sabato 17 settembre 2016

IL “BELLO CIAO” DELL'ANPI A RENZI di Ciuenlai

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Smuraglia stravince il duello e alla platea “gli garba un sacco”. Applausi a lui e fischi a Renzi. E la Festa dell'Unità di Firenze “si illumina d'immenso”tornando ad essere normale
  
Ieri si è avuta “la prova provata” di quello che andiamo dicendo da tempo e cioè che Renzi è un piccolo uomo della politica, amplificato a dismisura dai media. E' bastato un confronto con il novantaduenne Presidente dell'Anpi Smuraglia sulla riforma costituzionale per dimostrarne i limiti e le sue infinite incapacità a tenere botta nel dibattito. Del fatto se ne sono accorti persino i suoi amatissimi e fedelissimi mezzi di disinformazione. Nessuno, dico nessuno, si è azzardato a dire, non solo che il fiorentino aveva vinto o pareggiato, ma manco che gli aveva tenuto testa. I più fanno finta di non avere visto e sorvolano, ma altri non ce l'hanno fatta a censurare il fatto. La Nazione titola addirittura “Bello Ciao” in prima pagine e stampa, a caratteri cubitali, un “Renzi in difficoltà”, che da solo è una notizia. Ma anche la sua amatissima Repubblica è costretta ad ammettere che c'è stato uno scontro coi militanti del Pd. Che evidentemente stavano con Smuraglia. E l'associata Stampa rincara “la platea partigiana fischia Renzi”. Ecco perchè lui , preso dal panico da referendum, si è precipitato a dire “ Bello Ciao? Mi volete mandare a casa e io resto lo stesso”, Smentendo quello che aveva detto qualche settimana fa. Il dramma però è un altro. Un grande paese come l'Italia si può permettere di avere questa collezione di nullità chiamate Governo?
P.S 1. Smuraglia era stato scelto pensando di poter fare di quel vecchietto un succulento boccone da mangiarsi alla sua “festa dell'Unità” come prezioso testimonial della campagna del Si. E invece è diventato un testimonial per il no. La verità è che se su quel palco fosse salito qualunque di noi che abbiamo una qualche esperienza politica, anche solo di base, l'avremmo fatto nero!
P.S. 2 – Qualche cronaca ha voluto sottolineare che il pubblico era pieno di ex partigiani e quindi favorevole all'Anpi. I più giovani sono nati nel 1924/25 e oggi hanno 90 anni. Smuraglia è tra questi avendone 92. Domande : Quanti potranno mai essere i novantenni ex partigiani che vivono ancora a Firenze ? E soprattutto quanti di essi saranno ancora in grado di uscire di sera e starsene diverse ore in una sedia senza stancarsi? Azzardo qualche numero 10/ 20? E quanto fiato hanno ancora questi per scatenare quella grande gazzarra contro Renzi? Forse non erano solo loro, ma c'erano anche militanti di altre generazioni ad appoggiare i “vecchietti”? Che abbiano finalmente capito che Renzi è un impostore di sinistra?

La ‘crescita’ che non c’è e le colpe della politica di Alfredo Morganti

Ieri, sul Corriere della Sera è comparsa un’intervista a un giovane economista italiano, Fadi Hassan. Insegna al Trinity College ed è ricercatore alla LSE, e per i prossimi dodici mesi, anche in Banca d’Italia. Hassan parla di un ‘ventennio perduto’ da parte della nostra economia, e spiega che “Sono 20 anni che l’Italia cresce meno del resto d’Europa. A metà degli anni 90 il PIL pro capite” del nostro Paese “era superiore del 3% alla media della zona euro. Adesso è inferiore del 13%”. Fatti i conti, siamo all’incirca a un -16% complessivo. Detto ciò, sviluppa ancora la sua analisi e sottolinea come il tessuto delle piccole e medie imprese, a suo dire, non ha retto l’urto della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica e, in egual modo, gli imprenditori italiani non hanno investito adeguatamente in ricerca e sviluppo. Dopo di che all’intervistatore la domanda è venuta spontanea: “Il ventennio perduto coincide con la II Repubblica. Non sarà colpa della politica?”. Tema intrigante, sui cui Hassan da economista glissa. Tuttavia la questione effettivamente si pone.
Non sono un’economista e dunque mi limiterò a due spicci di analisi politica. Sì, rispondo io, è anche colpa della politica. O, almeno, del modello di politica proposto in questo ventennio, così descrivibile: riduzione della mediazione e della rappresentanza ed enfatizzazione dell’esecutivo e della decisione. Restringimento progressiva del ruolo dei corpi intermedi (partiti in primis) a favore del leaderismo. Verticalizzazione della catena di comando, indebolimento del dibattito pubblico e della partecipazione democratica e organizzata, nonché sfarinamento della coesione sociale e nazionale, tutto a vantaggio di uno scontro sempre più di vertice, tutto interno alla classe dirigente senza più un sistema dei partiti. Sostituzione della politica con la comunicazione-politica, con l’accresciuta rilevanza del ruolo del messaggio nei confronti dei suoi contenuti effettivi. Infine, Parlamento sempre più svuotato di credibilità e legittimazione. 
Tutti questi ingredienti hanno prodotto il restringimento delle basi di consenso (passività, astensione, protesta) e la riduzione della partecipazione popolare al destino della cosa pubblica. Il gioco democratico, che era duro ma leale nel rapporto maggioranza-opposizione a partire dal Parlamento, si è ridotto a ‘vincere’, ‘perdere’, ‘comandare’, ‘scendere in campo’, ‘metterci la faccia’ e ‘prendere in mano lo scettro’. Con un’attenzione esagerata verso la mera ’potenza’ del potere, direttamente sgorgante dallo spartiacque ormai ‘polarizzato’ del fronte politico. Il famoso bipolarismo, per il quale anche la sinistra si è battuta pervicacemente.
Voi direte: che cosa c’entra l’economia? C’entra. Perché se la politica è sana e rinvigorisce la partecipazione, se le grandi scelte sono compiute nel coinvolgimento di tutte le forze (ove possibile), se la coesione nazionale sprigiona anche una coesione sociale, almeno nei momenti difficili, se tutto questo avviene davvero, la risposta delle istituzioni e del Paese diventa forte, convincente ed efficace. Quello della Prima Repubblica, nonostante il conflitto sociale vero che la segnava, e forse a cagione proprio di questo, era un tessuto democratico coeso, unitario (l’unità costituzionale!), che permetteva alle classi dirigenti anche di prendere decisioni difficili, purché suffragate da un briciolo almeno di indispensabile concordia nazionale. E il Parlamento lavorava per rafforzare questa unità di fondo, verso la quale i conflitti che si innestavano non erano dirompenti, ma vere iniezioni di stabilità, per quanto appaia paradossale. La II Repubblica ha rotto questo equilibrio, che l’ondata neoliberale aveva già scisso socialmente. Ha ‘fratturato’ il Paese in due ‘poli’. Ha gettato l’acqua entro cui il bambino-Paese galleggiava alla ricerca di equilibri e di risposte politiche efficaci, lasciando questo bambino in balìa di chi diceva: già da domenica sera si deve sapere chi ha vinto! Come nel calcio.
Ma da quando la politica democratica, il gioco di maggioranza e opposizione, la sfida per il governo si sono ridotti allo schema del vincere e del perdere come nello sport? Da quegli anni 90, ecco da quando. Se prima sindacati e industriali, sotto l’occhio vigile del governo, potevano discutere e trovare accordi utili al Paese, da allora la scacchiera si è svuotata, e ridotta al Re che comanda e all’alfiere avversario che si oppone (sempre che non si accordino in qualche oscuro Patto del Nazareno). Il Patto dell’Eur, che fu invece anche il simbolo di un modo di governare, con un’ampia diffusione di responsabilità e partecipazione, non fu più possibile, se non nel senso dell’accordo al ribasso o della divisione sindacale. I corpi intermedi, invece, oggi sono stati messi da parte. I partiti morti. La Costituzione unitaria ridotta a legge ordinaria e sottoposta a strappi e frizioni politiche. È solo un esempio, ma dà l’idea di quanto sia dura la strada per ritornare a livelli di democrazia davvero adeguati a quella che gli economisti chiamano ‘crescita’. La politica ha le ‘sue’ colpe, dunque. Come no.

