essere difficile capire a
questo punto che l’oblio caduto sull’opera e sulla figura intellettuale
di Fortini deriva precisamente dalla scomparsa dei destinatari verso cui
la sua scrittura è orientata. Non solo. È l’idea stessa di politica –
come fare cosciente e possibilità comune di emancipazione – presupposta
da questa forma di lavoro intellettuale ad essere, insieme alla memoria
di quegli anni, rimossa dall’orizzonte d’attesa del presente. Senza una
comunità politica coinvolta in un progetto di trasformazione radicale
della società questi scritti, come i vecchi 33 giri, girano a vuoto. A
partire dagli anni Ottanta, inizia ad essere visibile, anche per
Fortini, quella mutazione di cui, qualche anno prima, l’amato/odiato Pier Paolo aveva parlato nei suoi famosi Scritti corsari. Con un’impressionante rapidità, infatti, il quadro generale della società e della cultura italianamuta.
Spariscono dalla scena pubblica i destinatari verso cui la scrittura di
Fortini è diretta e, nello stesso tempo, per tantissime ragioni che qui
non possono essere spiegate, viene reciso il confronto con le nuove
generazioni che sembrano vivere ormai in un mondo separato, impermeabile
alla ricerca di un senso storico e politico del presente. Discutendo
con Rossana Rossanda sui contenuti politico/culturali dell’incontro
giovanile organizzato da Roberto Roversi, a Bologna, ad un anno dalla
strage del 1980, così scrive:
Perché andare a dire quel che non
ci viene chiesto? (…) Debbono essere i giovani a chiedere, a cercare chi
può rispondere, a domandare sempre di più, a federarsi, a controllare;
altrimenti meritano di essere lasciati affogare nella panna delle
proprie spiegazioni organizzate. Debbono arrivare a sentire
intollerabile la loro miseria e la loro ignoranza. Debbono chiedere
aiuto. Al passato; alla storia; ai libri dei morti. Debbono morire al
presente. Finché non capiranno che chiunque altrimenti li lusinga è il
loro nemico, non meritano che di distrarsi a Bologna e di leggersi a
vicenda le loro caritatevoli poesie di bambini cresciuti. Avranno,
tutt’al più il destino dei loro genitori. Che i giovani si separino,
invece. Li invito ad una dissidenza meno vistosa di quella del ’68 ma
più spietata e intransigente. A una clandestinità; che nulla abbia con
quella terroristica. A una segretezza; che nulla abbia della P2. Una
congiura in piena luce che non perdoni nessuno e non renda facondo il
disprezzo; e che, con tenacia da formica, ripensi e rifondi le ragioni
di una democrazia, proponendosi un «fino in fondo» che implica la più
radicale condanna, quella dell’oblio, per chi li avrà ingannati 11.
Da questa risposta emerge con chiarezza
come Fortini intenda lo scopo del proprio mestiere. Per lui la
riflessione ideologica non è un discorso moralistico che un soggetto
esterno propone ed impone ad un altro soggetto, generico, subalterno e
ancora informe. L’attività critica è piuttosto lavoro autoriflessivo di
un gruppo, di una classe sociale sullaforma della propria
esistenza. Il fine è quello di corrodere le false immagini di sé, di
riconoscere cioè la deformazione forzata che ogni soggettività subisce
sotto il dominio stregato del capitale. In una lontana pagina della fine
degli anni Sessanta quest’idea, vera e propria stella polare della sua
produzione intellettuale, veniva descritta così:
il compito ideologico non è quello
di dar forma ad un informe (soluzione tipica del razionalismo borghese),
di venerare un informe (soluzione dell’estremismo vitalistico e
avanguardistico) o di difendere un catalogo di forme (soluzione del
populismo) ma di criticare l’immagine mistificata, ossia la forma
illusoria, che la classe oppressa ha di se stessa. Non quindi col
tradizionale processo di assunzione a coscienza e a consapevolezza, ma
con la proposta di attività, di prassi 12.
