Sergio
Bologna, protagonista dell’operaismo e del post-operaismo italiano,
racconta l’evoluzione di un pensiero politico, vario e ricco di
sfaccettature, che attraversa mezzo secolo di elaborazione teorica e
azione militante in Italia, dagli anni Sessanta a oggi. Un pensiero che
ancora oggi mostra tutta la sua potenziale ricchezza ed è capace di
innervarsi con le energie delle nuove generazioni. Perché l’esercizio
del pensiero critico è linfa per la comprensione di ciò che è successo e
motore di ciò che verrà
Il
sistema di pensiero che viene riassunto con il nome di “operaismo
italiano” non è un sistema organico, racchiuso in un testo fondamentale,
in una qualche Bibbia, ma è la somma di diversi contributi teorici
provenienti da alcuni intellettuali militanti che hanno fondato le
riviste “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia”1.
Raniero Panzieri, Mario Tronti, Toni Negri e Romano Alquati sono quelli
che hanno posto le fondamenta del sistema, altri, come Gaspare De Caro,
Guido Bianchini, Ferruccio Gambino, Alberto Magnaghi, hanno portato dei
contributi essenziali su tematiche specifiche che completavano
l’orizzonte del pensiero operaista e gli davano l’impronta di un
“sistema” coerente al suo interno, come la storiografia, l’agricoltura,
le migrazioni, il territorio.
Operaismo e fordismo
L’esperienza dei gruppi operaisti si è sviluppata in un periodo
storico nel quale sembrava che nelle società capitaliste non ci fosse
un’alternativa alla produzione di massa caratterizzata da grandi imprese
in grado di ottenere forti economie di scala.
La grande fabbrica nella quale migliaia di lavoratori svolgevano
operazioni sempre più semplificate – mentre le macchine svolgevano
operazioni sempre più complesse – sembrava il punto d’arrivo di un
processo storico che aveva origine nella nascita dell’industrialismo. La
produzione di massa era il modo migliore per produrre beni che
costavano poco sul mercato e potevano essere acquistati da tutti, in
primo luogo dagli stessi lavoratori che li producevano, anche se si
trattava di beni complessi come l’automobile. Così si creavano le
premesse per realizzare l’insostituibile integrazione alla produzione di
massa, cioè il consumo di massa. Un sistema tanto perfetto e ben
funzionante che era stato adottato anche dai paesi dove aveva trionfato
la rivoluzione comunista. Anzi, la rivoluzione comunista aveva trionfato
in paesi nei quali questo sistema era ancora molto imperfetto, poco
sviluppato o addirittura inesistente, sono stati i governi usciti dalla
rivoluzione a portare a compimento lo sviluppo del sistema della
produzione di massa organizzandola in grandi Kombinat, in complessi
industriali con migliaia di lavoratori, estendendola anche
all’agricoltura. In Occidente questo sistema veniva chiamato per
comodità “fordismo” perché aveva trovato la sua applicazione pratica e
teorica più compiuta nell’organizzazione delle fabbriche dell’automobile
di Henry Ford. L’idea di base dell’operaismo, mutuata ovviamente dalla
teoria marxiana, era che la grande fabbrica con le sue migliaia di
operai potesse trasformarsi in un grande terreno fertile per un progetto
rivoluzionario e diventare da sede della produzione di massa a spazio
liberato dall’oppressione capitalistica. Il capitalismo doveva essere
imprigionato nella sua stessa dimora, le mura della sua casa dovevano
diventare le sbarre della sua prigione. Il lavoro fordista alla catena
di montaggio doveva diventare il terreno di formazione del soggetto
rivoluzionario, dell’operaio massa. Come si vede, l’idea primordiale
dell’operaismo era il calco, l’impronta rovesciata del fordismo. Senza
un’organizzazione sociale come quella della fabbrica fordista
l’operaismo avrebbe avuto difficoltà a elaborare il suo progetto
rivoluzionario, l’operaio massa si formava come classe dentro un sistema
produttivo con particolari caratteristiche tecnologiche, era tutt’uno
con questo sistema, che gli forniva i mezzi di sussistenza. L’operaio
massa era innanzitutto un salariato, la struttura della sua
busta paga era composta da una parte fissa, il salario base, da un parte
variabile, collegata alla produttività e da altre voci che
corrispondevano ad altrettante conquiste contrattuali come il recupero
dell’inflazione, gli assegni familiari, le ore straordinarie, i premi di
produzione, le indennità per lavori notturni o nocivi ecc..
L’organizzazione produttiva fordista non era il sistema dominante solo
all’interno della fabbrica ma proiettava i suoi rigidi schemi anche
sulla società, sulla mobilità urbana ed extraurbana, sugli insediamenti
abitativi, sugli orari dei negozi. Migliaia di operai uscivano al
mattino presto dalle fabbriche dopo aver fatto il turno di notte ed
altrettante migliaia erano in attesa fuori dai cancelli per entrare al
primo turno del mattino. Era questo il momento migliore per distribuire e
diffondere i volantini di “Classe Operaia” e di “Potere Operaio”,
volantini che quasi sempre erano stati scritti su indicazioni fornite da
operai delle stesse fabbriche, dopo un lungo lavoro di “conricerca”, di
dialogo e di scambio di opinioni e informazioni tra militanti operaisti
e operai di fabbrica. L’operaismo quindi è stato in tutto e per tutto
l’immagine rovesciata del fordismo, era tutt’uno con il fordismo, viveva
in simbiosi con esso, non sembrava immaginabile un operaismo senza una
società fordista, senza una produzione di massa, senza l’operaio massa.
Con la morte del fordismo avrebbe dovuto morire anche l’operaismo. La
società postfordista, la società dell’informazione, la società della
prevalenza del terziario e della finanza, del lavoro precario e del
lavoro indipendente, avrebbero dovuto essere incomprensibili a chi si
era formato sul fordismo. L’operaismo avrebbe dovuto estinguersi
lentamente man mano che la figura dell’operaio massa diventava sempre
più marginale nelle società occidentali. Invece ciò non è avvenuto, i
militanti, gli attivisti, gli intellettuali che avevano condiviso
l’esperienza operaista sono stati in grado meglio di altri di cogliere
le caratteristiche della nuova formazione capitalistica – che per
comodità abbiamo chiamato “postfordista”. Anzi, di tutte le
organizzazioni ed i gruppi extraparlamentari degli Anni 70 operanti in
Italia, gli eredi dell’operaismo sono rimasti gli unici a tentare, a
volte con successo, di elaborare una nuova teoria della liberazione
praticabile nella società postfordista, sono gli unici che sono riusciti
a tallonare l’evoluzione del capitalismo da Henry Ford a Steve Jobs,
producendo analisi convincenti e pratica politica sia con il lavoro
salariato sia con il lavoro non salariato. Com’è stato possibile?
