La riforma appena approvata in Parlamento riporta indietro di oltre un secolo le lancette dell’orologio. Un secolo in cui le esperienze di arbitrato sono state più volte tentate e hanno sempre fallito
Probabilmente si dovrà tornare sul problema. Intanto, però, desidero riassumere i motivi dell’adesione che ho prestato al documento contro la nuova riforma del diritto del lavoro appena approvata in Parlamento. I motivi si riallacciano a studi e ricerche sul tema da me compiuto in tempi ormai lontani. Come dire che essi affondano le loro radici in contesti sensibilmente diversi dalla congiuntura odierna; la quale, peraltro, può soltanto renderli più stringenti e cogenti.
Dunque, ciò che si sta discutendo è di incoraggiare la predisposizione e la messa in circolazione di un modello-standard di contratto di lavoro contenente una clausola (per implicito, di rinuncia alla giurisdizione ordinaria, ossia) di devoluzione delle controversie insorgenti tra le parti durante il rapporto ad un giudice privato, ovvero un arbitro scelto consensualmente, che deciderà “secondo equità” (e non secondo il diritto, n.d.r.) emanando un verdetto inappellabile tranne che per vizi procedurali.E’ presumibile che, per non perdere l’occasione di lavoro, l’interessato non abbia il potere negoziale necessario per rifiutare la clausola e si consegni così – in caso di necessità – ad un giudizio dell’arbitro sganciato dalle normative vigenti che, per quanto inderogabili in astratto, saranno rese flessibili e adattabili al caso concreto in base a valutazioni soggettive del tutto incontrollabili.
Non starò a ricordare l’esito pressoché fallimentare della più cospicua esperienza di decisionismo equitativo del secondo dopo-guerra cui diede luogo l’accordo interconfederale del 1950 sui licenziamenti individuali. Né mi soffermerò sul penoso flop del recente tentativo di sdoganare l’arbitrato per le controversie nel pubblico impiego; e ciò sebbene l’arbitrato fosse autorizzato dai sindacati e abilitato a decidere soltanto secundum ius. Non intendo indugiare nemmeno sull’esperienza della speciale magistratura istituita sul finire dell’800 col proposito di gettare le basi del futuro diritto del lavoro. “Noi non abbiamo la formula del diritto obbiettivo da applicare”, diceva la classe dirigente dell’epoca, “ebbene, creiamo il giudice che a poco a poco lo formulerà, (...) costituendo man mano quei principi sommi di una futura legislazione del lavoro che oggi non siamo in grado di codificare”.
Ecco allora quel che indigna. Se poteva avere un senso richiamarsi alla ragionevolezza, al perbenismo, all’equità dei probiviri cent’anni fa, quando si trattava di costruire ex novo, adesso sponsorizzare il ritorno a quei criteri decisionali vuol dire legittimare la demolizione dell’edificio normativo che c’è. Poiché “i sommi principi” li abbiamo già, vuol dire riportare indietro le lancette dell’orologio.
Probabilmente si dovrà tornare sul problema. Intanto, però, desidero riassumere i motivi dell’adesione che ho prestato al documento contro la nuova riforma del diritto del lavoro appena approvata in Parlamento. I motivi si riallacciano a studi e ricerche sul tema da me compiuto in tempi ormai lontani. Come dire che essi affondano le loro radici in contesti sensibilmente diversi dalla congiuntura odierna; la quale, peraltro, può soltanto renderli più stringenti e cogenti.
Dunque, ciò che si sta discutendo è di incoraggiare la predisposizione e la messa in circolazione di un modello-standard di contratto di lavoro contenente una clausola (per implicito, di rinuncia alla giurisdizione ordinaria, ossia) di devoluzione delle controversie insorgenti tra le parti durante il rapporto ad un giudice privato, ovvero un arbitro scelto consensualmente, che deciderà “secondo equità” (e non secondo il diritto, n.d.r.) emanando un verdetto inappellabile tranne che per vizi procedurali.E’ presumibile che, per non perdere l’occasione di lavoro, l’interessato non abbia il potere negoziale necessario per rifiutare la clausola e si consegni così – in caso di necessità – ad un giudizio dell’arbitro sganciato dalle normative vigenti che, per quanto inderogabili in astratto, saranno rese flessibili e adattabili al caso concreto in base a valutazioni soggettive del tutto incontrollabili.
Non starò a ricordare l’esito pressoché fallimentare della più cospicua esperienza di decisionismo equitativo del secondo dopo-guerra cui diede luogo l’accordo interconfederale del 1950 sui licenziamenti individuali. Né mi soffermerò sul penoso flop del recente tentativo di sdoganare l’arbitrato per le controversie nel pubblico impiego; e ciò sebbene l’arbitrato fosse autorizzato dai sindacati e abilitato a decidere soltanto secundum ius. Non intendo indugiare nemmeno sull’esperienza della speciale magistratura istituita sul finire dell’800 col proposito di gettare le basi del futuro diritto del lavoro. “Noi non abbiamo la formula del diritto obbiettivo da applicare”, diceva la classe dirigente dell’epoca, “ebbene, creiamo il giudice che a poco a poco lo formulerà, (...) costituendo man mano quei principi sommi di una futura legislazione del lavoro che oggi non siamo in grado di codificare”.
Ecco allora quel che indigna. Se poteva avere un senso richiamarsi alla ragionevolezza, al perbenismo, all’equità dei probiviri cent’anni fa, quando si trattava di costruire ex novo, adesso sponsorizzare il ritorno a quei criteri decisionali vuol dire legittimare la demolizione dell’edificio normativo che c’è. Poiché “i sommi principi” li abbiamo già, vuol dire riportare indietro le lancette dell’orologio.
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