Pensioni, la fregatura dell’APE di Fabrizio Casari

La proposta del governo Renzi per l’anticipo della pensione ai nati tra il 1951 e il 1953, più che una soluzione rappresenta un insulto alle condizioni e all’intelligenza dei pensionati. Regali a banche ed assicurazioni da un lato e prelievo ai pensionati dall’altro, la storiella della nonna che si gode i nipotini, pietra miliare della narrazione renziana della prima ora, rischia di diventare la storia dei nipotini che chiedono l’elemosina per i nonni.
Un’intera generazione si trova esodata o rischia di divenirlo: da un lato perché ritenuta troppo anziana per convenire alle aziende, che preferiscono i salari d’inserimento e le mille forme truffaldine che consentono di pagare salari da terzo mondo ai giovani, piuttosto che sostenere stipendi con seniority importanti. Dall’altra quella stessa generazione è ritenuta troppo giovane per accedere alla pensione anticipatamente e si sceglie quindi di lasciarli in mezzo al guado senza nemmeno una scialuppa.
Non si tratta di risorse disponibili. Ci sono scelte di politica finanziaria e di business che intervengono, più che valutazioni sulla sostenibilità del sistema. In effetti, proprio l’incertezza sul quando e quanto della pensione contribuisce a spingere l’accesso dei pensionandi alla previdenza privata complementare, che si alimenta dell’incertezza e/o dell’insufficienza di quella pubblica. La pensione si allontana, quindi, anche perché se si avvicinasse il business si ridurrebbe.
L’ultima trovata del governo Renzi s’inquadra esattamente in questo contesto. Si offre l’anticipo di tre anni a chi può andare in pensione a fronte di una decurtazione pesante del già scarso assegno ma solo tramite un prestito ventennale con le banche. Non sono possibili percorsi diversi.
E qui si pone la pietra miliare del provvedimento: le banche, che hanno ottenuto dalla BCE la liquidità che va obbligatoriamente immessa nel mercato dei prestiti, troverebbero in questa manovra un modo di erogare denaro, sicure del suo rientro. Si dirà: come fanno ad esserne sicure, visto che la salute non è detto consenta a tutti di arrivare agli 85 anni ed oltre? Non a caso per i mutui ci sono solo porte chiuse e il raggiungimento massimo di 75 anni di età è considerata questione raramente superabile; come mai allora in questo caso si può arrivare agli 85 anni? Presto detto: nel caso di morte prematura o d’inadempienza intervengono le assicurazioni a garanzia! Ovvero l’altra gamba del tavolo degli istituti di credito.
La domanda è d’obbligo: ma perché non viene data la possibilità, a chi può, di anticipare i tre anni di contributi rimanenti in un’unica soluzione e, con il conseguente ricalcolo dei coefficienti, offrirgli la pensionabilità immediata? In fondo chi può pagarsi i tre anni di contribuzione volontaria non avrebbe motivo di ricorrere al prestito oneroso. No, non è possibile: il prestito è obbligatorio per l’operazione. Invece il pagamento diretto dovrebbe essere almeno considerato. Il sospetto che l’operazione sia destinata a rimpinguare le casse di banche e di assicurazioni non può essere rimosso senza dare questa possibilità.
Sono infatti banche ed assicurazioni i due soggetti che guadagnano con l’operazione. La prima erogando prestiti con interessi con il denaro ricevuto dalla BCE, le seconde assicurando lautamente il rischio d’insolvenza causa decessi prematuri. Ma i pensionati non avrebbero nulla da guadagnare nell’operazione, visto che pagherebbero per venti anni l’anticipazione di tre! E per di più pagherebbero con interessi pesanti l’anticipazione del loro denaro.
Dai calcoli dello stesso governo, la decurtazione doppia, ovvero la riduzione dell’assegno e il pagamento degli interessi, renderebbe l’anticipazione del pensionamento un salasso economico che ricadrebbe interamente sul loro reddito per venti, lunghissimi anni. Per fare un esempio, un assegno pensionistico previsto intorno ai 1500 euro al mese, diverrebbe di circa 1200. Il 30% in meno, quando in Francia e in altri paesi europei siamo intorno al 2-4% in meno all’anno.
La fascia media verrebbe privata complessivamente di una percentuale importante dell’assegno e si deve poi considerare che – dato mai sottolineato – ammesso che lo si scelga, contrarre un prestito ventennale su una pensione media, semplicemente impedirebbe di fatto ogni altra esposizione.