Il ruolo dell’intellettuale
Innanzitutto occorre ricordare che l’operaismo non è stato una semplice riproposizione dell’anarcosindacalismo o del Linkskommunismus,
gli operaisti non hanno mai creduto che il sistema capitalista,
assediato da conflitti industriali sempre più estesi, con una classe
operaia sempre più aggressiva, disposta a praticare il blocco della
produzione e di qualunque attività propria del lavoro subordinato,
sarebbe crollato in seguito a uno sciopero generale prolungato e
irreversibile. Queste utopie non appartengono alla tradizione operaista,
anche se le tecniche del conflitto industriale che l’operaismo ha
cercato di promuovere erano le stesse dell’anarcosindacalismo.
L’operaismo non è mai stato indulgente con le semplificazioni, con le
facili parole d’ordine, a costo di apparire esercizio di
intellettualismo, a costo di essere accusato di eccesso di pensiero
astratto. Prima di tutto l’operaismo non ha mai preteso di poter
“insegnare” agli operai la via della rivolta o della rivoluzione, al
contrario, la pratica operaista della “conricerca” vuol dire
semplicemente che il militante deve “imparare” dagli operai, deve
saperli ascoltare, mantenendo però sempre il suo ruolo d’intellettuale,
che gli consente di trasmettere strumenti di pensiero e di analisi che
possono essere utili all’operaio che intende affrontare un percorso
collettivo di liberazione. L’operaismo ha sempre rifiutato
l’atteggiamento populista, che era molto comune tra i militanti dei
gruppi extraparlamentari degli anni 70 in Italia, di camuffarsi da
operai, di vestire la tuta blu per assomigliare agli operai, di
nascondere con vergogna le proprie origini borghesi. Al contrario, chi
ha avuto la fortuna di poter studiare, di frequentare l’Università, di
avere a disposizione strumenti per arricchire le proprie conoscenze, per
sviluppare uno spirito critico, chi ha avuto la fortuna di poter
studiare all’estero, di imparare le lingue, di conoscere meglio e da
vicino il pensiero del capitale, chi ha avuto la fortuna di conoscere la
storia del movimento operaio, il pensiero marxista, ha il dovere
di perfezionare al massimo questi strumenti di conoscenza, di
raggiungere con i suoi lavori i livelli più alti di produzione
scientifica e di mettere a disposizione di tutti ma in particolare dei
lavoratori il suo sapere, le sue conoscenze. Deve concepire se medesimo
come una cellula di una struttura di servizio. Questo
atteggiamento degli operaisti veniva trattato con disprezzo, venivano
chiamati spregiativamente “i professori”, in realtà anche quando i loro
principali esponenti si sono trovati a ricoprire ruoli accademici (da
Negri a Tronti, da Alquati a Gambino, da Bianchini a Magnaghi) hanno
sempre svolto il loro insegnamento come una missione politica, hanno
sempre fatto ricerca come fosse una “conricerca”, hanno sempre parlato e
scritto lo stesso linguaggio nelle loro pubblicazioni scientifiche e
nel materiale di propaganda politica. Il principio regolatore della loro
vita d’intellettuali è stato quello di essere sempre se stessi, non di
sdoppiarsi in un ruolo di professori ed uno di militanti, facendo gli
accademici di giorno e gli operaisti di sera o nei week end. Ed infatti
sono stati gli unici professori universitari ad essere messi in galera o
ad essere espulsi dall’Università. La repressione si è abbattuta in
maniera selettiva su di loro.
La classe operaia come organismo complesso
Da quanto si è detto è facile intuire che il sistema di pensiero
operaista non ama gli schematismi e le semplificazioni, al contrario,
consapevole dell’estrema complessità della realtà capitalistica, cerca
di scandagliare a fondo questa realtà, di rendersi conto dei suoi
aspetti palesi e meno palesi. Potremmo dire che ha una grande
considerazione dell’avversario, sa che deve combattere una potenza
raffinata, brutale e seducente al tempo stesso. Sottovalutare
l’avversario è proprio degli stupidi, destinati a sicura sconfitta. Il
primo aspetto del sistema capitalistico al quale l’operaismo ha prestato
la sua attenzione è stato quello della tecnologia. L’impulso
decisivo lo ha dato Raniero Panzieri con la sua lettura innovativa del
“Frammento sulle macchine” di Marx pubblicato sul n. 1 dei “Quaderni
Rossi”2.
La tecnologia è lavoro incorporato, essa svolge un ruolo ambivalente,
perché “libera” l’operaio da una certa fatica ma al tempo stesso
“sottopone” l’operaio ad un maggiore e più rigido controllo. La
tecnologia ha il potere di plasmare un certo tipo di forza lavoro, di
determinare certe sue caratteristiche professionali, che possono avere
dei risvolti specifici anche nella sua mentalità, nella sua cultura e
quindi nel suo agire politico. L’operaismo dice che la tecnologia ha il
potere di determinare “la composizione tecnica della classe operaia”.
Facciamo un esempio. Nelle fabbriche dell’auto degli anni 70 c’erano dei
reparti nei quali l’operaio aveva un rapporto individuale con la
macchina, ne conosceva tutti i segreti, era in grado di “prepararla”, di
attrezzarla ed era molto orgoglioso di questa sua conoscenza che era
anche la fonte del suo piccolo potere. Si trattava di operai
specializzati con una forte coscienza del proprio ruolo, che venivano
considerati la cosiddetta “aristocrazia operaia” ed in genere erano
anche i più combattivi, moltissimi erano comunisti e consideravano il
loro essere comunisti come una naturale conseguenza del loro essere i
più specializzati, i più qualificati, non solo per quanto riguardava la
macchina loro affidata, una pressa, un tornio, una fresa, una
saldatrice, ma per quanto riguardava l’intero ciclo produttivo;
conoscevano la fabbrica in ogni suo angolo, erano in grado quindi di
organizzare scioperi improvvisi, blocchi della produzione, fermando i
punti nevralgici del ciclo. Trasmettevano il loro sapere ai più giovani
ma al tempo stesso avevano un forte senso della gerarchia, ritenevano
giusto un sistema salariale fortemente differenziato, il giovane doveva
salire gradino dopo gradino la scala della specializzazione. In altri
reparti della fabbrica invece c’erano le catene di montaggio, cioè un
tipo di tecnologia che non permette un approccio individuale, dove
potevano essere inseriti operai e operaie senza nessuna qualificazione. A
Milano agli inizi degli Anni 60 nelle fabbriche elettromeccaniche, dove
il lavoro alla catena non era spesso pesante come nell’auto, nei
reparti del montaggio venivano impiegate le donne, operaie generiche,
pagate ovviamente molto meno degli operai addetti alle macchine. Questa
classe operaia era quella che l’operaismo definì “operaio massa”, con
una mentalità molto diversa dall’operaio specializzato dell’aristocrazia
operaia e quindi con delle rivendicazioni opposte: aumenti salariali
uguali per tutti, abolizione del cottimo individuale. Rivendicazioni che
dovevano suonare come una bestemmia alle orecchie del vecchio operaio
comunista che lavorava come attrezzista sulle macchine individuali.
