lunedì 29 marzo 2010

La scala mobile e il debole pensiero dell'oggi


Venticinque anni fa moriva, assassinato dalle Brigate rosse, Ezio Tarantelli, economista e professore presso l’Università degli Studi di Roma. Era opinione di Tarantelli che per tutelare il bene primario dell’occupazione fosse indispensabile combattere l’elevata inflazione italiana, fra gli anni Settanta e Ottanta. E che per farlo efficacemente occorresse interrompere quello che egli riteneva un circolo vizioso fra l’aumento dei prezzi e il successivo adeguamento automatico dei salari garantito dal meccanismo denominato “scala mobile”. Per ottenere questo risultato egli pensava necessario predeterminare un certo numero annuale di punti di contingenza, a bella posta sottostimato e dunque inferiore al livello di inflazione esistente, di cui si voleva ad ogni costo arrestare la corsa. La sua proposta prevedeva poi che, a fine anno, qualora i salari fossero risultati penalizzati rispetto alla dinamica dei prezzi, ai lavoratori sarebbe spettato un conguaglio. Se la tesi dell’economista romano fornì la base teorica per il taglio secco di quattro punti di scala mobile disposto con decreto nel 1982 dal governo Craxi, è pur vero che mai Ezio Tarantelli pensò ad un’abolizione dell’istituto della scala mobile, obiettivo per il quale - lungo i dieci anni successivi - si mobilitarono con successo la borghesia industriale e i governi a trazione social-democristiana.
Tre considerazioni è possibile fare, a posteriori.
La prima è che il controllo di prezzi e tariffe amministrate - che doveva accompagnare l’intervento sulla scala mobile - non è mai avvenuto, rivelandosi per ciò che era: una promessa fraudolenta, campata per aria, mai mantenuta e, probabilmente, non onorabile.
La seconda è che, a partire dagli anni Ottanta, e con ritmo crescente dopo la definitiva soppressione dell’indennità di contingenza, a far data dal ’92, l’erosione del potere d’acquisto di salari e retribuzioni è stata costante e inesorabile, portandone il valore al livello più basso, in termini assoluti, nell’Europa dei quindici. La terza è che la convinzione che catturò gran parte dello stesso sindacato, secondo cui l’eliminazione degli automatismi retributivi avrebbe rivitalizzato il muscolo atrofizzato della contrattazione, si è rivelata un tragico errore.
Ebbe ragione - inascoltato - Enrico Berlinguer, che all’indomani del decreto di San Valentino impegnò il suo riluttante partito nella campagna referendaria per la reintegrazione dei punti di scala mobile tagliati. Ebbe ragione, cioé, nel sostenere che per quella via si affermava un principio ideologico di formidabile portata, generando la credenza, tutt’ora in voga, secondo cui la competitività di una azienda e del sistema economico si gioca essenzialmente sulla compressione del costo del lavoro, e l’intera condizione lavorativa deve perciò ridursi a variabile dipendente del comando d’impresa.
La sconfitta che si consumò in quegli anni fu dunque grave non soltanto per le pesanti conseguenze materiali che determinò e che ancor più avrebbero pesato nel tempo sull’esistenza di milioni di persone, ma perché segnò l’affermarsi dell’egemonia culturale del capitale sul lavoro, colpevolizzando le lotte sociali e inoculando la fallace e autolesionistica convinzione che il progresso economico e sociale dei lavoratori confligga con gli interessi generali del Paese. Ci sarà pure qualche motivo se chi oggi governa il Paese punta ad una riscrittura della Costituzione e ad una definitiva, formale rimozione di quella “centralità” del lavoro che già i rapporti sociali hanno provveduto a scardinare. Queste poche riflessioni servono a ricordare come la ri-conquista di un’autonomia di pensiero e della perduta capacità di lettura dei rapporti sociali sia essenziale per conferire senso, spessore, motivazioni, credibilità ad una strategia di autentico cambiamento, oggi naufragata nel mare magnum delle aporie moderniste, nella melassa ideologica interclassista e nella rinunciataria mediocrità del pensiero debole.


Dino Greco, Liberazione 28.10.2010

sabato 27 marzo 2010

Una chance per la sinistra E per il Paese

Ci siamo, il momento è arrivato. E’ a portata di mano, col voto di domenica e lunedì, un cambiamento che attendiamo da tempo. Facciamo il possibile, nelle poche ore che ancora rimangono, affinché non vada sprecato alcun voto per la Federazione della sinistra e per le candidate e i candidati di Rifondazione comunista.
Quello che ci attende è un voto importantissimo. È vero: votiamo per eleggere i nuovi presidenti e le nuove assemblee regionali. Ma mai come in questa occasione un voto amministrativo è stato carico di significati politici generali. Votiamo anche per il futuro del Paese, per la riconquista dei diritti del lavoro, per la giustizia sociale. E votiamo per la salvezza della sinistra italiana, a cominciare dal nostro partito e dalle altre forze della Federazione.
Pensiamo a quanto è accaduto negli ultimi vent’anni, da quando è stata decisa la morte del Pci e della prima Repubblica.
· Si è cercato in tutti i modi di sopprimere la domanda di cambiamento che aveva marcato il «caso italiano».
· Sono stati inferti colpi durissimi alla Costituzione antifascista e ci si è impegnati a dividere il movimento sindacale.
· Si sono varate devastanti controriforme istituzionali imponendo il sistema maggioritario e la gabbia del bipolarismo.
· Si è introdotto il veleno del presidenzialismo svuotando di potere il Parlamento.
· Si è attaccata l’indipendenza della magistratura, si sono minate le fondamenta stesse dell’unità nazionale.
· Sul terreno sociale si è attaccata l’autonomia del sindacato e si è cercato di sottoporre l’informazione a un ferreo controllo politico. Sul terreno economico si è posta fine all’intervento pubblico, smantellando lo Stato sociale e svendendo ai privati enormi risorse produttive.
Gli effetti di questa devastazione sono sotto gli occhi di tutti.
L’Italia è una delle società più ingiuste e ineguali dell’intero mondo capitalistico. Detiene il record dei bassi salari e dell’evasione fiscale (mentre il governo in carica passa imperterrito di condono in condono). Precarietà e insicurezza sono regola nel lavoro dipendente. L’apparato produttivo nazionale è allo stremo, la disoccupazione dilaga sotto i morsi della crisi.
L’unica misura concreta che la destra ha saputo varare per «rassicurare» l’opinione pubblica è un «pacchetto sicurezza» che non ha nulla da invidiare alle leggi razziste del fascismo.
Non c’è da stupirsi se Silvio Berlusconi è stato, in questi vent’anni, protagonista della scena politica italiana. Non solo per l’enorme potere finanziario e mediatico di cui dispone, ma anche per la responsabilità della controparte politica che non ha svolto il suo ruolo di opposizione.
Oggi, finalmente, il disastro è squadernato. Il fallimento del progetto piduista si impone con tutta evidenza, al punto di spaccare lo stesso fronte della destra. Non si tratta solo degli scandali sessuali, della Protezione civile o del Trani-gate.
In crisi è tutto un sistema di potere, e per questo il voto di domenica sarà decisivo. Ma attenzione. Decisivo può esserlo in almeno due modi diversi.
Crisi significa instabilità. Già nelle prossime settimane si produrranno mutamenti profondi. Con ogni probabilità alla fine della legislatura saremo in un Paese diverso. Ma come sarà questo Paese, di quale segno saranno questi mutamenti, se riconquisteremo gli spazi perduti alla democrazia e alla giustizia o ci toccherà invece registrare una nuova sconfitta foriera di più gravi pericoli - tutto ciò dipenderà in larga misura proprio dall’esito di queste elezioni.
Consapevole di ciò, Berlusconi sta giocando il tutto per tutto. L’insulto quotidiano a chiunque lo ostacoli prelude alla richiesta di una delega in bianco. Per questo è necessario che la destra subisca una bruciante sconfitta. Per questo ogni voto alle forze della sinistra e in particolare alle forze comuniste è vitale per salvare la democrazia e riaprire il discorso dopo il lungo incubo della seconda Repubblica.Riaprire il discorso: in politica non c’è nulla di certo, il presente e il futuro vanno costruiti con tenacia giorno per giorno, ora per ora. E in queste ore il compito principale è di certo salvare, consolidare, incrementare quanto possibile il patrimonio di forza dei comunisti in Italia. Questa è la condizione primaria per tenere viva la speranza. Dopodiché - lo sappiamo - occorrerà un salto di qualità. L’unità delle forze democratiche contro Berlusconi e l’unità della sinistra per la difesa del lavoro e la giustizia sociale restano necessità inderogabili. Non è concepibile che la destra riesca a superare le proprie divisioni nel nome del potere e invece le forze della democrazia e del lavoro non sappiano unirsi per il bene comune, la difesa dei diritti sociali e civili, la salvezza della Costituzione. Domenica è in gioco anche tutto questo. Care compagne e cari compagni, andiamo a votare per i nostri candidati nelle regioni, ma spendiamo intanto queste ultime ore con la consapevolezza che siamo in un momento cruciale della vita di questo Paese!