Il lavoro critico è anzitutto un lavoro autoriflessivo di un gruppo; implica una relazioneorientata
da una comune volontà di conoscenza, di autoeducazione e quindi di
lotta. Per questo, Fortini, rispondendo a Rossanda, insiste sulla
necessità di una ragionevole posizione d’attesa: devono essere i più
giovani a pretendere una relazione di conoscenza adulta, perché capace
di trasformarli e farli crescere. Solo se è vissuta come un processo di
trasformazione di sé e di emancipazione dall’incoscienza subalterna
nella quale sono forzatamente costretti, la cultura critica può avere,
per le nuove generazioni, un senso e un’efficacia pratica. Altrimenti è
vuoto moralismo. Non siano dunque gli adulti a proporre ed imporre una
narrazione politica possibile della feroce sconfitta subita, ma siano,
all’opposto, i più giovani a riconoscere chi, fra gli adulti, può
aiutarli a capire perché il presente nel quale sono bloccati dipenda anche da quella sconfitta.
Comunque sia, rispetto a quest’ultima,
la convinzione di Fortini è pressappoco la seguente. La storia dei
movimenti antisistemici italiani del decennio ’67-’77, piena di
problemi, eppure straordinaria per intensità, estensione e durata, è
finita molto male per una serie di contraddizioni e debolezze interne.
Ma soprattutto per l’imparità dello scontro. Un insieme di fattori
eterogenei, eppure convergenti – la violenza militare dello Stato, una
profonda crisi economica con rapida ristrutturazione industriale, il
potenziamento dell’industria culturale e una vera e propria rivoluzione
tecnologica – hanno fisicamente distrutto e culturalmente annientato
l’insieme eterogeneo di quel laboratorio politico e il suo progetto di
trasformazione sociale. Nessun altro paese occidentale è del resto
uscito dalla crisi dei lunghi anni Settanta mutando la propria
fisionomia generale con un tale cumulo di violenza militare subita, di
disgregazione sociale e di corruzione istituzionale:
Qualche volta penso a tutti quelli
che da più di un decennio, ascritti alla criminalità politica, sono già
condannati o in attesa di giudizio oppure di qualche legge d’oblio (…);
penso a inquisiti e inquisitori; ai sospettati e ai loro fratelli; alle
madri degli ammazzati; ai fermati e alle loro mogli; ai rilasciati e ai
loro datori di lavoro; ai licenziati e ai loro delegati sindacali.
Quanti sono! Dovete aggiungere, sia chiaro, tutti i settori e i gradi
della amministrazione che si affaticano per le carte e i corpi di tutti
costoro; e i magistrati, i poliziotti e i carabinieri assassinati e i
loro figli e famiglie. E poi le folle dei giovani senza lavoro, dei
cassintegrati che perdono il proprio passato e il mestiere, dei
marginali che perdono l’orizzonte, dei drogati che conversano con il
demonio: mai era stata nel nostro paese così densa e oleosa la
spremitura sociale, ormai color pece, crescente, stabilizzata, accettata 13.
E tuttavia non può neppure essere
dimenticato che l’eredità vera di quella stagione va cercata, anche come
espressione momentanea di un mutato rapporto di forze, in una profonda
democratizzazione degli apparati ideologici dello stato (scuola,
università, magistratura, fisco, polizia, ospedali, manicomi). Processo
che può essere ben compendiato in due straordinarie conquiste
legislative: lo Statuto dei lavoratori e la legge 180. Il
problema, semmai, fu che quel moto di trasformazione, per precise
ragioni e vincoli internazionali, non poteva superare un certo limite.
Non poteva cioè raggiungere né i centri di comando della macchina dello
Stato e neppure i centri di selezione delle sue vere élite:
nel periodo che va dal ’63 al ’73
si erano determinate nel nostro paese le condizioni perché una gran
parte degli italiani politicamente attivi uscisse dai termini politici
stabiliti dalle organizzazioni sindacali e politiche della sinistra
storica, dominanti già nel ventennio successivo alla guerra. La classe
politica dominante, quindi anche buona parte della classe politica della
sinistra storica, ha combattuto quella realtà con tutti i mezzi, legali
e illegali; dal terrorismo di stato allo sfruttamento di quello di
altra origine, dalla provocazione ai normali metodi politici. Ciò
nonostante la spinta fu così forte da determinare alcune fondamentali
vittorie civili e da accettare di confluire nel ’76 in un voto di
fiducia delle giovani generazioni al maggior partito della sinistra
storica. La risposta è stata per un verso il terrorismo senza disegno
politico, la degenerazione intellettuale e morale, la diffusione del
cinismo e della droga, la politica di unità nazionale, la legislazione
speciale, le stragi, i poteri occulti. A questo punto, chi condivida
anche solo per sommi capi questo schema non può accettare di limitare il
discorso a questa o a quella puntualizzazione storica. Capire indietro
vuol dire capire avanti, avere dei reali progetti politici, avere la
pazienza di spiegarli; mi rifiuto di rispondere a chi mi chieda di dare
una valutazione morale di questo o di quel comportamento, perché
l’esecrazione non è un giudizio né politico, né morale, è un atto di
propaganda 14.