Cosa succede quando negli Anni 80 la fabbrica si disintegra e poco
alla volta si diffonde e poi dilaga la tecnologia dell’informazione?
Cosa succede quando gli operai di fabbrica, specializzati o meno, operai
massa o meno, vengono in parte sostituiti dai robot, in parte vengono
licenziati perché la produzione si delocalizza verso i paesi emergenti,
perdono la loro forza sociale, la tradizione comunista viene buttata a
mare dai partiti di sinistra e la classe operaia non è più un soggetto
politico? Succede che il mondo del lavoro si adatta alle nuove
tecnologie, viene plasmato dalle nuove tecnologie. Chi proviene
dall’esperienza operaista si trova ad avere degli strumenti
intellettuali in grado di capire cosa sta succedendo. Come prima aveva
osservato il rapporto tra operaio specializzato e macchina individuale o
tra operaio massa e catena di montaggio ora osserva il rapporto tra
personal computer e soggetto che lo sta utilizzando, mette a confronto
due modi di lavorare totalmente differenti, un modo di lavorare
fordista, inquadrati in una rigida organizzazione che comprende migliaia
di persone in spazi dedicati, ed un modo di lavorare solitario, senza
spazi dedicati, capace di determinare i propri ritmi e di accedere in
permanenza ad un universo d’informazioni potenzialmente infinito. Al
primo momento l’uomo che lavora al personal computer gli appare come un puzzle.
E’ un uomo libero? Ha un grado di libertà maggiore dell’operaio schiavo
della catena di montaggio? Apparentemente sì. E’ un uomo che ha potere?
Potere di negoziazione nei confronti del suo datore di lavoro, quanto
ne avevano gli operai che collettivamente fermavano la produzione e
trattavano con la direzione? Apparentemente no, anzi sicuramente no, il
potere sociale lo si ottiene solo con la coalizione, l’individuo da solo
è sempre subalterno. Come dice Michel Serres, “la connettività ha
sostituito la collettività”, il lavoratore non vive insieme ad altri
lavoratori come lui, a tu per tu, è connesso con altri
lavoratori dei quali non conosce né il volto né la voce ma solo
l’indirizzo mail. La massa d’informazioni che può procurarsi tramite
Internet gli conferisce maggiore potere, maggiore capacità di
negoziazione rispetto all’operaio che, schiavo della macchina, non aveva
la possibilità di accedere al mondo dell’informazione? No, non ha
maggior potere, il solo vantaggio che può avere nei confronti del
lavoratore subordinato, operaio o impiegato che sia, è quello di potere
usare quelle informazioni per vivere come lavoratore indipendente, come
non salariato. Sono bastate quindi poche domande che il vecchio
operaista ha rivolto a se stesso sulla natura del lavoro postfordista
per capire che il capitalismo aveva fatto un enorme salto in avanti
nella capacità di controllare la forza lavoro; il nuovo soggetto, al
quale mancava ancora un nome, non aveva soprattutto la possibilità
immediata di coalizzarsi, di porsi in maniera negoziale con il datore di
lavoro, anzi non sapeva chi fosse il suo datore di lavoro, se medesimo o
una terza persona? Per immaginare un percorso di liberazione era
necessario ricominciare daccapo, mantenendo fermo però il punto di
partenza, quello che tutti ritenevano ormai superato: il problema del
lavoro. Era ancora possibile immaginare un percorso di liberazione
partendo dal lavoro? Era ancora possibile vedere nell’uomo del personal
computer un lavoratore o questa parola “lavoratore”, worker, Arbeiter,
travailleur, trabajador, doveva essere cancellata dal vocabolario,
perché appartenente ad un’epoca ormai tramontata, cioè all’epoca
fordista?
L’idea di lavoro nel postfordismo
La forza dell’elaborazione teorica operaista consiste, come si è
detto, nell’affrontare la complessità dei problemi, nell’andare a fondo
delle cose, evitando le semplificazioni, le scorciatoie. L’esempio più
illuminante lo si può vedere osservando come gli operaisti trattavano il
concetto di classe operaia. Per la maggior parte dei militanti politici
degli anni 60 e 70 il termine “classe operaia” era una specie di
mantra, una parola magica onnicomprensiva. Bastava richiamarsi alla
classe operaia per essere considerato una persona appartenente alla
“Sinistra”, al movimento operaio, per essere considerato un comunista.
Per gli operaisti invece la classe operaia era un universo inesplorato,
estremamente differenziato e complesso o, meglio, era il punto di arrivo
di un processo lunghissimo, irto di ostacoli, nel corso del quale la
forza lavoro prendeva coscienza del proprio ruolo e della propria forza e
si presentava sulla scena della società come un protagonista, non come
l’appendice del sistema di produzione capitalista. Come ho avuto modo di
scrivere in un mio saggio sull’operaismo, “il lavoro collettivo che la
pattuglia operaista stava conducendo a contatto diretto con il mondo
della produzione di fabbrica cercava di andare a fondo dei diversi piani
che compongono il sistema dei rapporti di produzione: l’organizzazione
sequenziale del ciclo produttivo, i meccanismi gerarchici che esso
produce spontaneamente, le tecniche di disciplinamento e di integrazione
che vengono elaborate, l’evoluzione delle tecnologie e dei sistemi di
lavorazione, le reazioni ai comportamenti spontanei della forza lavoro,
le dinamiche interpersonali all’interno del reparto, i sistemi di
comunicazione degli operai durante l’orario di lavoro, la trasmissione
dei saperi dagli operai più anziani a quelli più giovani, la formazione
di una cultura del conflitto, le divisioni interne alla forza lavoro,
l’uso delle pause e dell’orario di mensa, i sistemi retributivi e la
loro applicazione differenziata, la presenza del sindacato e le forme di
propaganda politica, la coscienza del rischio e i metodi per tutelare
la propria integrità fisica e la propria salute, il rapporto con i
militanti esterni, il controllo dei tempi e il rapporto con il cottimo,
l’ambiente di lavoro e via dicendo”3.