Alberto Burgio, Liberazione 27.03.2010

venerdì 26 marzo 2010

Votate comunista, votate la Federazione della Sinistra

Caro lettore e cara lettrice,
questo quotidiano on-line è nato per dare voce alla sinistra diffusa che non si rassegnava alla deriva moderata che la parte maggioritaria degli eredi del Pci aveva deciso con la fondazione del partito democratico.
Il terremoto della nascita del Pd ha sconvolto il panorama politico italiano, consegnando il Paese alle destre, facendo crescere a dismisura il campo del consenso elettorale al berlusconismo, relegando la rappresentanza dei ceti sociali più deboli e del mondo del lavoro ad un’opposizione flebile, annacquata o gridata e giustizialista come quella dell’Idv.
Hanno cercato in tutti i modi di cancellare la sinistra di alternativa, i comunisti e i socialisti di sinistra, con sbarramenti e leggi elettorali capestro, ma non ci sono riusciti. Nel frattempo è arrivata una crisi pesante, materializzando quello che da dopo Seattle la sinistra di alternativa diceva a gran voce: il neoliberismo è un sistema instabile, che non funziona, che distrugge posti di lavoro e porta sacche di povertà pesanti anche nei paesi ricchi.
Proprio questa terribile crisi finanziaria e gli effetti negativi che ha sul mondo del lavoro, sull’apparato produttivo, sulla tenuta dello stato sociale, ci dice che il progetto delle destre è fallimentare, ma anche che non bastano le proposte dell’opposizione parlamentare.
C’è un bisogno enorme di sinistra. Di una sinistra vera, di alternativa al neoliberismo e alla sinistra moderata, che difenda le ragioni del lavoro, che offra la possibilità ai giovani e ai precari di costruirsi un progetto di vita futuro, che metta in campo proposte utili per il riscatto dei ceti sociali più deboli.
Abbiamo visto quanto i lavoratori siano rimasti sempre più soli a difendere il posto di lavoro, come dimostrano tante drammatiche vertenze: Insee, Eutelia, Alcoa, e in Umbria la Trafomec, la Merloni, la Basell. Nelle vertenze i comunisti ci sono a fianco dei lavoratori, così come scendono in piazza a sostenere gli scioperi della Fiom e della Cgil.
I comunisti alla Regione Umbria, inoltre, hanno avanzato provvedimenti come la legge per l’odontoiatria pubblica o come la proposta di istituzione del reddito sociale che cercano di dare una risposta al disagio e alle difficoltà dei lavoratori, dei precari, dei pensionati, delle classi subalterne. Anche nella società hanno promosso le casse di resistenza, i gruppi di acquisto popolare, hanno distribuito il pane a prezzo calmierato, cercando di alleviare il peso del carovita.
Perché la crisi non la paghino i soliti noti, per ridare valore al lavoro, per sconfiggere la precarietà, per una svolta verde nell’economia, per difendere i beni comuni e l’acqua pubblica, per potenziare la sanità e i servizi pubblici vi chiediamo di dare fiducia alla nostra lista. Votate comunista, votate la Federazione della Sinistra per dare forza ad una opposizione che dia voce a chi non ce l’ha più, per dare voce al mondo del lavoro e del non lavoro.


di Stefano Vinti, candidato nelle liste della Federazione della Sinistra

giovedì 25 marzo 2010





RISTABILIRE LA DEMOCRAZIA


I toni muscolari delle parole del presidente del Consiglio forniscono una ulteriore prova, sia da piazza San Giovanni che dai palazzi istituzionali in questi giorni, per accertare lo stato di decrepita salute della democrazia italiana.
Oggi più che mai, il voto per le elezioni regionali rappresenta il più efficace mezzo che abbiamo a disposizione per dare al Cavaliere nero di Arcore e a tutta la sua compagine governativa un duro segnale di dissenso evitando di consegnare vaste aree del Paese nelle mani di amministrazioni regionali dove spadroneggerebbe la Lega Nord. Una Lega tronfia di arroganza, presunzione e ogni qual’altra – spontanea o meno che sia, ormai poco importa – propensione al superiorismo bossiano – calderoliano – maroniano persino sull’alleato pidiellino che è costretto a smentire di doversi trovare, a breve, nella condizione di essere sorpassato, percentualmente parlando, in Lombardia, Veneto e regioni limitrofe.
Lo spettacolo di piazza San Giovanni è stato l’apice della piaggeria, la punta di un iceberg verso cui va a schiantarsi la nave della Costituzione per procurarsi una falla difficilmente rimediabile con le discussioni di un Parlamento atrofizzato, privo di dialettica vera, capace solamente di esprimere o urla e anatemi da entrambe le parti o una opposizione così latente, così inconsistente da essere messa sul banco degli imputati con l’accusa di collaborazionismo con la maggioranza.Abbiamo scritto sui manifesti della Federazione della Sinistra che di questa c’è bisogno: c’è bisogno di sinistra. Di quella vera, e va detto senza alcuna retorica, senza alcuna presunzione. Come può essere definita sinistra quella che da tempo ha accettato una linea strategica che combacia col centro cattolico e che assume nelle sue priorità l’incentivazione imprenditoriale e, al contempo, la difesa del lavoro? Un interclassismo di questo tipo non regge a lungo e segna il passo ogni volta che si ricorda al PD di essere, in Europa, l’anomalia più eccellente, scintillante, rilevante ed evidente dopo quella berlusconiana.
In Francia esiste, infatti, un grande Partito Socialista, esistono forze centriste, ma la sinistra comunista e anticapitalista riesce a trovare una intesa determinante in quasi tutte le regioni che sono andate al voto. In Germania esiste una sinistra moderata, la SPD, e una sinistra di alternativa (definiamola così, visto che non può essere definita propriamente “comunista”) che, proprio in queste ore, sta dirigendo la sua barra di navigazione ancora più a sinistra.
In Spagna il Partito Socialista di Zapatero mostra evidenti segni di stanchezza politica, trascura alcune battaglie sociali, ma rimane pur sempre una forza determinante.
Solamente in Italia la crisi del socialismo riformista non ha portato alla ricostituzione di un partito di dimensioni percentuali a due cifre e capace di aggregare intorno a sé la sinistra comunista, quella ecologista e il resto delle forze progressiste. Il PD guarda, ogni giorno che passa, sempre più all’orizzonte centrista di Casini, a loro come alleati moderni e a noi comunisti come alleati necessari ma scomodamente presenti. Alleati che non si è riusciti del tutto ad eliminare dalla scena politica e da quella sociale del Paese e che, pertanto, vanno presi in considerazione.Ma il compito della Federazione della Sinistra, per l’appunto, non è affidare il proprio destino alle scelte del Partito Democratico. In fondo, ciò che ci differenzia da Sinistra Ecologia Libertà è proprio questa prospettiva: noi riteniamo che non sia possibile fare accordi di governo col PD a livello nazionale e pensiamo che una rinascita del centrosinistra possa avvenire solamente per mettere fine al governo delle destre e operare determinate riforme che consentano il ritorno della democrazia rappresentativa nel Paese. Mentre Vendola, abbandonato dai Verdi e rimasto solo con Sinistra Democratica, punta ad un rapporto privilegiato col PD, a farne il suo interlocutore primo, e a non protendersi in nessuna azione politica senza aver prima considerato le ripercussioni che avrebbe nei confronti sia del partito di Bersani che dell’immaginario (per ora) fronte di centrosinistra.Un’autonomia da questo profilo di dipendenza politica è non solo necessaria, ma è di più: è decisamente necessaria per mettere nuovamente in connessione la sinistra col suo popolo in diaspora, con la gente che ci ha sempre votato e seguito e che oggi, complici anche i canali comunicativi sia catodici che non, ritiene di trovare una diversità in Antonio Di Pietro e nel suo giustizialismo a buon mercato, nelle manette esposte in copertina da “Il Fatto Quotidiano”, esprimendo così un “voto contro” piuttosto che un “voto per”.
Delusi, scontenti, non votanti da tanto tempo, resi diffidenti verso la forma partito, moltissimi cittadini sono affascinati dai discorsi di Grillo e dal suo movimento che vuole essere tutto e niente, che pretende la rivoluzione italiana ma che corre solitariamente in disprezzo a tutta la “casta”, fascistizzando tutta la politica italiana, urlandole contro e dichiarando che la “sinistra non esiste”. Un’affermazione che potrebbe essere liquidata come frutto di una cattiva analisi sociologico-politica, ma che è invece uno slogan che, ennesimamente, propone a chi ascolta un panorama desertificato dove possono avanzare quelle pericolosissime figure che si possono chiamare “salvatori della Patria”. Diffidiamone sempre, visto che ne sentiamo sempre il bisogno spasmodico per affidare loro la salus publica.
Il voto dei prossimi giorni è dunque una democraticissima e legalissima arma per assestare al berlusconismo un colpo forse non ancora decisivo, ma certamente molto importante, tanto più forte quanto più argine dell’avanzata delle destre nelle regioni italiane.
Fermare queste destre è un dovere civico, un primo segnale di una inversione di tendenza che riconsegni all’Italia la sua, certo, malferma democrazia, ma pur sempre tale. Fermarle col voto comunista, col voto alla Federazione della Sinistra è doppiamente utile.


Marco Sferini, su www.lanternerosse.it

mercoledì 24 marzo 2010

CROLLA L'OCCUPAZIONE

La crisi che Berlusconi e Tremonti non vogliono vedere.

Crolla l'opccupazione (mezzo milione in più) mentre la FIAT taglia altri 5000 posti.





