Questi giorni confusi e convulsi offrono una rappresentazione fedele del pessimo stato di salute della democrazia italiana. L’attacco del governo e del suo indiscusso padrone si è concentrato sul secondo capoverso dell’articolo 1 della Costituzione, che recita: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Ebbene, esso è stato stravolto da Berlusconi e rovesciato nel suo opposto, sicché lo potremmo rideclinare così: «Il popolo, attraverso il voto, aliena la sua sovranità nelle mani di un monarca che la gestisce come potere assoluto, slegato da qualsivoglia vincolo, regola, norma, procedura, istituzione si frappongano alla realizzazione di ogni suo desiderio o capriccio».
La suprema legge dello Stato, formalmente e sostanzialmente sovraordinata a tutta la produzione legislativa, da perimetro inviolabile è ormai derubricata a legge ordinaria, aggirabile attraverso il più sbrigativo decreto. E a colpi di fiducia. Si chiama dittatura, ancorché della maggioranza. Dico dittatura, perché una volta sradicata la Costituzione non esiste più una cornice condivisa, uno stato di diritto entro il quale sia possibile immaginare il corretto svolgimento della vita politica e civile del Paese. Tutti i poteri messi in equilibrio dall’architettura costituzionale sono posti in discussione e tendenzialmente sussunti dall’esecutivo che mena fendenti in ogni direzione: contro l’ordine giudiziario, contro la Consulta, contro lo stesso Parlamento e, da ultimo, con un’arroganza che avrebbe meritato dal Colle una replica meno timida, contro il Presidente della Repubblica. Bisogna finalmente prendere atto che è in corso una guerra “a bassa intensità”, un vero e proprio sovvertimento, condotto con modalità sempre più aggressive, del quadro istituzionale disegnato dalla Carta. E poiché ogni Costituzione è sempre e dovunque frutto di grandi, epocali rivolgimenti, quello che oggi si sta svolgendo sotto i nostri occhi con un impressionante accelerazione, è un salto di regime. Dove la temperie resistenziale, l’afflato costituente dei primi anni repubblicani sono stati totalmente spazzati via. Di tutto questo vi è solo una parziale e intermittente consapevolezza. Ciò che invece la tiepida opposizione parlamentare non ha affatto capito è che la frana dell’impianto istituzionale è la conseguenza inevitabile del progressivo smantellamento della prima parte dell’articolo 1 della Costituzione. Precisamente, quello che fissa nel lavoro il fondamento sociale e politico dello Stato. L’obiettivo è stato perseguito con metodica tenacia dal blocco sociale dominante e si è tradotto nella sconfitta del sindacato, nella mortificazione del welfare, nell’annichilimento della contrattazione collettiva, nella regressione del diritto del lavoro a diritto commerciale, nella riduzione del lavoro a libero mercato delle braccia, dove dilagano arbitrio padronale, precarietà e rottura dei legami solidali.
Sappiamo che questo è l’esito devastante di una sconfitta di proporzioni storiche del movimento operaio italiano, una sconfitta che ne ha disgregato le fila non meno di quanto ne abbia disorganizzato le idee e la coscienza di sé. Fino al punto da dissolverne la rappresentanza politica, via via consegnatasi, nella sua parte largamente maggioritaria, ad una deriva subalterna e ad una cultura interclassista. La borghesia italiana, storicamente orfana di un vero approdo democratico, ha finito per consegnarsi a Berlusconi (come un tempo fece con Mussolini), l’uomo che più di ogni altro ne incarna le pulsioni revansciste, sino a vivere gli stessi precetti liberali come un fardello ingombrante.
La cosa si è spinta così in là che è oggi difficile immaginare quale piega prenderà la vicenda politica italiana, soprattutto se essa dovesse dipendere interamente dall’esito di un conflitto interno alle classi dominanti. E se l’opposizione parlamentare continuerà a rimanere “l’opposizione di sua maestà”. Certo è - ma lo si è finalmente capito? - che viviamo una fase di straordinaria emergenza democratica, che fa apparire un vezzo intellettualistico, un astratto duello nominalistico, la disputa se siamo oppure no precipitati nel fascismo. Semplicemente, siamo al punto in cui il Paese sta scivolando lungo una china che porta alla sostanziale soppressione della libertà e della democrazia, come necessario complemento di una società che vive di ingiustizia e di diseguaglianza.