L’uomo con il personal computer, in quanto lavoratore, cioè persona che
cede un determinato prodotto intellettuale a terzi in cambio di una
retribuzione per poter sopravvivere, doveva presentare la stessa, se non
maggiore, complessità. Cominciamo dalle cose più semplici. Per esempio:
quale forma assume la sua retribuzione? La vecchia forma del salario
oppure la forma dell’onorario? Viene pagato a ore o a prestazione
professionale? Ha un orario di lavoro? I parametri fondamentali per
definire un lavoratore sono il salario e l’orario, la sua vita privata,
la sua esistenza personale, la sua quotidianità, i suoi consumi, i suoi
rapporti di coppia, il suo standard di vita sono determinati in tutto o
in parte da questi due parametri. E’ una visione molto materialista,
rozzamente materialista, alla quale l’ideologia della modernità oppone
la teoria che ciò che conta nell’individuo non è la sua condizione
materiale ma è la sua personalità, il suo carattere, se è ottimista o
pessimista, socievole o scontroso, seducente o scostante, portato alla
leadership o sottomesso, espansivo o silenzioso, disinvolto o timido,
che ha “carattere” o non ne ha. Ma, a ben vedere, il più rozzo
materialismo è meno ingannevole del soggettivismo esasperato,
dell’individualismo sterile e illusorio, che sono, a ben vedere,
dispositivi ideologici che hanno lo scopo di dissolvere la nozione di
“lavoro”. La concezione moderna di lavoro contenuta nell’ideologia della
modernità è che esso non è più un’attività umana conto terzi in cambio
di mezzi di sussistenza ma attività in cui l’individuo estrinseca la
propria personalità, conosce meglio se stesso, è quasi un incontro
mistico. “Il lavoro è un dono di Dio” ho sentito un giorno dire da un
dirigente sindacale cattolico, il lavoro non rientra nel mondo delle
merci ma in quello della psicologia umana. Da questa ideologia nasce
l’idea del lavoro come “dono” dell’individuo alla collettività, nasce la
giustificazione del lavoro gratuito, del lavoro malpagato. Il principio
marxista che considera il lavoro il terreno primordiale sia
dell’antagonismo sociale che della cooperazione tra individui, il
terreno sia del conflitto che della solidarietà, viene completamente
cancellato.
White collar e knowledge worker
Che nome diamo all’uomo con il personal computer? Abbiamo accettato
il nome che gli aveva affibbiato l’ideologia dominante, knowledge
worker, ci sembrava utile perché conteneva la parola “worker” e quindi
nessuno poteva negare che si trattasse di una persona la cui essenza
viene definita dal lavoro. Abbiamo cominciato a ragionare su questa
definizione. Poteva assomigliare al white collar del fordismo? La
risorsa analitica che potevamo mettere in campo era quella delle
inchieste sui tecnici di produzione apparse sin dai primi numeri di
“Classe Operaia” e poi divenute una costante della teoria e della
pratica operaista. Quanto più complessa diventava la tecnologia, quanto
più sofisticate diventavano le macchine, tanto maggiore era l’importanza
della forza lavoro dotata di conoscenze tecniche. Il capitalismo
incorporava dentro i suoi processi produttivi sempre maggiori contenuti
scientifici, la produzione industriale di massa aveva alle spalle i
laboratori di ricerca delle università e dei reparti specializzati delle
aziende. I tecnici potevano essere rappresentati come una nuova classe,
che avrebbe potuto avere uno sviluppo analogo a quello della classe
operaia. Già nella storia del movimento operaio, durante i movimenti
rivoluzionari dei consigli alla fine della prima guerra mondiale, i
brain worker avevano svolto un ruolo positivo ed erano stati considerati
dal comunismo delle origini una componente essenziale della classe
rivoluzionaria. Non è un caso che l’operaismo, durante le rivolte
studentesche del ’68, era più diffuso nella facoltà scientifiche che in
quelle umanistiche. Ma l’uomo con il personal computer non poteva esser
definito banalmente un white collar perché il mondo del lavoro non era
costituito soltanto da lavoro subordinato, da lavoro salariato, bensì da
tanti lavoratori indipendenti che fornivano le loro prestazioni, anche
se avevano un solo committente, lavorando a casa o in spazi di coworking
o in un caffé Starbuck. Il white collar condivideva con gli operai gli
spazi dell’azienda, aveva orari di lavoro simili, era a contatto
quotidiano con i problemi della produzione. Ci trovavamo di fronte ad un
mutamento antropologico, non solo a un mutamento sociologico. Se
avessimo dovuto ragionare ancora in termini sociologici avremmo dovuto
dire che la divisione chiara tra classi che il sistema fordista aveva
determinato non era più riconoscibile nella società dell’informazione e
quindi i nostri parametri dovevano cambiare. Restava fermo invece il
punto di partenza, cioè la convinzione che la tecnologia ha un effetto
fortissimo sulla vita e la mentalità del soggetto che usa questa
tecnologia per stare nel mondo, per lavorare, per guadagnarsi da vivere,
per comunicare. Il nostro interesse, la nostra analisi, dovevano
concentrarsi sulla figura del knowledge worker e scandagliare le
caratteristiche intrinseche a quella moltitudine che formava la nuova
middle class, un aggregato sociale che ormai non aveva più i valori
della vecchia borghesia, che non era più capace di sfruttare il lavoro
altrui perché ancora non capiva come faceva a non sfruttare se stesso.
L’estrazione di plusvalore ormai si trasferiva sempre più dalla sfera
produttiva alla sfera finanziaria, le enormi disuguaglianze di reddito
che sempre più si accumulavano nelle società capitaliste,
l’impoverimento progressivo della middle class, si spiegavano meglio
analizzando le dinamiche finanziarie che quelle della produzione di
massa. Anche su questo terreno l’operaismo poteva mostrare una sua
superiorità, perché, unico tra le componenti dei movimenti di protesta
degli Anni 70, aveva affrontato le problematiche della politica
monetaria e dei grandi flussi finanziari internazionali, soprattutto con
il lavoro svolto dalla redazione della rivista “Primo maggio”.
Il caso italiano
Infine, la ragione forse decisiva per la quale l’operaismo ha avuto
gioco facile nel comprendere la natura del postfordismo è stata la sua
origine italiana. Tra tutti gli stati del capitalismo avanzato l’Italia è
stata il paese che ha portato avanti la disgregazione della grande
fabbrica in maniera più radicale. L’Italia è stata all’avanguardia nel
cosiddetto “decentramento produttivo”, nella frammentazione dell’impresa
in tante piccole e minuscole aziende artigiane. Nel giro di un
decennio, dal 1980 al 1990, l’Italia diventa il paese dei “distretti
industriali”, aree specializzate in determinate produzioni, soprattutto
in produzioni a basso valore aggiunto (tessile-abbigliamento, cuoio e
calzature, arredo per la casa), caratterizzate dalla presenza di piccole
e medie imprese. Il sistema del decentramento produttivo comporta due
vantaggi rispetto alla fabbrica fordista: diminuisce i costi di
produzione e riduce il rischio di conflitti industriali. Una parte delle
lavorazioni vengono date in outsourcing, spesso agli stessi operai che
vengono trasformati in artigiani fornitori, il numero dei dipendenti
diminuisce drasticamente e si riduce la massa salariale e l’effetto di
rivendicazioni sindacali. Siamo a metà tra fordismo e postfordismo o, se
vogliamo, siamo in presenza di un postfordismo “dall’alto”. I vantaggi
di questo sistema consentono la formazione anche di grandi imprese
multinazionali, come Benetton e Luxottica. I distretti industriali si
diffondono in particolare nelle regioni a forte controllo sociale, nel
Veneto cattolico e nell’Emilia Romagna comunista. Il Partito Comunista
Italiano sposa l’ideologia del decentramento produttivo come un
“capitalismo dal volto umano” sostenibile perché privo di conflitti, il
fine principale di una comunità civile sembra quello, dopo il decennio
di forti conflitti e scontri di classe, della pace sociale. Gli
intellettuali che provengono dall’esperienza operaista colgono
immediatamente questa trasformazione, che viene accentuata e resa più
radicale anche dai movimenti di protesta del ’77, i quali rappresentano
con le tematiche della soggettività, dell’ambiente, del rifiuto del
lavoro normato, disciplinato, irreggimentato, una specie di postfordismo
“dal basso”, un desiderio di liberazione che non teme di contrapporsi
alla stessa classe operaia. Sin dalle prime grandi ristrutturazioni di
aziende dell’auto (Innocenti di Milano, anni 1974-75) con l’uso
massiccio della Cassa Integrazione, gli operaisti seguono da vicino
queste trasformazioni, l’analisi del decentramento produttivo è uno dei
temi centrali sia di riviste come “Primo Maggio” che di gruppi
universitari di ricerca, in particolare a Milano alla Facoltà di
Architettura dove insegna Alberto Magnaghi4.