Una situazione drammatica (la più brutta da quindici anni a questa parte), destinata a peggiorare. Si parla di occupazione, di posti di lavoro. Diminuiti, nel giro di un anno di più dell'uno per cento. E in questa situazione la Fiat fa circolare le voci di nuovi, pesantissimi tagli nelle fabbriche italiane.
Cominciamo dal colosso automobiistico. Stando alle anticipazioni, pubblicate mercoledì mattina da "La Repubblica" - voci fino ad ora non smentite - la "cura" che alla fine di aprile proporrà Marchionne è drastica: più di cinquemila dipendenti in meno, solo nel nostro paese. Sarà la conseguenza di una riduzione di un quarto del numero dei modelli (che passano da dodici a otto), anche se - sempre nei progetti dell'amministratore delegato - la produzione italiana dovrebbe aumentare fino a toccare le novecento vetture all'anno.
Sempre secondo le indiscrezioni, la Fiat produrrà - col suo marchio, o con quello dell'Alfa e della Lancia - altri sette modelli, elettrici, ma dall'altra parte dell'Oceano, negli Stati Uniti. Vetture che non dovrebbero essere destinate al mercato europeo.
Questo che Repubblica definisce "piano industriale" significherà un taglio del 15% degli addetti al montaggio finale. Per farla breve: sarà mandato a casa il quindici per cento di quei 30mila operai di linea, che già nei mesi scorsi sono rimasti fermi per due settimane di cassa integrazione. Più nel dettaglio: nel calcolo sono compresi i 1.500 dipendenti della Fiat di Termini Imerese (stabilimento per il quale Marchionne non sembra disposto a fare alcuna concessione: chiuderà entro il 31 dicembre 2011), più i 500 dipendenti che andranno in mobilità volontaria a Cassino. A tutto ciò - ed è questa la cosa che non si conosceva fino ad oggi - vanno aggiunti i 2.000-2.500 addetti in meno alle Carrozzerie di Mirafiori e le 500 tute blu che il sindacato stima possano perdere il posto a Pomigliano in seguito al passaggio dalle produzioni Alfa alla Panda.
Ce n'è quanto basta, insomma, perché Giorgio Cremaschi, segretario della Fiom, dica che ''il piano Fiat e' una vergogna. Che conferma le nostre peggiori e spesso inascoltate previsioni. La realtà é che la Fiat comincia a lasciare l'Italia con una valanga di licenziamenti''. Di più: ''La presentazione del piano il 21 aprile sara' uno dei momenti piu' drammatici della storia della Fiat - aggiunge Cremaschi - perche' Marchionne lo dovra' illustrare ai 5.000 lavoratori che vuole licenziare e anche a tutti gli altri. Si andra' a uno scontro frontale e drammatico". Voluto, comunque, non solo dalla grande impresa ma anche dal governo: "Sì, - conclude Cremaschi - il governo intervenga smettendola di minimizzare o di coprire le posizioni di Marchionne''.
Queste le prospettive. In un quadro, lo si diceva, già di per sè drammatico. Proprio mercoledì mattina, infatti, l'Istat ha reso noti i dati sull'occupazione. Sono cifre da rabbrividire: per il quarto trimestre consecutivo cala il numero degli occupati. In un anno, la disoccupazione è salita di un punto percentuale e oggi il 7,8 è alla ricerca di un impiego. I dati peggiori dal '95.
In cifre assolute questo significa che nel 2009 rispetto all'anno precedente i posti di lavoro sono diminuiti di 428 mila unità. L'Istat fornisce poi anche un ulteriore dato. Più dettagliato. Dividendo i lavoratori fra "italianI" e migranti. Fra i primi gli occupati sono diminuiti di 572 mila unità, fra i secondi i posti di lavoro sono cresciuti di 147 mila. Un incremento, comunque, molto, molto più ridotto di quello degli anni precedenti.

IL LAVORO PRIMA DI TUTTO

Il Lavoro prima di tutto. Questo è l’impegno prioritario della Federazione della Sinistra nella legislatura regionale che si aprirà dopo il voto di fine marzo.
La Federazione della Sinistra propone la realizzazione di un Piano regionale del Lavoro e chiede la sollecita approvazione della legge regionale per il reddito sociale. All’interno del Piano, dovrà essere previsto il rifinanziamento della legge sulla imprenditorialità giovanile, e specifici interventi volti a sostenere l’attivazione di contratti di solidarietà.
La Federazione si impegnerà affinché venga varata una organica disciplina regionale in materia di mercato del lavoro che nei fatti superi la precarizzazione e ripristini la normativa sui licenziamenti prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, di fatto cancellata dal governo.
Il reddito sociale è un provvedimento urgente e necessario per contrastare gli effetti negativi della crisi finanziaria del sistema neoliberista che si fa pesantemente sentire sul tessuto produttivo umbro.
Il ricorso alla cassa integrazione sta per finire e migliaia di famiglie vedono davanti a sé lo spettro della precarietà e della povertà. Inoltre, l’arbitrato secondo equità introdotto dalle destre di Berlusconi cancella l’art. 18, per cui sarà ancora più facile licenziare e scaricare i costi della crisi sui lavoratori. Che già la pagano molto, mentre i profitti e le rendite erodono sempre più spazio ai salari nel dividersi la ricchezza prodotta.
Il reddito sociale è una misura concreta per combattere la precarietà, per togliere il lavoratore e il precario dal ricatto del licenziamento o dall’accettare qualsiasi retribuzione pur di lavorare, per cui è un provvedimento che contribuisce di fatto ad elevare il salario minimo.
La Federazione della Sinistra si batterà perché il centrosinistra dell’Umbria con l’istituzione del reddito sociale valorizzi il lavoro e sani la piaga della precarietà e della disoccupazione giovanile e femminile nella nostra regione.



Srefano Vinti, candidato alle regionali per
la FEDERAZIONE DELLA SINISTRA

PERCHE' ANCORA COMUNISTI

Una lettera di Rossana Rossanda

Abbiamo chiesto a Rossana Rossanda di scriverci un articolo su cosa significa essere comunisti oggi, dopo aver perso il riferimento di paesi che si richiamavano al comunismo, anche se nella pratica comunismo non era, ora che il capitalismo ha vinto ormai ovunque. Pubblichiamo la sua risposta.

La domanda “quale significato ha chiamarsi comunisti dopo il muro di Berlino” per me non ha senso. Se qualcuno era comunista perché pensava ai socialismi reali come a società perfette e incapaci di ingiustizia e crudeltà, questo qualcuno aveva preso da un pezzo fieri colpi: nel 1948 (forche di Praga), nel 1953 (anche se passato quasi in silenzio in Italia), infine nel 1956 che in silenzio non è passato affatto ed è stata una lunga ed evidente tragedia. Testimoniata non soltanto da fonti altrui, che potevano essere esagerate, ma da fonti interne all’Urss e altrove. Quel che è seguito, l’invasione di Praga, la Polonia, l’Afghanistan e il tentativo di Gorbaciov non rivelavano niente che non fosse noto.
Ad ogni modo io non sono mai appartenuta ai fedelissimi all’Urss ed infatti sono stata messa fuori dal partito, anche se con un riguardo che di solito i partiti comunisti non prendevano. E fin dal 1956, come non ho cessato di scrivere, l’essere comunista veniva dalla constatazione che il capitalismo è un sistema inumano in senso proprio, non per degenerazione ma per natura, in quanto fa dell’uomo strumento e addirittura merce. Questo non ha cessato di essere, anzi le ineguaglianze sono cresciute, come le oppressioni e crudeltà. Sono esse ad avermi motivata sempre, anche prima – al paradiso russo non avevo né motivo né voglia di credere, come ai paradisi in genere.
Mi sono accorta in ritardo che, pur scrivendo fin troppo sul Manifesto - Pintor mi definiva scherzosamente jena dattilografa, come Kanapa aveva definito Sartre - non ho scritto nulla sulla caduta del Muro. Non certo per nasconderlo, riempiva anche il mio giornale. Non solo essa non mi apparve una rivolta di popolo ma come la presa d’atto festosa di un accordo già intervenuto tra potenze, e quindi felice ritrovamento fra persone divise, e con molte illusioni sull’ovest, ma come una liberazione di tutta la sinistra europea dal silenzio, la possibilità di un ricollocamento del socialismo sulle sue basi originarie. Io speravo questo e mi sono sbagliata, ma questo spiega perché non ho scritto su due piedi, immagino.
Ho dovuto prendere atto invece che proprio quel che di meno marxista e socialista c’era nei “socialismi reali” in primis quello dell’Urss, uno stato repressivo che non si estingueva mai, era quel che era stato considerato una forza, rispettato anche da chi non simpatizzava come una realtà concreta - missili e battaglioni “per il comunismo”, figuriamoci. Mentre il progetto d’una società socialista non ricominciava affatto su basi rese più pulite dall’esperienza. Né sembra interessare più nessuno. L’ex-Urss è un disastro e la Cina, marxisticamente parlando, un mostro. Ma solo i mostri, a quanto pare, vengono presi sul serio. Sono loro che contano nel concreto rapporto di forze, fra le quali la liberazione della specie umana non ha posto.
Non c’è molto di entusiasmante da dedurne. Ma io sono comunista per questo, e potete considerarmi fra coloro che hanno preso la caduta del Muro come un secondo inizio e non una fine.