Gli ultimi scritti di Fortini, quelli
saggistici, ma – con i dovuti giochi di rifrazione propri del genere –
in parte anche quelli poetici, possono essere interpretati come
tentativi di trovare una ragione a questa sconfitta e al suo conseguente
collasso sociale. Letti oggi molti dei suoi saggi appaiono come referti
di un paesaggio devastato. Potrebbero anche essere pensati e studiati
come una continuazione, ben più calibrata, delle scritture corsare
pasoliniane. Perché se ostinatamente invitano «ad un buon uso delle
rovine»15 sottendono sempre uno sguardo tragico sul presente. Sono testi
che ragionano a fondo su una sconfitta violenta. Ma ragionare a fondo
su una sconfitta violenta significa anche assumersi la responsabilità
politica degli errori commessi. E Fortini non era certo un ingenuo, né
tanto meno un velleitario. Sapeva cos’erano i rapporti di forza e che
una politica incapace di calibrarli era destinata, nella migliore delle
ipotesi, all’irrilevanza. Per questo non era un minoritario per scelta,
ma un militante che sapeva stare in minoranza. Ed è una cosa ben
diversa. Se cercò negli ultimi anni di capire le ragioni della sconfitta
dei movimenti italiani, sapeva che una politica all’altezza del
presente andava ripensata da capo, fin dalle radici.
Un itinerario antiriformista
Fortini aveva vissuto, non ancora
trentenne, la catastrofe della guerra. Sopravvissuto ai bombardamenti di
Milano, nell’agosto del 1943, era stato esule in Svizzera e poi
partigiano nella repubblica liberata di Valdossola. Nel 1945 tornò a
Milano e di lì a poco Vittorini lo volle con sé nella redazione del
«Politecnico» di cui divenne rapidamente una delle firme più note.
L’esperienza della guerra lo aveva costretto alla politica, che non era
stata davvero la sua passione di gioventù, impossibile del resto per una
generazione come la sua cresciuta sotto il fascismo: «non fui io ad
impegnarmi nella politica attiva, fu la guerra che mi impegnò»16. Di
fronte alla catastrofe, fare politica significava almeno tre cose:
anzitutto lottare per sopravvivere, quindi capire le ragioni della
guerra e dei fascismi, infine organizzarsi per renderli irripetibili.
Ancora in Svizzera, tramite Ignazio Silone, Fortini si era così iscritto
al PSI, ma la sua successiva militanza nel partito fu poco serena, se
non tumultuosa. Basta leggere Dieci Inverni per rendersi conto
degli ostacoli e delle incomprensioni radicali che la sua ricerca di una
verità politica – tanto sulle condizioni reali della vita nell’Unione
Sovietica; quanto sul nicodemismo imposto al lavoro intellettuale dalle burocrazie dei partiti di sinistra – incontrava all’interno del Fronte popolare.
Riconsegnò a Nenni la tessera del PSI
nel 1957 perché l’ipotesi di autonomia socialista, su cui aveva puntato
insieme ai compagni di «Ragionamenti», si rivelava essere poco più di
un’illusione: il partito, infatti, stava sì virando verso l’autonomia
dal PCI, ma interpretandola ora esclusivamente come ipotesi
socialdemocratica di coesistenza e sviluppo. E di lì a qualche anno,
infatti, il partito di Nenni darà vita insieme alla Democrazia cristiana
al primo governo di centro-sinistra della storia repubblicana. Ormai
fuori da ogni istituzione e casa politica, Fortini si avvicina, in quei
primi anni Sessanta, a Raniero Panzieri, altro esule socialista come
lui, e al suo strano gruppo di giovani lettori del Capitale e
attivisti politici senza mandato: sono gli anni di «Quaderni Rossi».