Non sono gli unici, anzi molti laboratori universitari, nel Veneto, in
Emilia Romagna, in Toscana, nel Mezzogiorno, seguono con interesse la
trasformazione del modello fordista, la differenza sta che nell’analisi
dei gruppi che mantengono il retaggio dell’operaismo il decentramento
produttivo viene visto come un attacco all’unità della classe operaia,
come una rivincita del capitalismo dalle sconfitte dell’”autunno caldo”,
mentre gli altri gruppi di ricercatori vedono nel decentramento
produttivo solo una nuova frontiera del capitalismo, con molti risvolti
positivi. E’ il periodo in cui Toni Negri promuove il movimento di
Autonomia e teorizza l’emergere dell’”operaio sociale”. Quindi la
percezione del cambiamento e di un cambiamento epocale è, si può dire,
immediata. Il movimento del ’77 sembra per un momento intravedere uno
sbocco libertario del postfordismo, ma è solo una fiammata, l’anno
successivo i gruppi della lotta armata alzano il tiro e raggiungono
l’apice della loro azione con il rapimento Moro (marzo 1978). Un anno
dopo, il 7 aprile 1979, parte l’ondata di arresti di tutti i militanti
del disciolto “Potere Operaio”. Non ci sarà più nessuna “via libertaria
al postfordismo”, il cambiamento di paradigma del capitale porterà solo
ed unicamente il segno della rivincita di classe.
L’operaismo e le nuove generazioni degli Anni 90
Per un decennio la talpa operaista smette di scavare. In realtà “il
periodo d’oro” dell’operaismo si era chiuso già da un pezzo. Per Tronti,
Asor Rosa, Cacciari ed altri si era chiuso già prima del ’68 con il
loro ingresso nel PCI, per Negri ed altri compagni si era chiuso
probabilmente con lo scioglimento di “Potere Operaio”5.
Non c’è mai stata una discussione sulla periodizzazione storica
dell’operaismo, non ci sono dubbi sulla sua data di nascita ma non c’è
nessun accordo sulla sua data di morte, anche perché una teoria politica
che è anche una metodologia conoscitiva non muore mai finché c’è
qualcuno che ritiene utilizzabili i suoi strumenti analitici e le sue
conseguenze pratiche. Sicché possiamo ben parlare di un “post-operaismo”
intendendo con questo il riaffiorare di un interesse per i suoi
paradigmi presso una nuova generazione di militanti e di ricercatori
nati alla fine degli Anni Sessanta e che all’inizio degli Anni Novanta
avevano vent’anni. La rivista “Primo Maggio” è stata senza dubbio
un’iniziativa culturale che esplicitamente si richiamava all’operaismo,
le sue pubblicazioni cessano nell’autunno 1988 con il numero 29, ma
proprio negli ultimi anni, quando a dirigerla erano Cesare Bermani e
Bruno Cartosio, s’erano avvicinati alla redazione alcuni giovani che in
seguito avrebbero avuto un ruolo nella critica al postfordismo e nei
tentativi di organizzare il precariato, il lavoro cognitivo, all’interno
dei centri sociali6.
Altri si erano buttati a capofitto nell’informatica e nella cultura
digitale contribuendo a creare l’area italiana del movimento cyberpunk e
del movimento hacker, avendo come punto di riferimento iniziale la
Libreria Calusca di Primo Moroni a Milano, che era stata anche il centro
propulsore della distribuzione di “Primo maggio”. Raffaele “Valvola”
Scelsi e Ermanno “Gomma” Guarneri7
saranno tra i fondatori della rivista “Decoder” e poi della casa
editrice Shake, che ha svolto un ruolo fondamentale nella diffusione
della “civiltà del computer” e della cultura digitale. Essi, assieme a
Rosie Ficocelli, Paola Mezza e Marco Philopat (il quale fonderà poi una
propria casa editrice), appartengono alle nuove generazioni fortemente
influenzate dall’operaismo, che intraprenderanno dei percorsi politici
originali e innovativi. Altri ancora avevano avuto come maestri e
docenti universitari i fondatori dell’operaismo e quindi facevano tesoro
del loro insegnamento, come Devi Sacchetto, allievo di Ferruccio
Gambino, o Emiliana Armano, allieva di Romano Alquati, che oggi è tra le
ricercatrici più attive a livello internazionale sulle tematiche del
precariato8.
Questa nuova generazione, nata e cresciuta nel postfordismo, si serve
per la sua crescita teorica e per le sue prime produzioni di saggi e di
riflessioni della rivista “Altreragioni”, nata nel 1991 nel clima di
tensione politica creato dalla guerra del Golfo, per iniziativa di
alcuni tra i primi collaboratori di “Classe Operaia”, di “Quaderni
Piacentini” e dell’Istituto Ernesto de Martino. Michele Ranchetti, uno
dei più importanti intellettuali italiani del dopoguerra, storico,
saggista, direttore editoriale, pittore, poeta, musicista, Franco
Fortini, poeta, scrittore, critico letterario, già vicino ai “Quaderni
Rossi”, Edoarda Masi, sinologa, bibliotecaria, saggista, collaboratrice
di “Quaderni piacentini” assieme a Sergio Bologna, Ferruccio Gambino,
Pier Paolo Poggio, Lapo Berti, Guido De Masi, Cesare Bermani, Bruno
Cartosio, Primo Moroni, Giovanna Procacci (tutti nomi che troviamo anche
tra i collaboratori di “Primo Maggio”) ed altri lanciano l’iniziativa
della rivista “Altreragioni” alla quale si avvicinano immediatamente i
giovani della nuova generazione che aveva subìto l’influsso
dell’operaismo. Uno di questi è Andrea Fumagalli, che negli anni
successivi, assieme alla compagna Cristina Morini (che apre la
discussione sulla femminilizzazione del lavoro, ndr.), rappresenterà un
punto di riferimento teorico e politico dei movimenti del precariato e
del “cognitariato” (pensiamo all’esperienza di San Precario e della
MayDay, ndr.). Dopo i primi numeri la rivista sarà diretta da Ferruccio
Gambino e Giovanna Procacci, mentre Sergio Bologna, Primo Moroni, Lapo
Berti, Christian Marazzi, Pier Paolo Poggio, Mavì Defilippi, Marco
Cabassi ed altri daranno vita ad un’altra iniziativa che ha avuto una
certa importanza nel raccogliere l’eredità operaista, la “Libera
Università di Milano e del suo Hinterland (LUMHI)”. Due i temi centrali
della sua attività culturale: la battaglia contro il revisionismo
storico e la definizione dei soggetti sociali del postfordismo.