Quale? Per esempio un mutuo per acquistare una casa per sé o per i propri figli, come si usava quando l’Italia era un paese normale nel quale l’ascensore sociale esisteva. Questo si concretizzava anche nei sacrifici dei padri a vantaggio dei figli e l’entrata in pensione dei genitori costituiva uno snodo importante, data la certezza dell’entrata e l’arrivo del TFR maturato in una vita di lavoro.
L’incertezza congenita sui trattamenti pensionistici non può proseguire. Sarebbe ora di stabilire un principio: se si vuole rimanere al lavoro fino ai 70 anni, si è liberi di farlo, ma si può andare in pensione dopo almeno 35 anni di contributi versati, che quasi mai peraltro corrispondono agli anni lavorati (questi, di solito, sono molti di più). Ci si dovrebbe andare con i contributi maturati, eventualmente decurtati, o anche bloccandoli fino alla soglia della pensione minima prevista del ricalcolo attivo; ma va garantito che, a versamenti contributivi effettuati, corrisponda l’assegno previdenziale.
Solo il rapporto tra questi due elementi può essere considerato legittimo, espressione del patto che intercorre tra Stato e cittadino, con quest’ultimo che versa i suoi contributi previdenziali per riaverli al momento della pensione. Per 35 anni finanzia le casse dello Stato che li restituisce (in parte) spalmandoli su una media di venti anni. Il continuo allontanarsi dell’età pensionabile pone invece uno sbilanciamento grave tra gli anni di contributi e quelli della pensione e si configura come un vero e proprio scippo dello Stato ai danni dei cittadini. Che se avessero la possibilità di scegliere, ormai si guarderebbero bene dal versare contributi che mai più riceveranno.
E’ vero che la tenuta dei conti è problema serio, ma le proposte avanzate per favorire l’accesso anticipato (prima fra tutte quella dell’ex ministro del Lavoro Damiano) sono ragionevoli, compatibili e risolutive per portare in pochi anni a regime il meccanismo e garantire così il necessario equilibrio finanziario.
Riportare le norme alla corretta dinamica tra contributi versati e pensione percepita, oltre che restituire ai cittadini la certezza del diritto, consentirebbe una ripresa rapida dei consumi interni, volano strategico dell’economia e motore indiscutibile per la ripresa, condizione decisiva per la crescita del PIL e la conseguente riduzione del deficit. Ma servirebbe un governo nel vero senso della parola.
Questo assemblaggio di parvenu non lo è. Incapace di costruire una politica economica, inabile a determinare una ristrutturazione logica del sistema di welfare, il governo Renzi continua a fare solo propaganda, unica cosa alla quale si dedica ininterrottamente.
Così tenta di spacciare l’APE come un’iniziativa a favore dei pensionati, nascondendo come essi sono solo lo strumento per una ulteriore operazione speculativa del comparto creditizio e assicurativo, in nome e per conto del quale questo governo lavora senza sosta e con ogni fantasia. Dov’è la novità?

Giustizia ai licenziati nella Fiat dei suicidi

di Giorgio Cremaschi

"NON SI PUO’ CONTINUARE A VIVERE PER ANNI SUL CIGLIO DEL BURRONE DEI LICENZIAMENTI. L'intero quadro politico istituzionale che , da sinistra a destra, ha coperto le insane politiche della Fiat è corresponsabile di queste morti insieme alle centrali confederali.
Dopo aver lucrato negli anni scorsi finanziamenti pubblici multimiliardari, lo speculatore Marchionne chiude e ridimensiona le fabbriche Italiane e delocalizza la produzione all’estero per fare profitti letteralmente sulla pelle dei lavoratori che sono costretti ormai da anni alla miseria di una cassa integrazione senza fine ed a un futuro di disoccupazione.
A Pomigliano l’unica certezza dei cinquemila lavoratori consiste nella lettera di altri due anni di cassa integrazione speciale e cessazione dell’attività di Fiat Group Automobiles nella consapevolezza che buona parte di loro non saranno assunti da fabbrica Italia.
“Il tentato suicidio di oggi di Carmine P., cui auguriamo di tutto cuore di farcela, il suicidio di Agostino Bova dei giorni scorsi, che dopo aver avuto la lettera di licenziamento dalla fiat per futili motivi è impazzito dalla disperazione ammazzando la moglie e tentando di ammazzare la figlia prima di togliersi la vita, sono solo la punta iceberg della barbarie industriale e sociale in cui la Fiat sta precipitando i lavoratori..."

Così scriveva nel 2011 Maria Baratto, operaia di Pomigliano confinata da anni in cassa integrazione a Nola. Era militante del sindacato SlaiCobas, tra le animatrici del comitato delle mogli di Pomigliano e per il suo impegno a sostenere i tanti che non ce la facevano più, era stata definita l'operaia anti suicidi.

