Finalmente,
dopo mesi di cronache costruite montando le veline di qualche centro
mediatico internazionale o guardando ciò che accadeva da Suruc (sforzo
comunque apprezzabile, e non ci riferiamo di certo alle delegazioni
internazionaliste arrivate sul confine per esprimere solidarietà e
sostegno ai partigiani curdi), negli ultimi tempi qualche giornalista ha
sfidato l'assedio di Kobane e ci racconta cosa ha visto e sentito nella
città curda aggredita ormai da diversi mesi dalle milizie jihadiste con
la complicità del governo e delle forze armate turche. Lo ha fatto
pochi giorni fa un Corrado Formigli assai più interessante ed efficace
come reporter di guerra che come conduttore di paludate trasmissioni
costruite con il manuale Cencelli alla mano. Lo fa Adib
Fateh Ali in questa cronaca pubblicata oggi dall'agenzia di stampa
Askanews. A parte qualche tocco di colore un po' forzato e qualche
interpretazione non proprio centrata come il richiamo all'internazionale
socialista (sic!) ci sembra che questo reportage dalla città partigiana restituisca
un quadro interessante di una lotta che i media mainstream italiani
hanno rapidamente derubricato, preferendo temi di cronaca locale assai
meno compromettenti per il 'mondo di sopra'. Buona lettura
*** *** *** *** ***
Patriottismo, ideali comunisti e droni Usa: sono questi i componenti
della miscela che sta arginando la marea nera del Califfato di Abu Bakr
al Baghdadi. Kobane è una piccola Stalingrado dei nostri tempi. Dal 16
settembre è accerchiata da tutti i quattro lati: a Est come a Sud e
Ovest è nel mirino dei terroristi islamici. Il confine Nord invece è
presidiato dalla polizia turca che impedisce uscita e ingresso a
chiunque, dai curdi della Turchia che vorrebbero accorrere in rinforzo,
ai reporter stranieri che vogliono vedere da vicino cosa accade a
Kobane. Così, si entra in città di nascosto, attraversando un corridoio
grazie al supporto di un "contrabbandiere".
La notte la si passa in una casa dove alloggiano alcuni combattenti
siriani dell'Unità di Protezione del Popolo (Ypg), che poi non è altro
che la branca siriana del Pkk, il partito separatista dei lavoratori del
Kurdistan turco, messo da Ankara sulla lista delle organizzazioni
terroristiche. Sono tutti giovani, male armati e peggio nutriti. Offrono
una cena a base di "hummus" e "dolmados". Il cibo è scarso ed è in
scatola. Dopo cena Afrin, un giovane con il fazzoletto rosso legato al
capo, canta "Bella ciao" in versione curda. "Qui tutti noi crediamo
nell'Internazionale socialista e combattiamo per difendere la nostra
città ma anche per i valori di libertà e di democrazia nel mondo", dice
al reporter di askanews.
Dopo una nottata in bianco a causa della tensione, del frastuono
delle bombe e dei colpi di mortaio dell'Isis, si esce la mattina con
Surud, dell'ufficio media dell'Ypg. La città ha un aspetto livido. In
giro, solo edifici ridotti in macerie. Grossi veli fissati ai due lati
delle vie che portano a Est, oscurano la visuale ai cecchini del
Califfo. Per muoversi a piedi bisogna districarsi tra le macerie e
centinaia di proiettili di mortaio inesplosi. "Sono fabbricati dai
combattenti ceceni e spesso per fortuna non esplodono", dice Surud.
"Usiamo la polvere da sparo per fare bombe a mano".
Si arriva all'unico forno in funzione. Sono le 8 del mattino:
"Sforniamo 7mila pita al giorno che vengono distribuite gratis ai 3mila
abitanti rimasti e inviati a vari fronti", dice uno degli addetti. Nel
solo presidio medico poco distante ci sono 3 infermieri curdi: "Oggi non
ci sono feriti. Quelli gravi li trasportiamo in Turchia ma lì, in
ospedale, vengono piantonati dalla polizia turca". Poi al "Municipio
provvisorio". In città abitavano almeno 150.000 persone più altrettanti
rifugiati arrivati da altre zone della Siria per sfuggire alle guerra
che dura ormai da quasi tre anni, racconta Goran, il responsabile della
struttura che cerca di risolvere i problemi urgenti degli abitanti
rimasti: tutti anziani e bambini, "chi può usare le armi, sia femmina o
maschio, è al fronte", dice Goran.