Dall’attività della LUMHI nasce in co-edizione Shake-Feltrinelli l’opera
collettiva che rappresenta una svolta nell’analisi di classe
post-operaista: “Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del
postfordismo in Italia” a cura di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli9. E’ il 1997, vecchia e nuova generazione hanno trovato qui un terreno comune di dialogo e di produzione analitica.
Le tesi e le ricerche di alcuni ex militanti dei gruppi operaisti
riguardanti la condizione dell’uomo moderno nel postfordismo e
nell’economia del debito hanno trovato largo riscontro anche sul piano
internazionale, è il caso per esempio di Maurizio Lazzarato, che si era
laureato a Padova ed aveva avuto come insegnanti Toni Negri, Ferruccio
Gambino, Ferrari Bravo e Sergio Bologna. La nuova generazione affronta
anche la storia dell’operaismo, comincia a scriverla a partire dalle
testimonianze dei principali protagonisti10.
Dall’estero, non soltanto dall’Italia, arrivano altri contributi che,
riflettendo sulla storia dell’operaismo, ne vogliono trarre, come
“Storming Heaven” di Steve Wright11,
un bilancio culturale e politico. Oggi la fonte principale per i
documenti originali dell’operaismo è la collana “Biblioteca
dell’operaismo” della casa editrice Derive&Approdi di Roma, fondata
da un compagno di “Potere Operaio”, Sergio Bianchi.
Uno studio di caso sul passaggio da una società industriale fordista a
una società del terziario avanzato in un quartiere di Milano è stato
analizzato nel documentario di Sabina Bologna “Oltre il ponte. Storie di
lavoro”12.
Il ruolo della Libreria Calusca di Milano
A questo punto è necessario mettere a fuoco il ruolo molto importante
che ha avuto Primo Moroni e la sua Libreria Calusca nel creare un ponte
tra la cultura operaista e le nuove generazioni13.
La Libreria, durante gli anni 70 e 80, ha svolto una funzione
difficilmente classificabile con i parametri tradizionali delle
organizzazioni culturali. E’ stata un luogo d’incontro, di convergenza,
di dialogo tra tendenze politiche le più diverse, ma con un’accentuata
simpatia per il filone operaista, per i diversi filoni anarchici, per le
tendenze situazioniste e internazionaliste. Tradizioni e tendenze, come
si vede, fortemente diverse tra di loro o anche conflittuali ma che
trovavano accoglienza e rifugio (nei tempi duri) in un luogo che era
straordinario perché eccezionale era la personalità del suo titolare,
Primo Moroni, uomo di grande cultura e di ancora maggiore sensibilità
per l’innovazione culturale, pur non avendo nessuna formazione
universitaria. Ex ballerino del varietà, ex rappresentante librario,
figlio di ristoratori toscani immigrati a Milano, cresciuto in quartieri
popolari dove la piccola malavita locale aveva modi e codici di onore
molto diversi da quelli della mafia, dove magari si rubava ai ricchi per
dare ai poveri, ultima propaggine di quella “mala” milanese che agli
inizi del ‘900 popolava i quartieri del Ticinese e viveva in simbiosi
nelle “case di ringhiera” con il proletariato industriale e
l’artigianato tradizionale fortemente influenzati dal socialismo. Ladri,
rapinatori, ricettatori, prostitute indipendenti, scassinatori, falsari
vivevano accanto alla pellicciaia, al tipografo, all’operaio
elettromeccanico, al bottaio, al falegname e formavano un amalgama molto
resistente alla mentalità della società borghese. Erano i componenti di
un’unica cultura proletaria che difendeva le sue prerogative ed
ammetteva al suo interno le pratiche di illegalità e di esproprio.
Attorno a questo mondo sono sorti miti e leggende, è nato un vero e
proprio Canzoniere che negli anni 60 e 70 è tornato di moda, soprattutto
tra i movimenti di protesta che esaltavano molte forme di illegalità.
Primo Moroni era capace di dialogare sia con le ultime tracce di questo
mondo sia con gli intellettuali di “Classe Operaia”. Egli riconosceva
nell’operaismo il sistema di pensiero politico più innovativo, ne era
affascinato, così come era attratto dal pensiero situazionista. Quando
nel 1973 gli presentammo il nostro progetto di “Primo maggio” ne colse
immediatamente la ricchezza d’idee ed il rigore scientifico e divenne
l’editore e il distributore della rivista. Quando, dopo il 1971/72,
iniziarono le prime azioni di guerriglia urbana e fecero la loro
comparsa le Brigate Rosse e altri gruppi armati, Primo Moroni non esitò a
tenere in libreria e a diffondere le loro pubblicazioni e i loro
scritti; quando le carceri cominciarono a riempirsi di compagni che
militavano nei gruppi extraparlamentari la Libreria di Moroni divenne un
punto di riferimento per l’invio di materiali di lettura nelle carceri.
Fu così che la rivista “Primo Maggio” ebbe una diffusione ampia nelle
prigioni (circa 500 copie per numero venivano inviate in carcere su
richiesta dei detenuti). Questa attività naturalmente portò gli
inquirenti e la polizia a considerare “Primo maggio” una rivista vicina
al terrorismo e solo grazie a delle prese di posizione decise di alcuni
membri della redazione, anche nei confronti di Toni Negri, fu possibile
evitare l’identificazione tra la nostra rivista e i gruppi
dell’Autonomia o i gruppi armati. Negli Anni 80 e 90 tutta la
controcultura giovanile delle nuove generazioni che entravano nell’èra
digitale faceva riferimento alla Calusca, la quale nel frattempo era
diventata anche una struttura di soccorso ai vecchi militanti che
scontavano molti anni di carcere, soprattutto a quelli privi di ogni
sostegno, senza organizzazioni di riferimento, che avevano perduto
tutto, casa, famiglia, lavoro. Abbiamo visto spesso queste persone,
sempre ex operai o comunque gente di origine proletaria, uscire dal
carcere a Milano, magari dopo vent’anni trascorsi nelle prigioni di alta
sicurezza di tutta Italia e, non sapendo dove rivolgersi per un aiuto,
arrivare in Libreria Calusca a chiedere un prestito per un biglietto del
treno, in modo da andare sulla tomba dei genitori morti nel frattempo
in qualche paesino del Sud. In Primo Moroni trovavano sempre solidarietà
proletaria. La sua Libreria dunque metteva insieme i superstiti della
cultura operaista, i giovani dei centri sociali e dei movimenti
cyberpunk, i reduci della lotta armata ma anche moltissime persone di
autentici sentimenti democratici, docenti universitari, professionisti,
insegnanti. La Calusca era una specie di “zona franca” dove persone
diversissime e ambienti che non avevano alcun contatto tra di loro
s’incontravano e si rispettavano. Primo Moroni era un grandissimo
affabulatore, non ha scritto molto ma ha rilasciato molte interviste e
testimonianze. Senza Primo Moroni l’operaismo non avrebbe mai raggiunto
le giovani generazioni dell’èra digitale.