Maria si è uccisa alla fine del maggio del 2014. Sola, nel suo povero appartamento che non ce la faceva più a tenere, si è inflitta tremendi colpi di coltello al corpo. Ha sofferto a lungo prima di morire, a conclusione di una vita di soli 47 anni, di cui gli ultimi 6 di cassa integrazione. Maria non ha lasciato un testo nel momento in cui ha deciso di uccidersi, aveva già scritto tutto tre anni prima, quando lottava perché altri non si suicidassero. Solo pochi mesi prima, nel febbraio del 2014, Maria aveva subito un altro colpo. Peppe De Crescenzo, anch'egli operaio e militante dello SlaiCobas confinato in cassa a Nola, si era impiccato. Erano amici e compagni di lotte, Maria a quel punto ha cominciato a piegarsi..non si può continuare per anni a vivere sul ciglio del burrone...

La Fiat ha sempre violato diritti e libertà umane fondamentali nei confronti dei propri dipendenti. A cui è sempre stata negata la libertà di iscriversi al sindacato scelto, di scioperare, di dire come la si pensa sul lavoro, di avere idee in conflitto con quelle della proprietà, della direzione, delle gerarchie aziendali. A tutti i livelli della Fiat è sempre stato impossibile fare carriera senza dimostrare fedeltà assoluta e servile verso chi comanda. Questo è il primo e molte volte l'unico "merito" che vige davvero in azienda. E i dissidenti in Fiat sono sempre stati accomunati ai malati, agli invalidi, a tutti coloro che son stati giudicati non sufficientemente produttivi. Per tutti costoro la Fiat è sempre stata la feroce dispensatrice di punizioni, emarginazione, licenziamento. E il licenziamento in Fiat ha spesso significato la cancellazione dalla possibilità di ottenere qualsiasi altro posto di lavoro. I licenziati Fiat sono sempre finiti nelle liste nere di quelli da non assumere mai, per non incorrere nelle rappresaglie di chi li ha espulsi dal lavoro. Chi la Fiat caccia deve diventare un emarginato per sempre, esempio perenne per chiunque abbia in mente di non ossequiare l'azienda e chi la dirige.
Nel corso degli anni ci sono stati momenti nei quali la Fiat ha dovuto frenare i suoi brutali istinti autoritari, perché la forza organizzata dei lavoratori, i sentimenti della opinione pubblica, i poteri dello stato democratico, qualche suo stesso interesse contingente, la costringevano a fermarsi e mascherarsi. È stato così subito dopo la Liberazione, negli anni 70, per brevi sprazzi degli anni 90 del secolo scorso. Ma appena il vento è cambiato la vera natura del potere Fiat è subito riemersa, spesso più astuta e feroce di prima.

Uno degli strumenti dell'oppressione dell'azienda verso i suoi dipendenti sono sempre stati i reparti confino. Officine con attività e scopi sostanzialmente inventati, la cui unica vera funzione è sempre stata quella di tenere assieme coloro che l'azienda voleva colpire, ma che, ancora, non intendeva o poteva licenziare.

Negli anni 50 Giuseppe Di Vittorio usò la Officina Sussidiaria Ricambi, OSR, a Torino come esempio di ciò ch'egli definiva il fascismo della Fiat guidata da Vittorio Valletta. In quel reparto furono confinati tanti attivisti e dirigenti della Fiom, tanto che tutti poi lo chiamarono Officina Stella Rossa. Che alla fine fu chiusa con il licenziamento completo di tutti i suoi dipendenti.

Negli anni 80, dopo la sconfitta sindacale e dopo anni di cassa integrazione per decine di migliaia di operai, furono create le Unità Produttive Accessoristiche, le famigerate UPA, dove furono confinati i malati e gli attivisti sindacali giudicati rompiscatole irrecuperabili dall'azienda guidata da Cerare Romiti. La Fiat ha sempre avuto un gusto particolare nel dare nomi pomposi a quelle che in realtà erano semplici galere. La stessa sadica fantasia è stata usata negli anni 2000, sotto la gestione di Sergio Marchionne, nei confronti degli operai di Pomigliano.

World Class Logistic, si sente che la direzione aziendale oramai vive all'estero, è il nome ufficiale del reparto confino di Nola. Qui nel 2008 vengono trasferiti 320 operai di Pomigliano, gìa da tempo in cassa integrazione. Non vengono spostati nel nuovo reparto per farli lavorare, ma per lo scopo esattamente opposto. Non devono lavorare più. Dei trasferiti più di un terzo sono iscritti allo SlaiCobas, che così viene quasi cancellato a Pomigliano. Gli altri sono iscritti FIOM e poi malati e invalidi. E poi qualcuno che ha detto una parola di troppo su questo o quel capo, vittime dell'ultimo minuto quando l'infamia dei carnefici aggiunge anche qualche vendetta personale nella lista dei deportati.

Dal 2008 al 2014 i 320 lavoratori del WCL di Nola non hanno fatto un minuto di lavoro e hanno dovuto vivere con 800 euro di assegno mensile, in più sottoposti periodicamente alla minaccia che anche quella misera somma dovesse venir meno. L'orlo del burrone. Decine i tentativi di suicidio o altre forme di autolesionismo, molti di più i casi di profonda depressione. Era stato così anche per i cassaintegrati degli anni 80 a Torino, sulle cui condizioni psichiche dovettero operare gli specialisti e le strutture sanitarie locali. Almeno 149 sono i suicidi allora documentati.

La strage è continuata a Nola, sia ben chiaro non per impossibilità tecniche di far lavorare tutti, ma solo per la volontà della Fiat di emarginare e distruggere le persone che non le piacciono.