Rossana Rossanda, Parigi, 28 settembre 2009

martedì 23 marzo 2010

ART. 18 - L'ARBITRO E L'ARBITRIO

Niente legge, solo arbitri. O meglio niente giudici, saremo nelle mani degli arbitri, che magari non saranno "cornuti", ma sicuramente faranno soldi a palate con i loro interventi in migliaia di controversie di lavoro. Si potrebbe sintetizzare con queste battute la nuova polemica sul tentativo di aggirare l'articolo 18, ma soprattutto molte altre norme che garantiscono il diritto del lavoratore contenuto nel disegno di legge 1167-b governativo e ora in attesa (almeno al momento in cui scriviamo) del giudizio definitivo del Presidente della repubblica, Giorgio Napolitano.
Gli arbitri, in questo caso, non sono ovviamente quelli che vediamo sui campi di calcio, ma i consulenti del lavoro che secondo la nuova legge dovranno dirimere le controversie di lavoro. Dire "niente legge" non deve sembrare un'affermazione offensiva per il governo o eccessivamente radicale e paradossale. Si tratta al contrario di un dato di fatto: le nuove norme prevedono infatti che al momento dell'assunzione venga chiesto esplicitamente al lavoratore di rinunciare per sempre al suo diritto di ricorrere alla magistratura in caso di contrasto e conflitto con il suo datore di lavoro, scegliendo al contrario la via dell'arbitrato. Una rinuncia preventiva a diritti individuali sanciti prima di tutto dalla Costituzione e poi dallo Statuto dei lavoratori (legge 300, 1970) e della norme che lo hanno seguito. Una "grande innovazione", secondo il ministro Maurizio Sacconi, che usa un argomento quanto meno singolare per difendere la sua legge. Noi non vogliamo comprimere alcun diritto, dice Sacconi, anzi diamo una possibilità in più al lavoratore visti i tempi biblici della giustizia.
Sulla materia si è detto tutto e il contrario di tutto, ma colpisce la distanza teorica e politica tra le affermazioni dei politici del centrosinistra e dei dirigenti della Cgil, unico sindacato contrario sia al ddl, che all'avviso comune firmato da Cisl e Uil e le affermazioni categoriche del ministro del lavoro, che parla addirittura in modo enfatico di una "piattaforma riformista" dalla quale solo la Cgil si sarebbe sfilata per eccesso di ideologismo e conservatorismo. Dall'altra parte abbiamo una nutrita schiera di giuristi del lavoro, costituzionalisti, esperti di diritto che parlano esplicitamente di carattere di incostituzionalità delle nuove norme. Lo hanno detto giuristi noti e meno noti, mentre un giudizio negativo è stato espresso anche da Tiziano Treu, sicuramente non catalogabile tra i radicali del settore e da Pietro Ichino, giurista, parlamentare del Pd e assertore di una semplificazione delle norme che regolano i rapporti di lavoro.
A questo punto vengono in mente tre o quattro considerazioni collaterali. La prima è ovvia: perché un arbitro dovrebbe essere più imparziale di un giudice? E cosa si intende per imparzialità, visto che in gioco ci sono due parti, una forte e una debole? La seconda considerazione riguarda la scelta delle priorità. Le persone ragionevoli si chiedono come mai il quarto governo Berlusconi che non è riuscito a fare nulla di efficace contro gli effetti devastanti della crisi economica sia poi così monomaniaco nei suoi interventi sul lavoro. Un chiodo fisso sull'articolo 18 in un momento in cui i
licenziamenti e la precarietà del lavoro non sono certo un bene raro nelle nostre società. Un'ostinazione a ripetere il copione dello scontro politico sull'articolo 18 che a quanto pare non ha davvero nulla di innovativo e moderno. Di tutto si sentiva il bisogno oggi, fuorché di una "riforma" che invece di allargare le protezioni, le riduce ulteriormente in favore - guarda caso - della logica del mercato e delle imprese che vogliono avere le mani libere.
La terza considerazione riguarda l'avviso comune. Per rispondere alla Cgil che ha gridato da subito contro l'attacco all'articolo 18, il ministro Sacconi ha fatto firmare agli altri sindacati un avviso comune in cui si esclude l'applicazione delle nuove norme in caso di licenziamenti. Quindi il sospetto
è che nella prima stesura del ddl fosse prevista proprio la cancellazione del fatidico articolo 18. Infine, quarta considerazione laterale, a proposito della Cisl, sindacato da sempre contrario alla via legislativa e legato per storia alla via contrattuale. Il ricorso alla legge nelle materie di lavoro è sempre stato il diavolo per il sindacato cattolico. Ora invece con Sacconi la scena si è ribaltata e troviamo una Cisl nettamente schierata a favore della norma che introduce l'arbitrato a scapito della contrattazione collettiva e del diritto del lavoro. Misteri della fede.

di Paolo Andruccioli (www.sbilanciamoci.info)


Ma quale crisi! Un pensionato di Arcore aumenta il suo reddito di 8 milioni e mezzo!






Finalmente uno schiaffo ai disfattisti, a tutti quelli che parlano di crisi, e un milione e duecentomila schiaffoni a un milione e duecentomila nuovi dissoccupati nati sotto l’illuminato governo di Silvio Berlusconi. E’ notizia di ieri che un pensionato di Arcore, tale S.B., ha denunciato al fisco nel 2009 ben otto milioni e mezzo in più dell’anno precedente, per un totale di 23.057.981 euro. La crisi per lui non esiste, e questo dà senza dubbio ragione al nostro illuminato premier secondo cui la crisi economica è una montatura del magistrati, dei comunisti e forse persino dei magistrati comunisti. Ad Arcore, dove è registrato all’anagrafe, non tutti sono sicuri dell’identità del ricchissimo pensionato e pochi sanno rispondere sulla sua vera occupazione. "Credo che sia quel tipo bassino dalla faccia cattiva - ha detto il panettiere - ma non chiedetemi cosa fa di lavoro perché non l’ho mai capito". Al bar del paese si sprecano le ipotesi. "E’ uno che sta sempre al telefono e sbraita ordini: chiudete questo, chiudete quello! Mai che l’abbia sentito ordinare una grappa, ma una legge sì, anzi si è ordinato molte leggi". Rincara un idraulico che vuole rimanere anonimo: "No, non so cosa faccia questo signore di mestiere. Quella delle leggi l’ho sentita anch’io, le ordina per telefono e va a provarle a Roma, se le fa fare su misura, ma come faccia i soldi davvero non lo so". In ogni caso, che un misterioso signore di Arcore, che tutti descrivono arrogante e collezionista di parrucchini, abbia incrementato il suo reddito del trenta per cento rappresenta una nota di ottimismo per il Paese. Tutti stanno in crisi, con le pezze al culo o in cassa integrazione, e lui invece no, questo significa che deve avere qualche amico al potere, magari addirittura nei palazzi che contano a Roma. "Una volta l’ho visto vestito da ferroviere, ma credo che i ferrovieri prendano meno - aggiunge un sindacalista dal tetto della sua fabbrica. Meno male che quel signore non ha incarichi di governo, perché se si scoprisse che chi incrementa di un terzo il suo reddito annuale in una situazione economica disperata come quella attuale gestisce pure l’economia nazionale, allora sì che ci troveremmo al cospetto di una bella mascalzonata".

domenica 21 marzo 2010

l voto utile? Quello per la Federazione della Sinistra

Si parla molto di voto utile, di non disperdere il voto. Ma votare secondo il proprio orientamento politico, in modo onesto, verso, prima di tutto, se stessi, vuol dire disperdere il voto?. Credo proprio di no! E ragionare attentamente sulle complesse dinamiche sociali, evitando coinvolgimenti emotivi e poco razionali, distinguendo l’analisi dalla propaganda, la proposta politica dalla politique-politicienne , è cosa saggia? Credo proprio di si.
Purtroppo oggi la propaganda e la demagogia si intrecciano fra di loro e il dibattito politico è molto condizionato da queste deviazioni. Per fare un esempio concreto in questa campagna elettorale la grande assente è stata la politica, quella con la P maiuscola. Si è parlato esageratamente di presentazione di liste, scatenando anatemi feroci, senza il minimo rispetto delle regole democratiche. Di problemi concreti, invece, che attanagliano la vita di milioni di cittadini, in modo molto superficiale e completamente insufficiente. L’opinione pubblica è finita per dividersi ancora una volta sulle istituzioni, sul ruolo del premier, sulla magistratura. È passato in secondo piano e quasi scomparso il caso “Bertolaso”. Eppure avrebbe meritato ben altra attenzione. Non mi riferisco ai fatti giudiziari, che pure sono gravi, ma di pertinenza della magistratura, ma al ruolo sociale che deve ricoprire un’istituzione come la Protezione Civile. Associazione che, secondo me, non può che rimanere un’associazione di volontari pubblica, che opera nel territorio interagendo con altre associazioni e con le istituzioni, che interviene in caso di calamità naturali, che frequenta corsi di formazione per prepararsi a prevenire i rischi geologici tipici di quel determinato comune. Non può e non deve programmare, progettare eventi. Non è la sua funzione, verrebbe snaturata la sua mission, si costituirebbe una cosa diversa da quello che è il suo compito sociale: prevenire, intervenire, assistere.
Non parliamo poi dei problemi del lavoro. Aumentano i cassintegrati, i disoccupati, la crisi investe interi comparti produttivi e la cosa più semplice che il centro destra possa dire è riformare l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e abrogare l’articolo 1 della Costituzione, precarizzando ancora di più il lavoro. Tutto questo con il beneplacito di CISL e UIL e con la sola CGIL che fortunatamente ancora si oppone. Così facendo, declinando di fatto quest’impegno all’impresa e al libero mercato, viene mortificata la nostra legge fondamentale, che invece attribuisce al lavoro e ai lavoratori il compito sociale di contribuire al progresso civile del nostro stato. Inoltre tutte le istituzioni pubbliche vengono scardinate: sanità, scuola, previdenza. È in atto una rivoluzione neoliberale i cui effetti drammatici devono essere ancora visti. Il tutto con una visione peronista della politica, mista al culto della personalità, della retorica e della demagogia. E’ questa la linea di demarcazione che rivela l’enorme differenza fra uno schieramento politico che si richiama ai principi e ai valori del socialismo e del comunismo e quello che vuole culturalmente superare le radici storiche del movimento operaio.
Credo che a ciò si debba mettere un freno, opporci a questo stato di cose e rilanciare una politica che sia di rispetto verso le istituzioni, verso valori che hanno fatto grande il movimento operaio nel ‘900.
La realtà è ben diversa da quella del secolo scorso, ma i bisogni sono gli stessi, e per questi bisogni, e per gli stessi valori di sempre (libertà, uguaglianza, emancipazione) dobbiamo ancora lottare. Dall’Umbria quindi riprendiamo la lotta. Dalla nostra terra che conta in una tradizione democratica e civile, dalla terra di San Francesco e Aldo Capitini diamo un segnale di civiltà. Domenica 28 marzo esprimiamo un “voto utile”, diamo un contributo a questo progetto di federazione della sinistra. Una sinistra che sia proiettata nel terzo millennio, che non rinneghi la propria storia, che non è fatta solo di tragedie, ma anche di conquiste avanzate e di progresso, per dare ai nostri giovani una speranza per il loro futuro.


Attilio Gambacorta

UN MILIONE IMMAGINARIO!


Piazza San Giovanni: un confronto visivo


A destra la foto scattata sabato 20 marzo dall’alto su Piazza San Giovanni durante il comizio di Berlusconi, come si vede dopo gli alberi la gente è rada e poi c’è il vuoto.

A sinistra Piazza San Giovanni durante il 1° maggio del 2009.