Il post-operaismo e la sindacalizzazione dei self employed
La caratteristica specifica del pensiero dell’operaismo è la sua
stretta aderenza alla realtà, è il suo rapporto costante con l’azione,
con la pratica militante. Gli scritti della tradizione operaista non
sono destinati alla mera lettura o alla mera propaganda, il loro rigore
scientifico non è destinato alla valutazione accademica, il loro
messaggio è un messaggio puramente politico, esso deve produrre
azione, mobilitazione, conflitto, confronto. L’analisi non deve restare
pura analisi, non avrebbe alcun senso se restasse allo stadio di
analisi, anche la più sofisticata. L’analisi può essere anche parziale,
insufficiente, ma deve produrre mobilitazione, deve risvegliare le coscienze, deve mettere
in moto delle dinamiche soggettive che portano le persone a tutelare e
difendere i propri diritti, la propria dignità, sul lavoro, nei rapporti
di lavoro. Le analisi contenute nel volume “Il lavoro autonomo di
seconda generazione” sono state anche duramente criticate dalla
sociologia accademica, con qualche ragione, ma quelle pagine hanno
trovato ascolto in coloro che cominciavano a muoversi per conto proprio
per costituire una rappresentanza sindacale dei self employed. E così
doveva essere. Se la critica accademica è arrivata a definire
sprezzantemente le nostre analisi del lavoro autonomo come
“inutilizzabili”14
a noi non importa gran che, ne prendiamo atto ma l’importante per noi è
che le nostre analisi vengano comprese, assimilate e condivise da
coloro i quali vivono di lavoro autonomo, da coloro che del lavoro
indipendente non salariato fanno dipendere la loro sopravvivenza. Queste
persone hanno saputo utilizzare le nostre analisi ed hanno smentito in
tal modo la critica accademica. Alla fine degli Anni 90 negli Stati
Uniti e agli inizi del nuovo Millennio in Italia si sono costituite
delle associazioni di difesa dei lavoratori indipendenti, dei freelance,
i quali storicamente sia al di qua che al di là dell’Atlantico sono
sempre stati esclusi dal welfare state e dallo stesso diritto del lavoro
perché considerati “imprese”. Poiché queste figure professionali,
esplose con l’avvento dell’informatica, appartengono socialmente alla
lower middle class, l’identificazione con il mondo dell’imprenditoria
piuttosto che con il mondo dei lavoratori è stata un pesante retaggio
della loro cultura borghese. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori
dipendenti non li hanno mai presi in considerazione, non li hanno
considerati come soggetti facenti parte del mondo del lavoro. Solo in
epoca assai recente, negli ultimi due anni, in Italia il sindacato CGIL,
timoroso di vedersi sfuggire di mano una rappresentanza di questi
gruppi sociali che avevano iniziato ad autoorganizzarsi, ha cominciato a
creare dei gruppi di lavoro dedicati ai professionisti ed ai self
employed. Il post operaismo è riuscito quindi a cogliere questa
trasformazione del mondo del lavoro, è riuscito a dare un pensiero
collettivo ai self employed, a renderli consapevoli della loro identità
di lavoratori, ha dimostrato l’assurdità di considerare una persona come
un’impresa (the one-man/one woman business), l’impresa è sempre
un’organizzazione complessa di cooperazione tra più persone con diversi
ruoli per la creazione di profitto in cambio dell’erogazione di salari.
Quali sono le principali rivendicazioni dei self employed? In primo
luogo il riconoscimento del loro diritto, come cittadini, a
un’assistenza pubblica in caso di malattia, a sussidi di disoccupazione e
ad un trattamento fiscale pari a quello dei lavoratori dipendenti15.
L’attività di pressione che le associazioni di difesa dei diritti dei
self employed ha esercitato in Europa negli ultimi cinque anni ha
ottenuto qualche risultato, in particolare la dichiarazione del
parlamento europeo del gennaio 2014 nella quale si afferma che tutti i
cittadini hanno gli stessi diritti indipendentemente dal lavoro che
svolgono16.
Molto maggiore ampiezza ha assunto invece la sindacalizzazione dei
freelance negli Stati Uniti grazie a una donna, Sara Horowitz, che negli
ultimi anni del Novecento ha saputo creare la Freelancers Union (FU),
che oggi conta quasi 250 mila iscritti. Grazie al sostegno finanziario
di molte Fondazioni private, la FU ha costituito una Insurance Company
che offre ai soci copertura finanziaria e assistenza in caso di malattia17.
In Italia l’associazione che ha recepito le analisi post operaiste è
l’Associazione Consulenti Terziario Avanzato (ACTA), fondata a Milano
nel 2003, purtroppo ancora molto piccola, circa 2000 soci, ma
riconosciuta come sister organization dalla Freelancers Union18. ACTA è membro anche dell’European Forum of Independent Professionals, di cui detiene la Vicepresidenza19.
Se nella storia del movimento operaio dei salariati la
sindacalizzazione si accompagnava sempre a un’adesione alle idee
socialiste, nella sindacalizzazione dei self employed prevale
l’apoliticità, ma anche perché non esiste più una forza politica di
sinistra a livello europeo. In Italia, per esempio, dove esisteva il più
forte Partito Comunista dell’Occidente, non c’è più traccia di un
pensiero sociale d’ispirazione marxista, se non in movimenti sociali che
non sono rappresentati in Parlamento. Il Partito Democratico, che è in
parte l’erede del vecchio Partito Comunista e che nel corso degli anni
ha cambiato nome più volte per cercare di cancellare le tracce delle sue
origini marxiste, è oggi una formazione politica che sposa interamente
le dottrine neoliberali delle lobbies finanziarie. Essere apolitici non
significa non avere idee politiche ma non riconoscersi nei partiti
rappresentati nel Parlamento.