Acqua ed elettricità sono state tagliate dall'Isis: "L'acqua la
tiriamo fuori dai pozzi e quella potabile arriva in bottiglia dai
cancelli di confine di Mursitpinar", la parte turca di Kobane. La
battaglia non è finita, dicono i difensori della città. I combattenti
dell'Ypg, con i Peshmerga curdi iracheni, oppongono una feroce
resistenza partigiana, armati con vecchi kalashinkov. Senza giubbotti
anti-proiettili e in scarpe Nike, vanno contro gli Hammer dei jihadisti
armati dagli MG30. Con questi soldati, che sono riusciti a contenere
l'avanzata dell'Isis, c'è anche uno sparuto gruppo di miliziani
dell'Esercito libero siriano: "In tutto sono 34 persone", ci dicono i
curdi. Si tratta delle brigate, braccio armato dell'opposizione
"moderata" siriana inviate a Kobane per espresso volere del premier
turco Recep Tayyip Erdogan che non vuole il predominio del Ypg nella
città. Un perfetto esercito ben organizzato, ma senza paga e senza
orario, a difesa di una città che è diventata un simbolo mondiale con la
sua resistenza ad ogni costo.
"Nessuna organizzazione umanitaria si è presentata da queste parti",
dicono i combattenti. L'unico soccorso può arrivare dal cielo: per due
volte sono stati gli aerei statunitensi a paracadutare aiuti e munizioni
in città. Per arrivare al fronte bisogna attraversare una fitta rete di
cunicoli: si passa da un buco all'altro nei muri delle case fino agli
avamposti dei partigiani curdi che scrutano a occhio nudo il nemico,
sull'altro versante della strada. Nei distretti orientali, nella zona
industriale di Sinaa, in prossimità delle colline di Mushta Nur, nel
quartiere di Misher e nel distretto di Taxa Araban. Gli scontri sono
ravvicinatissimi, si combatte metro per metro. Oggi i jihadisti
"controllano il 30 per cento della città", rispetto al 60% di alcune
settimane fa, dicono i combattenti. Che la situazione sia migliorata per
i difensori della città lo testimonia anche il fatto che le bandiere
nere del Califfato islamico non sventolano più sugli edifici presi
dall'Isis.
"Senti l'odore del piombo", dice il soldato curdo dopo aver centrato
con il suo fucile un jihadista dell'Isis dalla sua postazione sulla
linea del fronte. Il cecchino, nome di battaglia "Caino", è felice:
"Oggi è una giornata fortunata" dice mentre il suo elegante e agile
comandante "Haqqi", gli fa i complimenti ed afferma: "Caino è nato per
uccidere, ne ha uccisi molti di questi tagliatori di teste". Secondo
l'Osservatorio siriano per i diritti dell'uomo, dall'inizio di dicembre i
morti a Kobane sono stati 1.153: di cui 54 civili, 387 combattenti
dell'Ypg, e 712 jihadisti. La battaglia però non è finita. Per vincerla
"abbiamo bisogno di due cose", dice la comandante a difesa della città
Asia Abdullah: la prima "aprire un corridoio umanitario attraverso la
Turchia per far arrivare viveri e medicine"; l'altra è riuscire a "far
giungere al mondo la voce che la nostra battaglia è una lotta di
liberazione partigiana contro un nemico fascista, che minaccia i valori
di democrazia dell'occidente". Anche Mustafà, responsabile media
dell'Ypg, vuole sottolineare il carattere ideologico della battaglia del
partito: "Noi amiamo tutti i colori della vita, specialmente quello
rosso - dice - è per questo che siamo determinati a dare la vita pur di
non far prevalere il nero, colore dei jiahdisti che vuole soffocare
tutti gli altri colori". Mustafà, come molti altri a Kobane, dice che i
raid Usa sono utili, "ma gli americani fanno quanto basta per non
lasciarci morire e non per annientare l'Isis". Appare evidente che a
dare linfa vitale ai combattenti di Ypg, è il Pkk.
Dall'altra parte del confine c'è tutto un popolo, quello curdo
appunto, mobilitato dal Pkk per far giungere clandestinamente attraverso
la frontiera cibo, munizione e armi ai loro compatrioti curdi siriani.
Bandiera del Kurdistan, foto del leader storico del Pkk Apo Ocelan sono
appesi in molte case di Kobane. Patria e Ideologia di un partito
"marxista leninista" accompagnano una guerra di partigiani del XXI
secolo, che promette la prima sconfitta militare dei jihadisti del
califfato nero. L'unica, per ora.
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