lunedì 29 marzo 2010

La scala mobile e il debole pensiero dell'oggi


Venticinque anni fa moriva, assassinato dalle Brigate rosse, Ezio Tarantelli, economista e professore presso l’Università degli Studi di Roma. Era opinione di Tarantelli che per tutelare il bene primario dell’occupazione fosse indispensabile combattere l’elevata inflazione italiana, fra gli anni Settanta e Ottanta. E che per farlo efficacemente occorresse interrompere quello che egli riteneva un circolo vizioso fra l’aumento dei prezzi e il successivo adeguamento automatico dei salari garantito dal meccanismo denominato “scala mobile”. Per ottenere questo risultato egli pensava necessario predeterminare un certo numero annuale di punti di contingenza, a bella posta sottostimato e dunque inferiore al livello di inflazione esistente, di cui si voleva ad ogni costo arrestare la corsa. La sua proposta prevedeva poi che, a fine anno, qualora i salari fossero risultati penalizzati rispetto alla dinamica dei prezzi, ai lavoratori sarebbe spettato un conguaglio. Se la tesi dell’economista romano fornì la base teorica per il taglio secco di quattro punti di scala mobile disposto con decreto nel 1982 dal governo Craxi, è pur vero che mai Ezio Tarantelli pensò ad un’abolizione dell’istituto della scala mobile, obiettivo per il quale - lungo i dieci anni successivi - si mobilitarono con successo la borghesia industriale e i governi a trazione social-democristiana.
Tre considerazioni è possibile fare, a posteriori.
La prima è che il controllo di prezzi e tariffe amministrate - che doveva accompagnare l’intervento sulla scala mobile - non è mai avvenuto, rivelandosi per ciò che era: una promessa fraudolenta, campata per aria, mai mantenuta e, probabilmente, non onorabile.
La seconda è che, a partire dagli anni Ottanta, e con ritmo crescente dopo la definitiva soppressione dell’indennità di contingenza, a far data dal ’92, l’erosione del potere d’acquisto di salari e retribuzioni è stata costante e inesorabile, portandone il valore al livello più basso, in termini assoluti, nell’Europa dei quindici. La terza è che la convinzione che catturò gran parte dello stesso sindacato, secondo cui l’eliminazione degli automatismi retributivi avrebbe rivitalizzato il muscolo atrofizzato della contrattazione, si è rivelata un tragico errore.
Ebbe ragione - inascoltato - Enrico Berlinguer, che all’indomani del decreto di San Valentino impegnò il suo riluttante partito nella campagna referendaria per la reintegrazione dei punti di scala mobile tagliati. Ebbe ragione, cioé, nel sostenere che per quella via si affermava un principio ideologico di formidabile portata, generando la credenza, tutt’ora in voga, secondo cui la competitività di una azienda e del sistema economico si gioca essenzialmente sulla compressione del costo del lavoro, e l’intera condizione lavorativa deve perciò ridursi a variabile dipendente del comando d’impresa.
La sconfitta che si consumò in quegli anni fu dunque grave non soltanto per le pesanti conseguenze materiali che determinò e che ancor più avrebbero pesato nel tempo sull’esistenza di milioni di persone, ma perché segnò l’affermarsi dell’egemonia culturale del capitale sul lavoro, colpevolizzando le lotte sociali e inoculando la fallace e autolesionistica convinzione che il progresso economico e sociale dei lavoratori confligga con gli interessi generali del Paese. Ci sarà pure qualche motivo se chi oggi governa il Paese punta ad una riscrittura della Costituzione e ad una definitiva, formale rimozione di quella “centralità” del lavoro che già i rapporti sociali hanno provveduto a scardinare. Queste poche riflessioni servono a ricordare come la ri-conquista di un’autonomia di pensiero e della perduta capacità di lettura dei rapporti sociali sia essenziale per conferire senso, spessore, motivazioni, credibilità ad una strategia di autentico cambiamento, oggi naufragata nel mare magnum delle aporie moderniste, nella melassa ideologica interclassista e nella rinunciataria mediocrità del pensiero debole.


Dino Greco, Liberazione 28.10.2010

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