Questo repellente impasto reazionario va contrastato con tutta la forza di cui possiamo essere capaci. Ora. Con lo sciopero, con la lotta politica, con il voto, promuovendo ogni sussulto di partecipazione popolare. Tracheggiare, vivacchiare alla giornata nella speranza che qualche improbabile resipiscenza sgombri il cielo dalle nubi per riannodare i fili di non si sa quale discorso o compromissorio inciucio, significa non avere capito nulla di quello che è già accaduto. E che ancora può accadere.
La suprema legge dello Stato, formalmente e sostanzialmente sovraordinata a tutta la produzione legislativa, da perimetro inviolabile è ormai derubricata a legge ordinaria, aggirabile attraverso il più sbrigativo decreto. E a colpi di fiducia. Si chiama dittatura, ancorché della maggioranza. Dico dittatura, perché una volta sradicata la Costituzione non esiste più una cornice condivisa, uno stato di diritto entro il quale sia possibile immaginare il corretto svolgimento della vita politica e civile del Paese. Tutti i poteri messi in equilibrio dall’architettura costituzionale sono posti in discussione e tendenzialmente sussunti dall’esecutivo che mena fendenti in ogni direzione: contro l’ordine giudiziario, contro la Consulta, contro lo stesso Parlamento e, da ultimo, con un’arroganza che avrebbe meritato dal Colle una replica meno timida, contro il Presidente della Repubblica. Bisogna finalmente prendere atto che è in corso una guerra “a bassa intensità”, un vero e proprio sovvertimento, condotto con modalità sempre più aggressive, del quadro istituzionale disegnato dalla Carta. E poiché ogni Costituzione è sempre e dovunque frutto di grandi, epocali rivolgimenti, quello che oggi si sta svolgendo sotto i nostri occhi con un impressionante accelerazione, è un salto di regime. Dove la temperie resistenziale, l’afflato costituente dei primi anni repubblicani sono stati totalmente spazzati via. Di tutto questo vi è solo una parziale e intermittente consapevolezza. Ciò che invece la tiepida opposizione parlamentare non ha affatto capito è che la frana dell’impianto istituzionale è la conseguenza inevitabile del progressivo smantellamento della prima parte dell’articolo 1 della Costituzione. Precisamente, quello che fissa nel lavoro il fondamento sociale e politico dello Stato. L’obiettivo è stato perseguito con metodica tenacia dal blocco sociale dominante e si è tradotto nella sconfitta del sindacato, nella mortificazione del welfare, nell’annichilimento della contrattazione collettiva, nella regressione del diritto del lavoro a diritto commerciale, nella riduzione del lavoro a libero mercato delle braccia, dove dilagano arbitrio padronale, precarietà e rottura dei legami solidali.
Sappiamo che questo è l’esito devastante di una sconfitta di proporzioni storiche del movimento operaio italiano, una sconfitta che ne ha disgregato le fila non meno di quanto ne abbia disorganizzato le idee e la coscienza di sé. Fino al punto da dissolverne la rappresentanza politica, via via consegnatasi, nella sua parte largamente maggioritaria, ad una deriva subalterna e ad una cultura interclassista. La borghesia italiana, storicamente orfana di un vero approdo democratico, ha finito per consegnarsi a Berlusconi (come un tempo fece con Mussolini), l’uomo che più di ogni altro ne incarna le pulsioni revansciste, sino a vivere gli stessi precetti liberali come un fardello ingombrante.
La cosa si è spinta così in là che è oggi difficile immaginare quale piega prenderà la vicenda politica italiana, soprattutto se essa dovesse dipendere interamente dall’esito di un conflitto interno alle classi dominanti. E se l’opposizione parlamentare continuerà a rimanere “l’opposizione di sua maestà”. Certo è - ma lo si è finalmente capito? - che viviamo una fase di straordinaria emergenza democratica, che fa apparire un vezzo intellettualistico, un astratto duello nominalistico, la disputa se siamo oppure no precipitati nel fascismo. Semplicemente, siamo al punto in cui il Paese sta scivolando lungo una china che porta alla sostanziale soppressione della libertà e della democrazia, come necessario complemento di una società che vive di ingiustizia e di diseguaglianza.
Questo repellente impasto reazionario va contrastato con tutta la forza di cui possiamo essere capaci. Ora. Con lo sciopero, con la lotta politica, con il voto, promuovendo ogni sussulto di partecipazione popolare. Tracheggiare, vivacchiare alla giornata nella speranza che qualche improbabile resipiscenza sgombri il cielo dalle nubi per riannodare i fili di non si sa quale discorso o compromissorio inciucio, significa non avere capito nulla di quello che è già accaduto. E che ancora può accadere.
di Dino Greco su Liberazione del 11/03/2010
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