Non è il caso di fare paragoni, fate un po’ voi..

sabato 20 marzo 2010

RIFORMA DEL LICEO, EDITORI NEL PANICO MONDADORI NO

Il corso di storia del primo biennio si chiude all'anno Mille o al Quattordicesimo secolo? O ancora, l'accorpamento di storia e geografia implica due voti e due libri separati oppure no? E le materie nuove? Le «scienze integrate», le insegna il professore di chimica o quello di fisica? E soprattutto: serve un libro unico? Nessuno lo sa. Tantomeno gli editori scolastici italiani. Che, non potendo rispondere a queste domande, si trovano oggi in grave difficoltà per colpa del Governo. Ulisse Jacomuzzi, presidente del gruppo degli editori del settore, afferma di dover giocare d'azzardo sul prossimo anno scolastico. Ammette cioè di aver preparato alla cieca i testi dei ragazzi che a settembre faranno prima superiore. Se infatti il riordino della secondaria di secondo grado è partito, e gli istituti stanno raccogliendo le iscrizioni, non si sa ancora con precisione cosa dovranno effettivamente studiare gli studenti. È una situazione che non era mai capitata prima in Italia. Perché non è possibile pubblicare i libri di testo del prossimo anno? Semplice. Perché i programmi dell'anno prossimo ancora non ci sono. Si sanno a malapena le materie che dovranno studiare gli studenti, figurarsi il programma, cioè i contenuti e gli obiettivi didattici legati alle singole materie. Il caos regna sovrano. Anche se non si deve dire. Soprattutto alle famiglie degli studenti. Tutto deve avvenire alla cieca. Le iscrizioni dei propri figli. La stampa dei libri scolastici. Solo alcuni giorni fa sono uscite le bozze delle indicazioni nazionali per il sistema dei licei, che saranno oggetto di una vasta consultazione e poi verranno riesaminati - eventualmente corretti - da un'apposita commissione per la redazione definitiva. Poi i libri scolastici avrebbero bisogno di tempo per essere pensati, scritti, impaginati e stampati in tempo per finire a maggio nelle mani dei professori che decideranno se adottarli o meno. Ma tutti i tempi sono saltati. Così gli editori scolastici si troveranno di fronte a un dilemma: non editare testi scolastici o, come presumibilmente accadrà, inventarsi qualcosa e, giocando un po' a fare gli indovini, stampare in fretta e furia. Sperando di indovinarci. Se non indovineranno, presumibilmente i docenti non adotteranno i loro libri. Con danni per tutti. Primi tra tutti i trentamila dipendenti che lavorano nell'editoria scolastica che, è bene ricordarlo, resta comunque saldamente nelle mani della Mondadori - con Marina Berlusconi presidente - non essendo in alcun modo risolto, come per altro nella tv, il conflitto di interessi che c'è in questo settore. Anzi, forse non è un caso che la Mondadori negli ultimi due anni abbia acquisito una dozzina circa di piccole e medie case editrici scolastiche
Giuseppe Caliceti, Il Manifesto

LA CRISI RADDOPPIA

Il tempo, questa volta, ha giocato proprio un brutto scherzo al ministro Giulio Tremonti. Nello stesso giorno in cui gli è toccato difendere in Parlamento il governo Berlusconi, da Bruxelles arrivavano autorevoli messaggi che smentivano il suo dire. Il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, denunciava pesantemente le difficoltà e la fragilità dell'economia italiana nell'attuale crisi. Contemporaneamente, e sempre da Bruxelles, il direttore del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, affermava che nell'attuale crisi il ritardo delle necessarie riforme avrebbe potuto dare sbocco a «rivolte sociali». Vale ricordare che Tremonti, in Parlamento, ha definito «apprendista stregone», chi in Italia avvertiva il medesimo pericolo. Dare dell'«apprendista stregone» a Strauss-Kahn appare quanto meno improprio e autolesionista.
Il fatto è che ieri, in Parlamento, il ministro Giulio Tremonti, con una puntigliosa e minimalista difesa dell'operato del governo Berlusconi, ha eluso del tutto il problema della gravità e pericolosità della crisi, che non è cominciata ieri e che di questo passo rischia di durare per altri quattro o cinque anni. Tremonti ha ignorato che questa crisi necessita di riforme strutturali e che aspettare, tentando piccoli rimedi aggrava il male, quasi come curare con l'aspirina un malato di polmonite.
Tremonti ha cercato di dissolvere la crisi italiana in quella internazionale, evitando di mettere a fuoco lo specifico della crisi italiana, che è cominciata da una decina d'anni con il rischio che se e quando l'economia mondiale riprenderà il suo passo, l'Italia continuerà a stare per terra. L'Italia stretta da una crisi economica che richiede investimenti di sostegno e da un debito pubblico, che li ostacola. Siamo vicini a un rischio Grecia.
La produttività è ferma o in calo da una decina d'anni e senza crescita della produttività le imprese e l'intera economia non sono competitive. Salvo l'Enel e l'Eni non ci sono più grandi imprese (questo governo non ha certo il coraggio di fare un nuovo Iri) e le piccole imprese, anche il ricco nordest, producono anche suicidi. C'è la disoccupazione, ma molto numerose sono le ore non lavorate, annunciano altri incrementi di disoccupazione e miseria. L'avvertimento di Strauss-Kahn è fondato e pesante, soprattuto per il nostro paese. La disoccupazione indebolisce il sindacato e le sue lotte democratiche: si apre così uno spazio pericoloso per la rabbia e la repressione autoritaria.
Ha detto bene Bersani. Dopo tanto rumore su processi brevi, intercettazioni e via dicendo, finalmente in Parlamento (con l'ovvia assenza del presidente del consiglio) è stato messo in discussione un problema serio e grave, «ma il governo è venuto in aula a mani vuote».In effetti Tremonti ha fatto il conto delle cosette fatte, ma non all'altezza della gravità della crisi.

Valentino Parlato, Il Manifesto

giovedì 18 marzo 2010

IL PRESIDENTE ECONOMISTA

Berlusconi: "La crisi non è così tragica, sono i media che esagerano"
Show di Berlusconi e Brunetta: la crisi esiste

IL DECLINO ITALIANO

Dieci anni fa, passato il capodanno del 2000, fugata l'infondata inquietudine per il «baco del millennio» che avrebbe dovuto far saltare i sistemi informatici di mezzo mondo, l'ottimismo segnava gli sguardi sul futuro. La crescita della finanza moltiplicava le rendite, la «new economy» negli Stati uniti moltiplicava prodotti e servizi; l'Italia, disciplinata dalla cura dimagrante per l'entrata nell'Unione economica e monetaria europea - tagli di spesa pubblica, riduzioni di debito, privatizzazioni - aspettava la propria fetta di benessere.
Dopotutto il reddito pro capite (dati Ocse per il 1999 a parità di poteri d'acquisto) superava quello di Francia e Gran Bretagna e si era avvicinato molto a quello tedesco, appesantito dagli effetti dell'unificazione con l'est. Qualcuno - il governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio nella sua Relazione del 2001 - parlava di «nuovo miracolo italiano».
La realtà ci ha riservato una sorpresa diversa: la crisi finanziaria e la recessione più grave dagli anni trenta. Il prodotto interno lordo (Pil) dell'Unione europea è caduto del 4,3% nel terzo trimestre 2009 sullo stesso periodo del 2008, negli Stati uniti è calato del 2,3%, ovunque la disoccupazione si avvicina al 10%. In Italia siamo scivolati del 4,6% ed è da un anno e mezzo che l'economia peggiora rispetto all'anno precedente: con questo avvitamento il Pil italiano in termini reali è ora tornato al livello che aveva otto anni fa, all'inizio del 2001.
Ma alziamo gli occhi da dove siamo caduti, guardiamo all'insieme del decennio. Il Pil (in termini reali, senza gli effetti dell'aumento dei prezzi) è cresciuto in totale del 10% e il reddito per abitante del 4,5: in dieci anni l'Italia ha avuto lo sviluppo che la Cina registra in un solo anno. Con il Pil che cresce così poco, alcune voci sono rimaste ferme: i consumi per abitante sono saliti di appena l'1,3% nell'intero decennio. Ancora peggio è andata per gli investimenti in macchinari, quelli che alimentano le possibilità di sviluppo: nel decennio sono diminuiti del 9,8% e, se li rapportiamo alla popolazione, la caduta è stata del 14,5% (mentre si sono gonfiati gli investimenti immobiliari). Le imprese hanno rinunciato a sviluppare le capacità produttive e rispetto a dieci anni fa la produttività del lavoro è rimasta immutata (è addirittura diminuita ogni anno in tutti i settori tra il 2000 e il 2004, secondo le «Misure della produttività» dell'Istat). Non è stato sempre così, ancora nel decennio degli anni novanta la produttività era cresciuta del 20%.
Il ristagno della produttività è il risultato di una crescita lenta e parallela sia del prodotto che dell'occupazione: nel decennio si sono aggiunti circa due milioni di posti di lavoro dipendente, ma tutti per lavoratori a termine, con quote crescenti di donne e lavoratori immigrati (ricordiamoci delle 800 mila «badanti» al lavoro in Italia). Nel frattempo si indeboliva l'industria, con il valore della produzione immutato nel decennio, i dipendenti manifatturieri diminuiti dell'8,8%, quelli delle grandi imprese (più di 500 addetti) del 18%. La precarizzazione del lavoro e lo spostamento verso settori a bassa produttività hanno avuto effetti pesanti anche sulla dinamica dei salari.Abbiamo così disegnato il primo circolo vizioso che segna il nostro sistema produttivo. Le imprese riducono gli investimenti, non aumentano la produttività e provano a restare competitive sui mercati internazionali attraverso riduzioni di costi e salari e precarizzazione del lavoro. Di conseguenza i consumi non crescono; con investimenti in calo, e una spesa pubblica anch'essa congelata, la domanda si affida soltanto alla crescita delle esportazioni, che a sua volta è fortemente limitata da una produttività immobile. Il risultato è che la domanda non cresce e con essa ristagna la produzione.
Se questa è la vicenda dell'economia aggregata, altri meccanismi del ristagno italiano vengono fuori da come si distribuisce il reddito nazionale. Rendite finanziarie e profitti hanno aumentato la loro quota sul Pil, a danno di salari e stipendi. Come i dati dello «scudo fiscale» sui capitali esportati illegalmente mostrano oggi, una parte importante di rendite e profitti ha preso la strada di speculazioni all'estero, riducendo le risorse per gli investimenti delle imprese; queste, poi, hanno privilegiato i nuovi impianti produttivi all'estero - Europa dell'est soprattutto - riducendo le capacità produttive nazionali: è così che la Fiat produce oggi più auto in Polonia e in Brasile che non in Italia (altre analisi si trovano sul sito http://www.sbilanciamoci.info/).
Se guardiamo ai redditi degli italiani (dati Banca d'Italia), il venti per cento più ricco della popolazione otteneva nel 2000 il 44% del reddito disponibile, mentre al venti per cento più povero rimaneva appena il 6% del totale. Nel primo decennio del duemila queste distanze sono ancora aumentate e si sono aggravate quelle tra lavoratori dipendenti e autonomi. I dati Istat mostrano redditi individuali netti da lavoro nel 2006 di quasi 16mila euro per i lavoratori dipendenti e di appena 13.200 euro per i lavoratori autonomi; gli operai sono sotto i 15mila euro, mentre i liberi professionisti non arrivano a 29mila euro l'anno. Oltre alle disparità sociali, ci sono i segni qui di un'evasione fiscale di grandi proporzioni da parte dei lavoratori autonomi, che porta un'ulteriore distorsione nella distribuzione del reddito.
Salari fermi, lavori peggiori e precari spingono in basso i salari e i redditi dell'80% degli italiani; finanziarizzazione e liberalizzazione per i capitali, stipendi d'oro per i manager ed evasione fiscale spingono in alto i redditi dei pochi ricchi. Gli effetti dell'impoverimento si fanno sentire subito: nel 2007 un terzo delle famiglie italiane (e quasi la metà al Sud) dichiara di non riuscire ad affrontare una spesa imprevista di 700 euro e due terzi (quattro quinti al Sud) non è riuscita a risparmiare nulla del proprio reddito.
Le cattive notizie, purtroppo, non sono finite. Un terzo circolo vizioso riguarda finanza pubblica e apertura internazionale, analizzato con lucidità nel volume di Marcello De Cecco Gli anni dell'incertezza (Laterza, 2007, dove sono raccolti i suoi articoli per Repubblica). Nel 2009, per la prima volta, le entrate tributarie hanno registrato un calo in valore assoluto (causa recessione ed evasione), portando il disavanzo pubblico al 5% del Pil. Il deficit viene finanziato con nuovo debito pubblico: il rapporto debito/Pil è ora al 115% del Pil e dovrebbe salire al 125% nel 2010 (nel 2008 era il 106%).
Siamo tornati più o meno al livello di quindici anni fa, all'avvio dell'Unione monetaria europea, quando ci siamo impegnati col Trattato di Maastricht a far scendere rapidamente lo stock del debito pubblico al 60% del Pil. Quindici anni di tagli alla spesa, «riforma» delle pensioni, privatizzazioni, «federalismo» fiscale non hanno lasciato traccia. In più, i creditori sono cambiati; nonostante l'alta propensione al risparmio del paese, oltre la metà del debito pubblico italiano è ora nelle mani di investitori stranieri, che, non appena si manifestano segnali di crisi, spingono al rialzo i tassi d'interesse, aggravando conti pubblici e conti con l'estero. E' il problema già scoppiato negli altri paesi della «periferia» europea di cui si parla qui accanto. Tra il 2007 e il 2010 il rapporto debito/Pil è destinato a crescere dal 25 all'80% per l'Irlanda, dal 36 al 62% per la Spagna, mentre Grecia (e Belgio) avranno nel 2010 un rapporto superiore al 100%.
La debolezza del sistema produttivo, la redistribuzione dai poveri ai ricchi, il peso della finanza e la minaccia del debito si intrecciano nel disegnare la traiettoria del declino italiano. Se avete la sensazione di essere diventati più poveri, più indebitati e più precari di dieci anni fa, ebbene, le cifre vi danno ragione.