Conclusioni
Il pensiero operaista ha dimostrato di sapersi rinnovare e di saper
interpretare le grandi trasformazioni della società e dei modi di
lavorare. Ma le speranze dell’operaismo, i valori morali, civili e
sociali per i quali si era battuto sono stati brutalmente combattuti ed
emarginati, quasi cancellati, dal pensiero neoliberale dell’epoca
postfordista ed in particolare dalle classi dirigenti italiane di
origine cattolica, socialista o liberale. La sistematica persecuzione
dei militanti di “Potere Operaio”, talvolta più ossessiva di quella
rivolta contro i militanti della guerriglia urbana, l’emarginazione del
pensiero operaista dalla scena culturale ed accademica non sono riusciti
tuttavia a impedire che le nuove generazioni riconoscessero in quel
pensiero uno strumento utile di liberazione. Le classi dirigenti che
hanno combattuto con stupido accanimento l’operaismo sono le stesse che
hanno trascinato l’Italia nella condizione miserevole, sia dal punto di
vista economico che dal punto di vista civile, di oggi. Il 40% di
disoccupazione giovanile non è forse l’aspetto più grave della miseria
delle nuove generazioni, il precariato di milioni di persone, i bassi
salari, gli stages gratuiti, oltre all’assenza di tutele, sono
altrettanto, se non ancora più gravi. Se finalmente un giorno questa
massa di cittadini umiliati troverà la forza di ribellarsi, il pensiero
operaista e post-operaista tornerà ad avere un’ampia diffusione e forse
avrà ancora lunga vita.
Note
1 Per coloro che hanno partecipato alla nascita del pensiero
operaista scriverne la storia non è facile, si rischia sempre
d’introdurre delle forzature soggettive; pertanto questo articolo va
interpretato come una testimonianza piuttosto che una ricostruzione
storica; forse per una deformazione professionale ho cercato altre volte
di scrivere la storia dell’operaismo in forma di testimonianza, v.
Sergio Bologna, Workerism: An inside View. From the Mass-Worker to Self-employed Labour,
in “Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations of the
Twenty-First century”, ed. by Marcel van den Linden and Karl Heinz Roth,
in collaboration with Max Henninger, Brill, Leyden-Boston 2014, p.
121-143; il testo italiano è pubblicato in “L’altronovecento. Comunismo
eretico e pensiero critico. Vol. III, Il sistema e i movimenti, Europa
1945-1989”, a cura di Pier Paolo Poggio, Jaca Book, Milano, 2011, pp.
205-222. L’opera più completa sulla storia dell’operaismo è “L’operaismo
degli Anni Sessanta. Da ‘Quaderni Rossi’ a ‘Classe Operaia’”, a cura di
Giuseppe Trotta e Fabio Milana, introduzione di Mario Tronti,
Derive&Approdi editore, Roma 2008, in allegato un CD con tutta la
collezione di “Classe Operaia”.
2 Raniero Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in “Quaderni Rossi”, n. 1, p. 53 sgg, 1961.
3 “L’altronovecento” cit., vol III, pp. 205-206, testo inglese in “Beyond Marx” cit., p. 122.
4 Queste analisi sono state pubblicate per la maggior parte sulla
rivista “Quaderni del Territorio”, fondata da Alberto Magnaghi e durata
dal 1975 al 1979. Sono appena usciti in una nuova edizione i quaderni
dal carcere che Magnaghi ha scritto tra il 1979 e il 1982, durante la
sua detenzione nelle prigioni di Milano e di Roma, “Un’idea di libertà”,
con prefazione di Alberto Asor Rosa e postfazione di Rossana Rossanda,
Derive&Approdi editore, Roma 2014.
5 “L’operaismo italiano degli Anni Sessanta comincia con la nascita
dei ‘Quaderni Rossi’ e finisce con la morte di ‘Classe Operaia’. Punto.”
(Mario Tronti in “L’operaismo italiano” cit., p. 5).
6 “La rivista ‘Primo Maggio’ (1973-1989)”, a cura di Cesare Bermani,
con il DVD di tutti i numeri della rivista, Derive&Approdi, Roma
2010.
7 V. il suo contributo nel numero 22 di “Primo Maggio”, autunno 1984.
8 Non bisogna dimenticare i contributi importanti di Luciano
Ferrari-Bravo, che ha partecipato all’attività dei gruppi operaisti sin
dalle origini; una parte dei suoi scritti sono stati pubblicati nel
volume “Dal fordismo alla globalizzazione. Cristalli di tempo politico”,
prefazione di Sergio Bologna, Il Manifesto Libri, 2001.
9 Il volume è pubblicato in co-edizione Shake-Feltrinelli nel 1997 a Milano.
10 “Futuro anteriore. Dai ‘Quaderni Rossi’ ai movimenti globali.
Ricchezze e limiti dell’operaismo italiano”, a cura di Guido Borio,
Francesca Pozzi e Gigi Roggero, Derive&Approdi, Roma 2002.
11 “Storming Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist Marxism”, Pluto Press, London 2002.
12 Derive&Approdi ha raccontato com’è nato e come si è realizzato
questo progetto nell’opuscolo “Dalla classe operaia alla creative
class. Le trasformazioni di un quartiere di Milano” che contiene anche
il DVD con il documentario, della durata di 39’, con sottotitoli in
inglese.
13 Calusca è il nome di un vicolo che sbocca sulla piazza
Sant’Eustorgio, nel quartiere Ticinese di Milano, la sua origine deriva
dall’espressione dialettale ca’ lusc (case losche, postriboli).
La Libreria fu poi spostata qualche centinaio di metri più avanti, in
Corso di Porta Ticinese, e successivamente in via Conchetta, sul
Naviglio Pavese, dove esiste tuttora dentro un centro sociale (Cox 18).
Primo Moroni è morto di cancro nel 1998, un suo profilo è pubblicato nel
volume 77 (2012) del “Dizionario Biografico degli Italiani”
dell’Enciclopedia Treccani.
14 Vedi in particolare la recensione di Paolo Barbieri dell’Università di Trento per l’Istituto Cattaneo, www.cattaneo.org/archivi/biblio/pdf/Bologna-Fumagalli 1997
(Barbieri).pdf. Questa critica è stata rivolta in particolare alle
“Dieci tesi sul lavoro autonomo di seconda generazione” nel volume a
cura di Bologna e Fumagalli, “Il lavoro autonomo ecc.” cit., pp. 13-42.
15 Un’analisi del processo di sindacalizzazione dei self employed in
Dario Banfi, Sergio Bologna, “Vita de freelance. I lavoratori della
conoscenza e il loro futuro.”, Feltrinelli, Milano 2011, in particolare
l’ultimo capitolo.
16 2013/2111 (INI) – 14.01.2014 Texte adopté du Parlement Lecture unique
17 www.freelancersunion.org. Il sito è lo strumento più efficace di propaganda e informazione sulle attività delle associazioni dei self employed.
18 www.actainrete.it.
19 www.efip.org. Joel Dullroy, un
attivista di EFIP che risiede a Berlino, ha lanciato quest’anno la
campagna per un movimento dei freelance: www.freelancersmovement.org.
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