Quasi contemporaneamente però stringe anche un altro legame profondo, da
persuasore permanente o, forse meglio, da vero e proprio mentore.
Questa volta con alcuni giovani intellettuali piacentini, politicamente
appartati e culturalmente radicali. Diventeranno di lì a breve la
redazione della più importante rivista della Nuova sinistra italiana:
«Quaderni Piacentini». Sono questi probabilmente gli anni migliori di
Fortini. Sui suoi scritti più famosi, poi confluiti nel 1965 inVerifica dei poteri,
si formarono, in quegli anni, molti dei quadri politici intellettuali
di quello che sarà, nel decennio ’67-’77, il movimento antisistemico
italiano. Sono saggi ricchissimi, densi e stratificati; ancora oggi sono
capaci di aggredire il lettore per un versocostringendolo ad
attraversare le false immagini, le auto rappresentazioni deformate del
nostro paese a cui costrinsero, insieme, boom economico e
togliattismo; e per un altro, sprigionano ancora un residuo di
quell’energia di trasformazione che avrebbe abitato l’Italia negli anni
successivi.
I saggi di Fortini sono spesso
complicati. Se in uno scritto famoso apparso in tre puntate su «il
Manifesto», proverà a spiegare le ragioni che lo spingono ad una
scrittura non immediatamente chiara («dicono che scrivo difficile.
Peggio: non chiaro. È vero. Non sempre. In parte è colpa mia e dunque
mi riguarda. In parte, e maggiore, non riguarda solo me. Proviamo a
parlarne»)17 è altresì vero che il suo stile non è mai oscuro. La
difficoltà della sua scrittura sta piuttosto nella costruzione del
ragionamento: sono i tagli metonimici, le allusioni, la stratificazione
sovrabbondante dei riferimenti a rendere la lettura dei suoi testi
impegnativa. L’idea di Fortini è che la comprensione politica richieda
sempre uno sforzo diestraneamento. Per questa ragione il suo
stile lavora sui tagli, sulle accelerazioni, sulle distorsioni
sarcastiche, sui cortocircuiti teorici: perché vuole obbligare il
lettore a fermarsi, ad approfondire, a ricredersi. Lo sfida mostrando di
continuo come non sempre convinzioni e presupposti che possono anche
apparire semplici, chiari e distinti, portino necessariamente con sé
idee giuste:
le idee chiare non sono la stessa
cosa delle idee giuste, di cui ci parlò Mao. La giustezza di una idea si
verifica (in modo piuttosto complicato) nella pratica. La sua chiarezza
è invece una questione di legalità interna; stipulato un codice comune,
chiaro è il messaggio che passa da chi lo emette a chi lo riceve col
minimo di distorsioni. Ma qual è il codice comune della comunicazione
politica? 18
Questo è il problema centrale degli
scritti di Fortini nella stagione dei movimenti antisistemici. Come fare
a costruire un linguaggio e un pensiero politico comune all’altezza del
presente. Per Fortini il nodo si può sciogliere solo capendo che il
linguaggio politico è una mediazione fra discorso comune e scienza
specialistica. Perché, come insegna Brecht, da lui in quegli anni
meravigliosamente tradotto, per sconfiggere il re bisogna parlare anche la
lingua dei re. Non si può dunque seguire né la strada del PCI, che dà
ai suoi intellettuali organici relativa libertà scientifica, purché la
direzione politica di fondo del discorso non venga mai discussa; né
tantomeno il politicismo gergale che infesta la mente e gli scritti dei
gruppi extraparlamentari. Bisogna saper parlare la lingua dei re:
bisogna cercare e selezionareovunque sia il massimo di sapere critico esistente e poi armarlo in una forma adeguata alla trasformazione politica per cui si lotta.