di Mario Pianta, da Il Manifesto

RISO AMARO

La nuova Costituzione Berlusconi-Bossi

Art. 1. L'Italia è una Repubblica democratica fondata sui soldi. La sovranità appartiene al capo del Governo che la esercita come meglio gli aggrada....
Art. 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo e richiede l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale solo fra cittadini italiani di almeno quarta generazione iscrivibili nella categoria dei patrizi.
Art. 3 I cittadini non hanno pari dignità sociale e non tutti sono eguali davanti alla legge. I diritti dei cittadini vanno valutati caso per caso a seconda della ricchezza, della razza, della lingua, della religione, delle opinioni politiche e delle condizioni personali e sociali.
Art. 4 La Repubblica non riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e non promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Il lavoro e' un fatto privato dei cittadini o al massimo una questione tra lavoratore e azienda.
Art. 5 La Repubblica non è una e indivisibile ma è articolata in Repubblica del Nord e Repubblica del Sud che devono gestirsi in autonomia secondo le proprie possibilita' economiche.
Art. 6 La Repubblica non solo tutela con apposite norme le minoranze linguistiche ma promuove il ritorno dell'uso dei dialetti.
Art.7 Lo Stato e la Chiesa cattolica sono la stessa cosa purche' la politica della Chiesa non sia in contrasto con quella del Governo.
Art. 8 Le confessioni religiose non sono egualmente libere davanti alla legge. L'Italia è e sarà una Repubblica Cattolica in cui le altre confessioni religiose non sono gradite.
Art. 9 La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione purché avanzino soldi.
Art. 10 La condizione giuridica dello straniero non è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Repubblica e' sovrana in materia. Il Governo si riserva di valutare caso per caso se concedere cittadinanza e diritto d'asilo nel territorio della Repubblica. E' ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.
Art. 11 L'Italia non ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e ritiene che la Guerra sia uno strumento utile per portare la pace in nazioni e aree del mondo sottosviluppate.
Art. 12 La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni con un crocifisso nero al centro.

IL "PARTITO DELL'AMORE" E I DIFFUSORI DELL'ODIO

ECCO ALCUNI ESEMPI DELLA LOTTA CONTRO IL MALE DEI "PALADINI DELL'AMORE" BERLUSCONIANI


BOSSI: “Imbracciare i fucili contro la canaglia romana”
GENTILINI: DELIRIO RAZZISTA
BORGHEZIO CHE SPARA CAZZATE
CONTRO QUESTA BARBARIE RAZZISTA C'E' UN'UNICA RISPOSTA

IL FEDELE ALLEATO LEGHISTA

BOSSI VERSO BERLUSCONI
CHE DIRE? DELLE DUE UNA: O BOSSI MENTIVA ALLORA O MENTE OGGI. IN AMBO I CASI BOSSI E I LEGHISTI NON LA RACCONTANO GIUSTA.

martedì 16 marzo 2010

IO (non) CENTRO

Il “Centro” inesistente:

in piazza no…….
e nemmeno alla Camera


Si sente dire spesso, dalle parti dei centristi di Casini, che l’opposizione si fa in Parlamento, e non in piazza. Argomento opinabile, ma certamente legittimo.
Si fa però fatica a capire come si possa fare opposizione moderata e istituzionale se poi in Parlamento non ci si va, nemmeno a votare le proprie iniziative.
E’ successo oggi, alla Camera, dove è in corso l’esame del famoso e ormai sostanzialmente inutile decreto salva-liste. A Montecitorio le pregiudiziali di incostituzionalità, che avrebbero affossato il tanto discusso provvedimento, non passano per pochi voti. Decisiva, l’assenza di Casini, Buttiglione e altri 15 deputati Udc.
Le cronache parlamentari raccontano di un diffuso sconcerto tra i banchi dell’opposizione. L’occasione, dicono i democratici, era ghiotta. Si poteva mandare sotto l’esecutivo alla vigilia delle elezioni, e assieme ridare un po’ di fiato simbolico a un Parlamento maltrattato dall’ossessione decretista del governo.
E invece niente.
Con la beffa finale di scoprire che perfino uno dei firmatari delle pregiudiziali, Michele Vietti, anche lui Udc, era anche lui assente.

Dubbi di Napolitano su arbitrato e art. 18

Ferrero: «Il Presidente non firmi. Referendum»

Il Quirinale sta studiando in questi giorni se promulgare o meno la legge che introduce l'arbitrato obbligatorio nei processi del lavoro, quella che minaccia l'articolo 18: si è saputo ieri, dopo una polemica tra il Colle e il quotidiano la Repubblica. Il presidente Giorgio Napolitano potrebbe non firmare, e rinviare il testo (il ddl 1167) alle Camere. Il giornale aveva dato quasi per certo, ieri, con un articolo del vicedirettore Massimo Giannini, il no del Quirinale. Ma a stretto giro di posta, è arrivata una nota della Presidenza della Repubblica, che ha definito «priva di fondamento»la ricostruzione di Repubblica: «Il Capo dello Stato - dice la nota - esamina il merito di questo come di ogni altro provvedimento legislativo con scrupolosa attenzione e nei tempi dovuti; e respinge ogni condizionamento che si tenda a esercitare nei suoi confronti anche attraverso scoop giornalistici». Giannini ha controreplicato, affermando di aver avuto la notizia da fonti interne del Quirinale. Se insomma si deve attendere per sapere cosa farà il Quirinale, il sindacato e i politici restano divisi. Il ministro Maurizio Sacconi difende la legge, e lo stesso fa la Cisl: tra l'altro, proprio in forza dell'avviso comune siglato giovedì scorso con la Confindustria, che escluderebbe l'ambito di applicazione della legge dalle cause di licenziamento, e dunque - affermano - disinnescando il link con l'articolo 18.