Nell'agosto del 2014 Antonio Frosolone, altro operaio deportato, iniziava uno sciopero della fame e delle prestazioni farmacologiche. Antonio è un infartuato ed in questo modo metteva immediatamente a rischio la vita. Lo sciopero durava 15 durissimi giorni. Questa volta la Fiat capiva che qualche passo lo doveva fare e prometteva una ripresa del lavoro. Graduale naturalmente e infatti ancora oggi un bel gruppo dei deportati di Nola lavora metà del tempo normale.
Comunque un'altra sua vendetta la Fiat l'aveva già realizzata, licenziando Mimmo Mignano e altri quattro operai per la loro protesta dopo il suicidio di Maria Baratto.

Qui voglio porre una domanda. Come reagireste voi dopo anni di persecuzioni e miseria, vedendo tanti amici e compagni crollare, perdersi, morire? Come reagireste di fronte al suicidio disperato di un'amica e compagna di sempre? Io ho pensato per me e non sono sicuro che la mia reazione sarebbe dentro le regole della legalità corrente.

Mimmo Mignano e gli altri invece hanno asciugato lacrime e rabbia e hanno trasformato la loro indignazione in una rappresentazione, anche per rompere il muro di omertà grandi e piccole che copre le malefatte della Fiat. I cinque operai hanno inscenato la loro morte davanti ai cancelli del polo fantasma di Nola e hanno unito ad essa il suicidio di un pupazzo, che aveva la maschera di Sergio Marchionne.

Per questo terribile delitto d'opinione, per altro commesso al di fuori del posto di lavoro, i cinque sono stati licenziati e il loro licenziamento è stato poi confermato dal Tribunale di Nola, che da sempre concede alla Fiat il diritto di fare tutto ed il suo contrario.

Mignano e gli altri così hanno perso anche gli 800 euro di cassa integrazione e ora vivono in povertà assoluta, anche se nel loro impegno quotidiano non parlano mai di sé. Mignano e gli altri stanno in una dimensione morale che è totalmente estranea a coloro che li hanno licenziati e che hanno perseguitato Maria Baratto. Schierarsi con questi operai contro la prepotenza medioevale della Fiat è un dovere civile e sociale, un discrimine sul quale misurare la coerenza di chi si dichiara democratico.

Il 20 settembre i cinque operai sono in appello a presso il tribunale di Napoli e lì si deciderà quanta libertà e quanta giustizia ci siano ancora in questo paese, per il lavoro e per tutti noi.