La verità e la tenerezza
Per concludere, riporterò uno stralcio
di una breve autopresentazione destinata ad un programma radiofonico di
Cesare Zavattini e mandata in onda su radio uno, registrata con la voce
di Fortini stesso, i primi giorni di gennaio del 1978. In queste poche
righe il poeta diTraducendo Brecht, il traduttore di Goethe e
di Proust, il polemista dell’«Avanti!» e del «Manifesto», l’attivista
politico dei «Quaderni Rossi», mostra con chiarezza quale modello
unitario di intellettuale politico abbia cercato di praticare nella sua
attività di poeta, di scrittore e di polemista, per tutta la vita.
Non so chi sono ma cerco di sapere
chi sono stato, ossia quale rete di storia e di società mi sono trovato a
vivere. L’angolo di mondo, che si chiama Italia, i rapporti fra la
gente, fra gli analfabeti, gli studiati, la gente colta, le sinistre
borghesi, i borghesi di sinistra, i nuovi veri irraggiungibili
privilegiati, i mangiatori di uomini, diciamo, che incontro ogni giorno,
ai quali sorrido affabilmente ed ai quali spero piaccia il mio lavoro…
tutto questo cerco sì, di capirlo come posso. Non è vero che non sono
stato felice. La felicità è stata nei momenti di accordo fra
l’esperienza e la parola mentale. Nei momenti di novità, anche, quando
la promessa di cambiamento diventava decisione. (…). Mi viene in mente
il poscritto che un grande uomo, uno scrittore e combattente della
libertà del suo paese, il cubano José Martí, quasi ottant’anni fa vergò
in una lettera a sua madre. Le annunciava che era sul punto di partire
per una spedizione, uno sbarco nell’isola, contro gli occupanti
spagnoli, come il nostro Pisacane; che sapeva del rischio (fu ucciso,
infatti, dopo lo sbarco e una lunga guerriglia). Scriveva quell’uomo che
aveva più di quarant’anni, alla madre, come tanti di noi hanno scritto,
chiedendo perdono di mettersi nei pericoli ma riconoscendo che, se lo
fanno, è anche per l’insegnamento che le madri gli hanno dato. E dopo
aver firmato («tuo figlio José»), aggiunge: «la verità e la tenerezza
non passeranno». La verità e la tenerezza, contrapposte e unite 19.
NOTE:
1 F. Fortini, Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso socialista, Feltrinelli, Milano 1957.
2 Un diario di questo viaggio, che
attraversò anche l’Unione Sovietica, si può leggere in: Id., Asia
Maggiore [1956], Manifestolibri, Roma 2007.
3 Id., Il comunismo, in Una volta per sempre, ora in Versi scelti, Einaudi, Torino 1989, p. 136.
4 Id., Uno scambio di lettere in Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi 1993, p. 121.
5 G. Nava, E. Nencini (a cura di), Italo
Calvino – Franco Fortini. Lettere scelte 1951-1977, «L’ospite Ingrato»,
I, 1998, pp. 116, 118.
6 F. Fortini, Uno scambio di lettere, in Attraverso Pasolini, cit., p. 122.
7 R. Rossanda, Uno sperato tutto di ragione, in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, p.XIII.
8 C. Benedetti, Pasolini contro Calvino, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
9 F. Fortini, Le firme supplici, in Id., Insistenze, pp. 105-107.
10 Id., Scrivere chiaro, in Questioni di Frontiera, Einaudi, Torino 1977, p. 125.
11 Id., Per una congiura in piena luce, in Saggi ed epigrammi, cit., p. 1054.
12 Id., Prefazione alla seconda edizione, in Verifica dei poteri [1965], Einaudi, Torino 1989, p. 311.
13 Id., Insistenze, cit., pp. 263-264.
14 Id., Violenza e non violenza, in Non solo oggi. Cinquantanove voci, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 302-303.
15 Come ironicamente indica il sottotitolo della sua ultima raccolta di saggi politici: Id.,Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano 1990.
16 Id., Un dialogo ininterrotto, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 30
17 Id., Scrivere chiaro (I), in
Disobbedienze, I, Gli anni dei movimenti. Scritti sul Manifesto
1972-1985, Manifestolibri,Roma 1997, p. 55.
18 Ibid., p. 58.
19 Id., Ultimo dell’anno, in Un giorno o l’altro, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 513-514.
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