Abbiamo parlato della questione con Paolo Ferrero, portavoce della Federazione della sinistra, che per 6 giorni è stato in sciopero della fame contro l'attacco all'articolo 18, e unico tra i leader politici, ha incontrato Giorgio Napolitano per chiedere di non firmare la legge. L'incontro è avvenuto lunedì della settimana scorsa, al Quirinale.
Come vi ha accolto il Presidente?
È stato molto attento alle argomentazioni che noi abbiamo portato sull'incostituzionalità della legge. Vietare a dei cittadini di poter andare di fronte alla legge, al giudice, per questioni di lavoro, come per qualsiasi altro problema, è fuori dal mondo: assolutamente contro la Costituzione.
Avete parlato del merito della legge? Insomma dei diritti del lavoro?
Io ho fatto un intervento molto «politico», perché si minaccia un diritto fondamentale del lavoro. Ma è ovvio che davanti al capo dello Stato metti in rilievo gli elementi di incostituzionalità: l'assurdo che una legge individui un luogo dove le leggi stesse dello Stato, il diritto a essere garantiti dal giudice, non sono applicabili.
E cosa vi ha risposto Napolitano?
Noi siamo andati quando il ddl era appena arrivato al Quirinale, dopo l'approvazione definitiva. Dunque il presidente ci ha comunicato che i giuristi avrebbero a breve esaminato il testo, e che quindi poi si sarebbe espresso. Noi abbiamo portato a sostegno l'appello firmato da studiosi e giuslavoristi, l'analisi di Piergiovanni Alleva. E gli abbiamo chiesto di non firmare.
E se invece il Presidente firma?
Analizziamo entrambe le ipotesi, perché dovremo mobilitarci in ogni caso. Se il Presidente non firma, allora il testo sarà rinviato alle Camere: in quel caso, dovremo fare campagna perché il Parlamento non approvi una nuova legge di quel genere. Se il Presidente firma, come ho già proposto non appena il ddl è stato approvato, e come ho ripetuto sabato in Piazza del Popolo, dovremo andare al referendum.
Non temete di non raggiungere il quorum, come fu già nel 2003, e sempre sul tema articolo 18?
D'accordo, ma non possiamo neanche berci tutto quello che fa passare questo governo. E comunque noi pensiamo a diversi quesiti: sull'acqua, il nucleare, e sul lavoro. Ne stiamo studiando anche uno specifico per l'abrogazione di gran parte della legge 30.
Ne parlate con gli altri partiti? L'Idv non esclude il referendum, anche se dice che preferirebbe evitarlo.
Io, ripeto, ho proposto il referendum in Piazza del Popolo, ma ancora non ho avuto risposta dagli altri.
Come mai il ddl è passato nella totale indifferenza delle persone, e non si è organizzato nulla come fu nel 2002? Colpa del sindacato? O anche vostra, dell'opposizione?
Io credo che sia stato perché non c'è più la sinistra in Parlamento: e l'attuale opposizione parlamentare si occupa di temi «liberali», senza riferimento sostanziale al lavoro e ai lavoratori. E così ora alla sinistra non resta che lo sciopero della fame per farsi notare.
Come mai sposate una forma di protesta quasi autolesionista? Fuori dalla vostra tradizione, mi sembra.
Non ci sono forme che definirei «di destra» o «di sinistra»: l'India è stata liberata con questo tipo di protesta. Noi siamo costretti a queste azioni perché non stando più in Parlamento non godiamo di «corsie preferenziali», di «posizioni di rendita» per accedere ai grandi mezzi di informazione.


di Antonio Sciotto su Il Manifesto del 16/03/2010

Idea autoironica per una riforma elettorale

Domenica 28 febbraio, riflettendo sulle ragioni del popolo viola, Curzio Maltese ha scritto su La Repubblica poche parole che, alla luce dei recenti sviluppi della vicenda politica, suscitano qualche commento. «Siamo alla vigilia della privatizzazione dell'acqua, contro il parere dell'85 per cento degli italiani, ma senza nessuno in Parlamento che si opponga davvero». Non è difficile concluderne che questo Parlamento non è rappresentativo. Somiglia sempre più a un consesso di notabili, separato e autoreferenziale. In questione (anche senza pensare a veline o amici della 'ndrangheta) è la sua stessa legittimità.
Queste considerazioni incrociano un tema ricorrente nel dibattito politico. Ancora in questi giorni Massimo D'Alema ha rilanciato la proposta della Grande riforma, ripetendo il ritornello della riduzione del numero dei parlamentari, cosa che - com'è noto - ha soltanto uno scopo: fare definitivamente piazza pulita dei piccoli partiti, «incompatibili» con lo schema bipolare. Insomma, un Parlamento non rappresentativo progetta riforme che servono a blindare l'occupazione delle istituzioni da parte delle forze politiche che lo compongono. Stando così le cose, ci permettiamo di formulare una modesta (e autoironica) proposta. Che, oltre a evitare l'arbitrio di stabilire a tavolino più ridotte dimensioni delle Camere, comporta qualche vantaggio collaterale.
La volontà degli elettori
Per ridurre il numero dei parlamentari non c'è alcun bisogno di «riforme», è più che sufficiente rispettare la volontà degli elettori. Basta lasciare tutto per com'è, limitandosi a non assegnare i seggi (oggi circa duecento alla Camera e un centinaio al Senato) corrispondenti ai voti non espressi, alle schede bianche e nulle, e ai voti ricevuti dai partiti che non hanno superato lo sbarramento imposto dalla legge elettorale.
Così facendo, non solo si ridicolizzerebbero le balle del presidente del Consiglio (mostrando che il centrodestra è stato votato da meno del 36% degli elettori). Si renderebbe altresì visibile la reale composizione politica del paese, dando in qualche modo rappresentanza ai cittadini che hanno votato i partiti minori (3,5 milioni di elettori), si sono astenuti o hanno votato bianca o nulla (altri 10,6 milioni). Stiamo parlando di quasi un terzo dell'elettorato, una percentuale enorme la cui costante crescita (l'astensionismo è passato dal 19,5% nel 2008 al 35% nel 2009: un salto di qualità, pur considerando la diversa natura delle consultazioni) denota la crisi politica della cosiddetta seconda Repubblica.
Quando il re è nudo
Quest'ultima affermazione è dedicata a quanti temono che lasciare vuota una parte delle aule parlamentari alimenterebbe derive «antipolitiche». Quando «il re è nudo», far vedere la crisi sembra il solo modo per recuperare la sacralità delle istituzioni e avviare un processo partecipato di ri-legittimazione. Forse, materializzare il deficit di rappresentatività dei maggiori partiti, oggi mascherato da una legge elettorale indecente, costringerebbe le forze politiche a ricercare un rapporto più stretto e serio con il «paese reale».
Qui sta, evidentemente, il tallone d'Achille della proposta. Essa chiede ai partiti che, grazie ai media controllati da pochi gruppi di potere, appaiono e agiscono come rappresentanti della totalità, di riconoscere il proprio deficit di rappresentatività e di metterlo in scena. È un po' come chiedere all'attuale presidente del Consiglio di dire la verità sui reati fiscali delle sue aziende. Per questo si tratta di una proposta autoironica, formulata sapendo che ben difficilmente verrà presa in considerazione. Sperare, tuttavia, non costa (ancora) nulla.
Chissà che qualcuno tra coloro che contano non capisca che, a forza di rimuovere la realtà, ci si fa del male e che la troppa astuzia sconfina nell'autolesionismo. Chissà che l'attuale disastro, che non è detto non possa aggravarsi, non determini un inopinato sussulto di resipiscenza.



di Alberto Burgio su Il Manifesto del 16/03/2010

ACQUA PUBBLICA

Goracci sul decreto Ronchi: "L'acqua è un bene inalienabile dei cittadini e non può essere ceduta ai privati"

Il cosiddetto "decreto Ronchi" è un provvedimento inaccettabile, in quanto l’acqua è un bene inalienabile dei cittadini, e pertanto non può essere ceduta a privati. Mi sono battuto, da sempre in ogni sede istituzionale, per bloccare questo processo. Quante volte, anche in sede ATO, mi è toccata la parte del “pierino” o del “bastian contrario” …
Nella mia veste di sindaco, ovunque mi è possibile agire sul piano politico-istituzionale, continuo il mio impegno e intendo avviare un percorso amministrativo che restituisca l’acqua ai suoi legittimi proprietari: i cittadini.
Dobbiamo fermare una tale scelleratezza in quanto l’atto normativo che permette la privatizzazione delle risorse idriche, va contro i principi che regolano la civile convivenza e dimostra la protervia di una parte politica incurante dei bisogni dei cittadini. Coloro che hanno approvato tale norma si sono alienati dalla quotidianità e dalle necessità degli italiani, applicando leggi che avranno un ingiustificato e pesante aggravio delle spese nei bilanci familiari, già duramente colpite dall’attuale crisi economica.
La lotta contro la privatizzazione delle risorse idriche dovrà essere uno degli impegni del prossimo Consiglio Regionale e dovrà essere rappresentata agli organi competenti nazionali affinché questo sopruso sia definitivamente fermato.