venerdì 16 settembre 2016

A chi giova? La Costituzione di Renzi è una retrocessione storica di Paolo Ciofi

Siamo arrivati al redde rationem, al punto di caduta decisivo dei processi politici di questi anni: tale è il senso della controriforma costituzionale. Un vero e proprio stravolgimento della Costituzione, che dallo smantellamento del fondamento del lavoro intende stabilizzare il dominio dell’impresa, cioè del capitale, sull’intera società.
La domanda è: a chi giova? Ha sostenuto Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, intervenendo alla riunione del Coordinamento per la difesa della Costituzione: «All’immaginario collettivo, ottenebrato dalla politica menzognera del “neoliberismo”, pensiero unico dominante, deve essere innanzitutto chiarito che dette riforme, obiettivo ultimo e non rinunciabile di Matteo Renzi, non sono di alcuna utilità per il popolo italiano, ma servono soltanto agli interessi economici della “finanza”, cioè delle banche e delle multinazionali, alle quali Renzi, come in genere l’intera classe politica, si è da tempo asservito».
 Parole dure, ma veritiere. E infatti hanno detto Sì alla controriforma del governo J.P. Morgan, Citigroup, Goldman Sachs, Soros, Marchionne, Wall Street e il Financial Times. Senza contare l’ambasciatore americano, che è entrato a gamba tesa in una questione che riguarda la sovranità del popolo italiano.
 Siamo di fronte a una modernizzazione capitalistica in cui i diritti vengono sostituiti dai bonus, cioè dalle graziose concessioni di chi governa. È il compimento di un’operazione – che a sinistra è stata non compresa se non addirittura assecondata, comunque sottovalutata – cominciata con Berlusconi, il quale agli esordi dichiarava che questa Costituzione è di stampo sovietico perché non tutela l’impresa e la proprietà privata e perciò va cambiata.
 D’altra parte, anche in molti ambienti della sinistra si continua a sostenere (vedi l’assemblea di Sinistra Italiana) che questa Costituzione è liberale. Un errore madornale, quando non è una mistificazione. Questa è una Costituzione che non segna il ritorno allo Stato liberale dopo il fascismo, al contrario apre la strada alla transizione verso il socialismo. Non per caso J. P. Morgan -  perfettamente in linea con quanto sosteneva Berlusconi – ci dice che bisogna farla fuori perché contiene principi socialisti.
 Del pensiero liberale la Costituzione assume la grande conquista storica dei diritti civili, ma respinge la vecchia ideologia proprietaria, comunque riverniciata nelle sue versioni postmoderne, della cittadinanza libera e libertaria perché spogliata di ogni relazione con il gravame soffocante dei rapporti economici. Come se nella società e nel mercato siano uguali il precario e il finanziere; l’operaio che ha perso il lavoro e il Cavaliere Silvio Berlusconi; la lavoratrice “flessibile” messa in mobilità e gli inflessibili e immobili proprietari della Fiat.
 Questa clamorosa e sostanziale disuguaglianza fa sì che la particolare compravendita in cui si configura il rapporto di lavoro non sia equiparabile ai contratti retti dal diritto civile, che presuppongono condizioni di parità tra i contraenti. Quindi, perché siano effettivi i diritti dei lavoratori e perché sia reale la libertà delle persone, sono necessari altri interventi di tipo normativo, istituzionale e politico.
 Per questo motivo il lavoro diventa un diritto costituzionalmente garantito: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto» (articolo 4). Come osservava Togliatti, relatore sui principi sociali della Costituzione, sarà vano aver inscritto nella Carta nuovi diritti «se poi la vita economica continuerà ad essere retta secondo i principi del liberalismo, sulla base dei quali nessuno di questi diritti mai potrà essere garantito». Un inizio di garanzia si avrà solo se «la vita economica del Paese sarà regolata secondo principi nuovi, i quali tendano ad assicurare che l’interesse egoistico ed esclusivo di gruppi privilegiati non possano prevalere sull’interesse della collettività». In caso contrario, tali gruppi, «avranno il monopolio assoluto della nostra ricchezza e della nostra vita»
 È un nodo ineludibile su cui occorre fare chiarezza, anche a sinistra. Non si tratta solo di difendere la Costituzione, ma di lottare per applicarla. Si è convinti o no che applicando i principi costituzionali si fuoriesce dal dominio del capitale? E che l’applicazione di questi principi comporta il rovesciamento dei trattati europei? È una questione di visione e di chiarezza sulla strada che si vuole percorrere.
 Il progetto di una società di tipo nuovo è realizzabile proprio se il centro di gravità della società e dello Stato non è più la proprietà ma il lavoro, ossia il lavoratore cittadino. La Repubblica democratica fondata sul lavoro, infatti, non solo segna il passaggio verso un ordine nuovo attraverso l’espansione della democrazia, ma del nuovo ordine getta il fondamento che consente di trasformare l’intero assetto dei rapporti economici e sociali, aprendo le porte a una moderna e più vasta cittadinanza.
 La società dei proprietari cede il passo alla società dei lavoratori. La figura del cittadino senza qualità sociale, che nel presupposto tacito della proprietà – inviolabile al pari della persona – fondava il diritto, lascia il posto al lavoratore cittadino. Il polveroso principio secondo cui al sovrano apparteneva il potere, al cittadino la proprietà, sacra e inviolabile, viene cancellato da un patto che riconosce nel lavoro il fondamento dello Stato democratico, e perciò pone un limite alla proprietà sottoponendola al vincolo della «funzione sociale» e della «utilità generale».
 E’ un vero e proprio rivoluzionamento: rispetto non solo al fascismo, ma anche al vecchio Stato liberale, che al fascismo non fu in grado di opporre un argine. Dalla disuguaglianza esistente tra chi possiede i mezzi di produzione e chi dispone solo della propria forza-lavoro non si può prescindere, ben al di là della asserita uguaglianza di tutti e di tutte di fronte alla legge.
 La questione è posta in modo esplicito nell’articolo 3. Nel quale si afferma un principio straordinariamente innovativo e attuale: «E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
 Dove è chiaro che si considera necessario intervenire nel cuore del rapporto di produzione capitalistico con tre finalità: assicurare la libertà e l’uguaglianza, garantire il pieno sviluppo della persona umana, consentire ai lavoratori di partecipare in prima persona a tutti gli aspetti della vita del Paese. Il fondamento del lavoro nell’impianto costituzionale ridefinisce dunque concretamente la questione dell’uguaglianza in termini moderni, come pure la questione della libertà.
 Ormai è del tutto chiaro che la cancellazione della storia e della memoria del Pci, che è stata sistematicamente praticata in questi anni, è funzionale a un disegno organico di retrocessione storica tenacemente perseguito, che usando la retorica del cambiamento in realtà ci fa regredire verso il passato. C’è un salto qualitativo in questa regressione: dalla disapplicazione della Costituzione stiamo passando alla sterilizzazione definitiva dei suoi principi, anche in conseguenza dei trattati europei che sostituiscono il protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici con il dominio dell’impresa.
 Di qui, in vista del referendum costituzionale, la necessità di fare chiarezza su questi aspetti decisivi, che riguardano direttamente la vita delle donne e degli uomini del nostro tempo.

domenica 4 settembre 2016

Un piano per il lavoro di tutti di Guido Viale

L’Italia, la parte più bella e più vera del suo territorio e delle sue comunità, si sta disfando. Manca la manutenzione, ordinaria e quella straordinaria. I danni e le vittime, i lutti e i costi provocati dall’ultimo terremoto ne sono solo l’ennesima conferma. Con venticinque milioni di abitanti che vivono in zone ad alto rischio sismico, niente è stato fatto né predisposto per prevenire tragedie e devastazioni, che a detta di tutti i geologi, avrebbero potuto essere evitate.
Ma dove non arrivano i terremoti provvede il dissesto idrogeologico: in parte provocato dall’abbandono di terre, insediamenti e attività non sostenuti da interventi pubblici per garantire tutto quello che potrebbero dare al resto del territorio; in parte, ma soprattutto, provocato dalla cementificazione selvaggia: sia quella abusiva; sia contrattata o promossa direttamente da “autorità” che avrebbero l’obbligo primario di salvaguardare il territorio e invece lo svendono per “salvare” i bilanci; sia imposta dall’alto, con quelle Grandi Opere contro cui si battono (per ora senza successo, con l’eccezione della Valle di Susa) le comunità locali.
Quella delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi (per “far ripartire il paese”, che invece affossano) è una logica perversa che impregna la politica istituzionalizzata in ogni sua articolazione. Non ci sono solo il Mose (che probabilmente dovrà essere smontato e portato via, perché, come previsto, non funziona), il Tav Torino-Lione o il sottopasso Tav di Firenze (che non verranno mai realizzati dopo aver inghiottito centinaia di milioni) e tante altre opere incompiute o inutili (come l’autostrada Brebemi, dove non passa quasi nessuno). L’area più a rischio del paese, il crinale appenninico centro-meridionale, invece di venir messo in sicurezza antisismica, verrà attraversato da un gigantesco gasdotto che dalle Puglie dovrebbe rifornire tutto il resto dell’Europa (e che una scossa sismica potrebbe far esplodere in qualsiasi punto del suo tracciato), da progetti di trivellazioni e geotermici mortiferi per la qualità del paesaggio e delle produzioni agricole, e dall’autostrada Orte-Mestre, che la mancanza di fondi aveva temporaneamente cassato, ma che ora, con la “flessibilità”, concessa dall’Ue, è stata resuscitata.
Ed è sempre la logica delle Grandi Opere quella che impedisce di affrontare il più urgente di tutti i programmi in cui dovrebbe impegnarsi l’Italia (insieme a tutto il resto del mondo): quello della conversione ecologica, e innanzitutto energetica, del paese. Perché sia la conversione ecologica che la manutenzione del territorio non sono fatte solo da tante piccole opere studiate a misura del territorio e delle esigenze delle sue comunità, come ormai hanno capito in tanti, mentre il governo da questo orecchio proprio non ci sente. Entrambe richiedono anche un’inversione della logica che lega la politica agli affari; al punto che, per l’attuale classe dirigente, dove non ci sono affari non c’è politica; oppure deve essere la politica a creare l’occasione di nuovi affari: spendendo denaro sottratto ai cittadini e alla soddisfazione delle loro esigenze, devastandone il territorio, promuovendo la corruzione, creando e mantenendo un universo di finti imprenditori che senza appoggi di Stato non saprebbero mettere insieme due mattoni (altro che liberismo!).
Eppure, gran parte delle condizioni per un cambio di rotta ci sono. Il problema è metterle insieme, e non è una cosa facile; ma soprattutto occorre sbarazzarsi dell’attuale classe dirigente, abbarbicata alla logica perversa dell’identità tra politica e affari che ha presieduto, irreversibilmente, alla sua formazione.
Come? Innanzitutto, contro il trend che ha caratterizzato gli ultimi decenni e che la riforma costituzionale di Renzi vorrebbe consolidare, va rivendicata piena autonomia fiscale e decisionale ai territori: ai Comuni, alle istituzioni del decentramento, alle unioni di piccoli Comuni che la legge prevede ma che non sono mai state fatte. E’ sul territorio, nelle comunità, che i problemi della vita quotidiana si conoscono, si possono individuare e tradurre in progetti; ed è lì che si può esercitare un controllo sulla loro selezione e realizzazione, promuovendo la partecipazione dal basso.
In secondo luogo bisogna valorizzare il sapere diffuso sul territorio: le comunità sono piene di saperi tecnici, di esperienze professionali, di passione e di conoscenze di qualche caratteristica del loro habitat, fondamentali nell’orientare il dibattito sulle iniziative da intraprendere, e il controllo su quello che viene fatto. La democrazia partecipata è anche e soprattutto questo.
In terzo luogo, bisogna far emergere una nuova imprenditoria. Inutile contare sulla trasformazione dei politici in finti imprenditori; o continuare ad accettare che l’imprenditorialità si trasmetta di padre in figlio. Quella serve solo, e neanche sempre, a perpetuare l’attuale assetto degli affari. Se invece si vuole promuovere una vera imprenditoria sociale, bisogna andare a cercarla là dove si sta già manifestando: nella capacità di far lavorare insieme un gruppo grande o piccolo di persone che condividono una o più finalità comuni.
Poi, ed è la cosa principale, bisogna distribuire il lavoro tra tutti e dare a tutti la possibilità di lavorare: a ciascuno secondo le sue capacità e le sue potenzialità. Solo il progetto di un grande piano nazionale (ed europeo) di piccole opere, finalizzato a creare lavoro aggiuntivo per chi non ce l’ha, come aveva proposto Luciano Gallino, può mettere in moto questo processo. Tutti vuol dire tutti: giovani e anziani (secondo le loro possibilità); uomini e donne; occupati e disoccupati; nativi, immigrati e profughi. Di cose da fare ce n’è per tutti, per tutti i livelli di professionalità, di capacità e di vocazione, e per molti anni.
I disastri e i lutti provocati dall’ultimo terremoto possono essere un’occasione per riflettere su questa prospettiva; per capire che la ricostruzione può essere pensata e realizzata in questo modo, invece di ripetere i disastri che sono state – e ancora sono – la falsa ricostruzione de L’Aquila, dell’Irpinia, del Belice. Non c’è niente di irrealistico nel voler seguire una strada diversa. Anzi, sarebbe sicuramente più efficace, un esempio per introdurre una logica diversa in tanti altri territori che non sono stati colpiti dal terremoto, ma che hanno anche loro da far fronte a grandi e piccoli dissesti.