Orfeo Goracci, candidato lista Federazione della Sinistra

LOTTA ALLA MAFIA

Vinti: La lotta alle infiltrazioni mafiose è una priorità per l’Umbria ma non per il Governo Berlusconi

Il contrasto alle infiltrazioni mafiose in Umbria ha visto realizzato, nel corso del 2009, un primo decisivo intervento con l’istituzione -su convincimento, iniziativa e insistenza del sottoscritto- di una Commissione regionale di inchiesta sulle infiltrazioni criminali in Umbria.
La Commissione ha avuto il compito di verificare il livello di infiltrazione delle organizzazioni mafiose nel territorio regionale umbro, procedendo anche alla verifica delle azioni poste in atto per contrastare la criminalità organizzata in materia di smaltimento dei rifiuti, del narcotraffico e delle acquisizioni d'impresa e attività economica.
Un importante obiettivo della Commissione è stato quello della verifica del rispetto della normativa antimafia da parte delle amministrazioni pubbliche che affidano appalti in ambito regionale; l’intenzione era quella di consentire alle varie amministrazioni locali di coniugare celerità e speditezza nell’esecuzione dei lavori pubblici con il tema, altrettanto rilevante e delicato, della realizzazione di controlli antimafia realmente efficaci. La Commissione ha avuto il compito di individuare le misure utili al fine di prefigurare un modello originale “umbro” di strumenti efficaci nel contrasto alla criminalità organizzata.
I lavori della Commissione sono stati caratterizzati dall’attività di audizione di figure appartenenti ai diversi campi dell’economia, della società e dell’amministrazione pubblica; particolarmente significativo è stato, anche ai fini della delineazione delle strategie anticrimine elaborate dalla Commissione, l’incontro con i magistrati della Procura Nazionale Antimafia.
Il quadro generale che ne è emerso è quello poco rassicurante di una realtà regionale non più ai margini dell’azione delle organizzazioni criminali.
Un primo, fondamentale, risultato operativo è stato quello di inserire specifiche prescrizioni antimafia formulate dalla Commissione in tema di appalti pubblici nel testo della legge regionale sui lavori pubblici recentemente approvata dal Consiglio regionale dell’Umbria.
Il Governo Berlusconi, come al solito, smentendo quello che propaganda quotidianamente ovvero che vuole intensificare la lotta alle mafie, si è affrettato a impugnare di fronte alla Corte costituzionale questa legge che rappresenta un reale tentativo di limitazione delle infiltrazioni mafiose.
La Commissione regionale non ha terminato i suoi lavori considerato il breve lasso di tempo che ha avuto a sua disposizione; comunque, già oggi, mi impegno a ripresentare all’inizio della nuova legislatura gli atti necessari per la sua ricostituzione per consentire alla stessa di proseguire le attività già proficuamente iniziate.
Mi farò promotore anche di ulteriori proposte, legislative e non, per realizzare un contrasto concreto ed efficace alle infiltrazioni mafiose, tra cui, l’istituzione di un apposito organismo regionale con compiti di controllo e verifica del rispetto da parte degli operatori pubblici e privati che agiscono nel territorio regionale del rispetto delle norme sul contrasto alle organizzazioni criminali. Penso che chi, anche solo per inadeguatezza o inettitudine, non rispetta le indicazioni di legge in questa materia deve essere fortemente sanzionato.

Stefano Vinti, candidato alle regionali nelle liste della Federazione della Sinistra

Le nostre tre proposte

Venerdì le piazze di tutto il Paese si sono riempite delle bandiere della Cgil in uno sciopero generale che è andato oltre ogni previsione, mentre a Roma una partecipata manifestazione dei precari e della scuola indetta dai sindacati di base si snodava lungo le vie della città. Lo sciopero "impossibile" nel contesto della crisi che morde con sempre maggiore crudezza, con i salari taglieggiati dalla cassa integrazione, ha raccolto invece l'adesione di un numero amplissimo di lavoratrici e lavoratori, dell'industria e dei servizi, dei trasporti e della scuola. E ieri Piazza del Popolo era davvero stracolma di donne e uomini, bandiere diverse, indignazione, resistenze e speranze. Una manifestazione resa possibile anche dalle tenaci iniziative del popolo viola. Un pezzo di società, vera, che si è mobilitata per la manifestazione convocata da tutte le opposizioni e che chiede che il contrasto alle politiche del governo viva assai più di quanto non è fino ad oggi avvenuto. Chiede un salto di qualità nelle aule parlamentari e soprattutto nel Paese. A questo popolo abbiamo avanzato tre proposte. Che si dia vita ad una stagione di mobilitazione continuativa, che la denuncia e lo scandalo non siano questione di un giorno e soprattutto che al centro della denuncia stia il nesso tra l'attacco alla democrazia e l'attacco al lavoro.
Quell'attacco al lavoro oscurato nello spazio mediatico, non contrastato realmente nelle aule parlamentari, ma che è al centro dell'offensiva di Berlusconi come del padronato, per distruggere tutti i diritti dei lavoratori e fare di donne e uomini pura merce nella disponibilità dell'impresa. Ed abbiamo proposto di promuovere una campagna referendaria contro l'attentato ai diritti del lavoro e al contratto collettivo, contro la precarietà e la legge 30, per impedire il ritorno del nucleare e scongiurare la privatizzazione dell'acqua. Sappiamo bene che è tutt'altro che pacifico. Sappiamo che l'equidistanza tra lavoro e impresa è alla base dell'inefficacia dell'attuale opposizione e che non si tratta di un incidente di percorso. Ma sappiamo anche la necessità di ostacolare in tutti i modi i disegni eversivi del governo. Reiterando anche una terza proposta limpida, che abbiamo già avanzato: quella di un fronte comune alle prossime elezioni politiche per battere le destre e ripristinare le garanzie costituzionali, attraverso una legge elettorale proporzionale ed un'altra che metta fine al conflitto di interessi. Non la riedizione del passato, non una proposta di governo comune, di cui non esistono le condizioni. Ma la necessità di fare quanto possibile per mandare a casa il governo Berlusconi e fermare il disegno regressivo e devastante che sta portando avanti.



di Paolo Ferrero, portavoce Federazione della Sinistra

RIFONDAZIONE TORGIANO

Domenica 14 marzo si è inaugurata la nuova sede del circolo del Partito della Rifondazione Comunista. Una sede storica, visto che è stata la casa dei comunisti di Torgiano per un lungo periodo: dagli anni 50 fino alla fine degli anni ‘80 del PCI, poi dal 1994 al 2002 del PRC.
Oggi si torna a casa e vogliamo fare di questa abitazione un luogo pubblico dove i torgianesi possano parlare di politica, guardare una partita di calcio, giocare a carte, vedere un film. Un centro di aggregazione in un momento in cui si cerca di isolare i cittadini, di emarginare ogni forma di partecipazione popolare, a fare in modo che la democrazia si eserciti solamente dai salotti televisivi.
Per questo siamo in controtendenza e siamo orgogliosi di esserlo, convinti come siamo che il progresso possa venire solamente da una partecipazione attiva dei cittadini e dei lavoratori alla gestione della cosa pubblica.
Il circolo è stato dedicato al Compagno Piero Ranieri, scomparso alcuni anni fa. Era fiero di appartenere a questo partito. Sorretto da una fede politica integerrima e da idealità profonde, ha saputo dare un contributo notevole al progetto politico di Rifondazione ed essere un punto di riferimento per tutti i compagni. Nei momenti di crisi sapeva trovare l’unità toccando gli animi di tutti i militanti.
La sua figura sarà sicuramente d’esempio al giovane segretario, Stefano Antognoni, eletto di recente dal direttivo del circolo.
Era presente anche la famiglia Ranieri che ha apprezzato la scelta fatta dal circolo: un riconoscimento importante che testimonia l’integrità morale e la passione politica, non solo di Piero, ma di tutta una famiglia.
Alla manifestazione ha partecipato il Segretario Regionale Stefano Vinti, il quale ha rimarcato con forza il valore di una sede, quale luogo politico pubblico, e la figura di Piero, sottolineandone il carattere forte e il senso di appartenenza politica. Ha poi invitato tutti i partecipanti ad attivarsi perché la Federazione della Sinistra ottenga un ottimo risultato il 27 e 28 marzo.
Una bella giornata di speranza dove hanno fato da cornice alcuni giovani che, con l’entusiasmo tipico dei loro anni, hanno saputo abbellire il locale con le bandiere classiche del movimento operaio e con i manifesti inneggianti la federazione della sinistra: C’E’ BISOGNO DI SINISTRA!



Attilio GAMBACORTA, Circolo PRC "Pierino Ranieri" TORGIANO

sabato 13 marzo 2010

TARTASSATI

ROMA - Entrate tributarie in calo e debito pubblico che continua a salire anche se in maniera non lineare. E' quanto emerge dal bollettino della Banca d'Italia dedicato alla finanza pubblica. Rispetto a gennaio 2009, le entrate tributarie sono calate del 2,9%, 28,809 miliardi di euro contro i 29,675. Un diminuzione che si somma a quella rilevata a gennaio 2009 rispetto allo stesso mese del 2008, -4,5%, quando ancora la crisi non aveva pesantemente influito sulla produzione di ricchezza in Italia.
I dati sulle entrate diffusi dalla Banca d'Italia sono sostanzialmente confermati dal ministero delle Finanze, anche se con cifre leggermente differenti. Il calo “limitato” del gettito, fanno sapere da via XX Settembre si attesta a 3,3%. Nel dato disaggregato spicca il -7% dell'Iva, la cartina di tornasole dell'andamento dell'economia italiana. “L'andamento dell'Iva - spiegano dalle Finanze - e' collegato al deterioramento del ciclo economico a livello sia nazionale sia internazionale”.
A gennaio, inoltre il debito pubblico sì è attestato sui 1.787,8 miliardi di euro, con un incremento dell'1,2% rispetto ai 1.761,1 miliardi registrati a dicembre 2009. L'aumento è ancora più sensibile se confrontato con il valore di un anno fa (gennaio 2009), più 5,2%, anche se il picco si è avuto a ottobre dello scorso anno, con 1.802 miliardi. Invertito dunque il trend che aveva visto il debito scendere nell'ultimo bimestre 2009. Quello fornito dall'istituto di via Nazionale è il dato del debito in valore assoluto. Ai fini del Patto di Stabilità europeo, il debito pubblico va invece considerato in relazione all'andamento del Prodotto interno lordo.

INIZIATIVA POLITICA A MARSCIANO

Marsciano/ Domani assemblea pubblica sulla scuola con la partecipazione di Giuliano Granocchia


MARSCIANO - Per iniziativa del locale Circolo Prc "Roberta Bolli", alle ore 16,30 di domani, sabato 13 marzo, si svolgerà, nella Sala Conferenze del Museo del Laterizio, di Marciano, un'assemblea pubblica sulla riforma della scuola.
Partecipano all'iniziativa Giuliano Granocchia, candidato al Consiglio regionale per la Federazione della Sinistra; Federica Cardaccia, del comitato precari scuola; Federico Santi, responsabile scuola del circol Prc di Marsciano.
Coordina Giansandro Alunni Roveri, responsabile politiche sociali circolo Prc di Marsciano.
Il Circolo PRC "Roberta Bolli" di Marsciano organizza poi, per venerdì 19 marzo 2010, al Parco Verde di Ammeto, una cena di autofinanziamento a sostegno della candidatura alle elezioni regionali di Giuliano Granocchia.