Evasione e bolle armi del ricatto globale, di ilsimplicissimus


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Le ultime vicende che vedono i colossi del web e dell’informatica, Apple in testa, sotto accusa per i marchingegni fiscali e le gigantesche evasioni, non ci parlano solo del meraviglioso e intricato mondo del business nell’era globalizzata nella quale si produce in Cina, si distribuisce in Irlanda e si pagano le tasse finali a Bermuda, ma di una realtà sempre più evidente: che le multinazionali e i grandi gruppi finanziari stanno sostituendo gli stati e dunque stanno anche spazzando via la democrazia. Il caso della mela morsicata è esemplare: non contenta della tassazione in Irlanda che peraltro è appena del 12,5% nel 2003 riuscì ad imporre a Dublino un’aliquota dell’ 1% e a portarla gradualmente a niente, a una ricarica di telefonino, ovvero lo 0,005% , il 5 per mille per chi non si trova a suo agio con le cifre decimali. Adesso l’Irlanda, dopo una sentenza europea chiede ad Apple 13 miliardi di tasse, per le attività economiche svolte sul proprio territorio, ma succede un fatto stranissimo e surreale: gli Usa dapprima hanno minacciato ritorsioni, poi il ministro del tesoro ha suggerito che forse la multinazionale (che ovviamente paga cifre ridicole anche in America) potrebbe ridurre l’importo dovuto all’Irlanda “se le autorità degli Stati Uniti dovessero imporre ad Apple di versare per il periodo 2003 – 2014, importi maggiori alla società madre statunitense per il finanziamento delle attività di ricerca e sviluppo”.
E’ chiaro che si tratta di un tentativo di salvataggio in extremis francamente privo di senso visto che non si vede la ragione per cui l’Irlanda dovrebbe cedere parte del suo credito agli Usa in cambio di una fumosa e pelosa promessa su un cambiamento delle regole in terra americana. Ma dall’episodio emergono fin troppo chiaramente due cose: da una parte il totale disconoscimento della sovranità altrui tanto da voler  rubare e lucrare il maltolto quasi si trattasse di una storia di  malavita, dall’altra la subalternità di Washington ai poteri di economici, che la costringe farsi carico non solo dell’evasione ed elusione nazionale, ma di difenderla anche  altrove. Insomma come se fossero ormai una specie di Blackwater globale, di braccio armato del profitto.
Del resto in un sistema liberista non potrebbe essere altrimenti: la nomenklatura capitalista comanda ad onta dell’apparente democrazia; la globalizzazione, la battaglia contro il lavoro, i salari e il welfare hanno fatto crescere i profitti e li hanno finanziarizzati, a fronte di un calo produttivo,  tanto  che nel secondo trimestre di quest’anno i dividendi azionari sono stati di 372 miliardi dollari e questo secondo le stime ufficiali che ovviamente non tengono conto delle sottostime, degli imboscamenti e dei camuffamenti di denaro, dei dividendi non versati o di quelli occulti, delle capitalizzazione borsistiche,  dei guadagni azionari di tantissimi dirigenti dei grandi gruppi, dell’economia criminale o di quella sommersa, della finanza off shore, o delle evasioni fiscali. Bene che vada la gigantesca cifra è solo la punta di un iceberg e tuttavia già così e nemmeno tendendo conto di una stima di crescita del 4% entro il 2016 fatta dalla  Henderson Global Investors, arriviamo su base annua a 1 miliardo e 488 miliardi di Euro, vale a dire una cifra superiore al Pil di quasi tutti i Paesi del mondo e inferiore solo a quello dei primi 9. E’ più, molto di più, di qualsiasi Paese dell’America latina ad eccezione del Brasile, è più di qualsiasi Paese dell’Africa, molto superiore alle tre grandi economie del continente, ovvero Sudafrica, Nigeria ed Egitto e assai di più di qualsiasi stato dell’Asia, fatte salve Cina e India. Sono cifre, anche se solo ufficiali, che determinano il comando perché qualsiasi Paese è sotto ricatto, basta premere un tasto.
E tuttavia i numeri stratosferici non cancellano anzi rafforzano l’idea di trovarsi di fronte ad un mondo illusorio ed estremamente fragile: tornando alla web e sharing economy dalla quale siamo partiti possiamo focalizzarci sulla Airbnb, una società fondata bel 2008 da tre ragazzotti californiani che oggi sono multimilardari  con l’idea di mettere in rete il business fiorente, proprio a causa delle crisi, delle case vacanza. Con solo un’idea nemmeno poi cosìoriginale e di fatto già in qualche modo esistente sia pure a titolo gratuito, con una banalissima struttura informatica, senza alcuna proprietà materiale, nemmeno quella dei server  sono diventati leader mondali di questo interscambio e per tutto questo salvo che negli Usa dove viene  usato il paradiso fiscale de facto del Delaware, la società madre e le consorziate pagano un inezia di tasse in Irlanda. Si tratta allora di un miracolo che conferma la retorica oscena e vacua delle start up?  No si tratta dell’economia di carta: in Italia che è il terzo Paese al mondo dopo Usa e Francia per  numero di contratti, i proprietari hanno guadagnato almeno in chiaro 394 milioni di euro con le case affittate su  Airbnb. Ma solo una commissione del 3% per cento è finito alla società dunque all’incirca 11 milioni, mentre dagli ospiti temporanei arriva una percentuale che va dal 6 al 12% e quindi aggiungiamo altri 23 milioni. A questi sommiamo i “contributi” alla società di un milione e trecentomila italiani che si sono serviti di Airbnb per trovare case vacanza fuori del Paese: qui i conti sono più ardui, ma possiamo ipotizzare un’altra dozzina di milioni per un totale di circa 50 di milioni. Tantissimo per pagare appena 40 mila euro di tasse anche se tutti i contratti vengono  in realtà firmati con la filiale irlandese della società.
Tantissimo ma anche problematico perché se è vero, come afferma la società che finora 60 milioni di persone hanno utilizzato il servizio di cui 2 milioni di proprietari gli incassi globali sebbene alti per un semplice servizio web e altissimo rispetto alla miseria di tasse pagate, si possono ipotizzare in circa 6 miliardi di entrate ( con una media, molto, ma molto generosa e di fatto improbabile di mille euro a contratto), ma allora com’è che i tre fondatori si ritrovano ognuno con un patrimonio personale di circa 3 miliardi e mezzo di dollari?  Si deve andare a tentoni perché i bilanci sono segreti e del resto la Airbnb ha la sua sede principale nello stesso palazzo che ospitò a suo tempo  la Buconero significativa società di Callisto Tanzi. Ora tutto questo per dire che nonostante la Airbnb secondo il Wall street journal non abbia fatto utili nel 2015 a causa delle spese per espandersi e che anzi le perdite operative siano state di 150 milioni, che il settore abbia  comunque dei limiti di crescita e che adesso arriva il difficile con la concorrenza locale in via di contrattacco, la società ha ricevuto un miliardo di dollari  da un gruppo di banche composto da Jp Morgan, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley e grazie a questo la sua valutazione è arrivata a 30 miliardi di dollari, una cifra spropositata se ci basiamo sui fondamentali. E tutti riposti in una fede assoluta e generica nella sharing economy che via Irlanda e Bermuda paga un semplice obolo di tasse. Quindi economia di rapina e bolle vanno di pari passo e collaborano insieme a costruire la potenza finanziaria con cui si tiene in vita il ricatto globale.