Siamo arrivati al redde rationem,
al punto di caduta decisivo dei processi politici di questi anni: tale è
il senso della controriforma costituzionale. Un vero e proprio
stravolgimento della Costituzione, che dallo smantellamento del
fondamento del lavoro intende stabilizzare il dominio dell’impresa, cioè
del capitale, sull’intera società.
La
domanda è: a chi giova? Ha sostenuto Paolo Maddalena, vicepresidente
emerito della Corte Costituzionale, intervenendo alla riunione del
Coordinamento per la difesa della Costituzione: «All’immaginario
collettivo, ottenebrato dalla politica menzognera del “neoliberismo”,
pensiero unico dominante, deve essere innanzitutto chiarito che dette
riforme, obiettivo ultimo e non rinunciabile di Matteo Renzi, non sono
di alcuna utilità per il popolo italiano, ma servono soltanto agli
interessi economici della “finanza”, cioè delle banche e delle
multinazionali, alle quali Renzi, come in genere l’intera classe
politica, si è da tempo asservito».
Parole
dure, ma veritiere. E infatti hanno detto Sì alla controriforma del
governo J.P. Morgan, Citigroup, Goldman Sachs, Soros, Marchionne, Wall
Street e il Financial Times. Senza contare l’ambasciatore americano, che
è entrato a gamba tesa in una questione che riguarda la sovranità del
popolo italiano.
Siamo
di fronte a una modernizzazione capitalistica in cui i diritti vengono
sostituiti dai bonus, cioè dalle graziose concessioni di chi governa. È
il compimento di un’operazione – che a sinistra è stata non compresa se
non addirittura assecondata, comunque sottovalutata – cominciata con
Berlusconi, il quale agli esordi dichiarava che questa Costituzione è di
stampo sovietico perché non tutela l’impresa e la proprietà privata e
perciò va cambiata.
D’altra
parte, anche in molti ambienti della sinistra si continua a sostenere
(vedi l’assemblea di Sinistra Italiana) che questa Costituzione è
liberale. Un errore madornale, quando non è una mistificazione. Questa è
una Costituzione che non segna il ritorno allo Stato liberale dopo il
fascismo, al contrario apre la strada alla transizione verso il
socialismo. Non per caso J. P. Morgan - perfettamente in linea con
quanto sosteneva Berlusconi – ci dice che bisogna farla fuori perché
contiene principi socialisti.
Del
pensiero liberale la Costituzione assume la grande conquista storica
dei diritti civili, ma respinge la vecchia ideologia proprietaria,
comunque riverniciata nelle sue versioni postmoderne, della cittadinanza
libera e libertaria perché spogliata di ogni relazione con il gravame
soffocante dei rapporti economici. Come se nella società e nel mercato
siano uguali il precario e il finanziere; l’operaio che ha perso il
lavoro e il Cavaliere Silvio Berlusconi; la lavoratrice “flessibile”
messa in mobilità e gli inflessibili e immobili proprietari della Fiat.
Questa
clamorosa e sostanziale disuguaglianza fa sì che la particolare
compravendita in cui si configura il rapporto di lavoro non sia
equiparabile ai contratti retti dal diritto civile, che presuppongono
condizioni di parità tra i contraenti. Quindi, perché siano effettivi i
diritti dei lavoratori e perché sia reale la libertà delle persone, sono
necessari altri interventi di tipo normativo, istituzionale e politico.
Per
questo motivo il lavoro diventa un diritto costituzionalmente
garantito: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al
lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto»
(articolo 4). Come osservava Togliatti, relatore sui principi sociali
della Costituzione, sarà vano aver inscritto nella Carta nuovi diritti
«se poi la vita economica continuerà ad essere retta secondo i principi
del liberalismo, sulla base dei quali nessuno di questi diritti mai
potrà essere garantito». Un inizio di garanzia si avrà solo se «la vita
economica del Paese sarà regolata secondo principi nuovi, i quali
tendano ad assicurare che l’interesse egoistico ed esclusivo di gruppi
privilegiati non possano prevalere sull’interesse della collettività».
In caso contrario, tali gruppi, «avranno il monopolio assoluto della
nostra ricchezza e della nostra vita»
È
un nodo ineludibile su cui occorre fare chiarezza, anche a sinistra.
Non si tratta solo di difendere la Costituzione, ma di lottare per
applicarla. Si è convinti o no che applicando i principi costituzionali
si fuoriesce dal dominio del capitale? E che l’applicazione di questi
principi comporta il rovesciamento dei trattati europei? È una questione
di visione e di chiarezza sulla strada che si vuole percorrere.
Il
progetto di una società di tipo nuovo è realizzabile proprio se il
centro di gravità della società e dello Stato non è più la proprietà ma
il lavoro, ossia il lavoratore cittadino. La Repubblica democratica
fondata sul lavoro, infatti, non solo segna il passaggio verso un ordine
nuovo attraverso l’espansione della democrazia, ma del nuovo ordine
getta il fondamento che consente di trasformare l’intero assetto dei
rapporti economici e sociali, aprendo le porte a una moderna e più vasta
cittadinanza.
La
società dei proprietari cede il passo alla società dei lavoratori. La
figura del cittadino senza qualità sociale, che nel presupposto tacito
della proprietà – inviolabile al pari della persona – fondava il
diritto, lascia il posto al lavoratore cittadino. Il polveroso principio
secondo cui al sovrano apparteneva il potere, al cittadino la
proprietà, sacra e inviolabile, viene cancellato da un patto che
riconosce nel lavoro il fondamento dello Stato democratico, e perciò
pone un limite alla proprietà sottoponendola al vincolo della «funzione
sociale» e della «utilità generale».
E’
un vero e proprio rivoluzionamento: rispetto non solo al fascismo, ma
anche al vecchio Stato liberale, che al fascismo non fu in grado di
opporre un argine. Dalla disuguaglianza esistente tra chi possiede i
mezzi di produzione e chi dispone solo della propria forza-lavoro non si
può prescindere, ben al di là della asserita uguaglianza di tutti e di
tutte di fronte alla legge.
La
questione è posta in modo esplicito nell’articolo 3. Nel quale si
afferma un principio straordinariamente innovativo e attuale: «E’
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese».
Dove
è chiaro che si considera necessario intervenire nel cuore del rapporto
di produzione capitalistico con tre finalità: assicurare la libertà e
l’uguaglianza, garantire il pieno sviluppo della persona umana,
consentire ai lavoratori di partecipare in prima persona a tutti gli
aspetti della vita del Paese. Il fondamento del lavoro nell’impianto
costituzionale ridefinisce dunque concretamente la questione
dell’uguaglianza in termini moderni, come pure la questione della
libertà.
Ormai
è del tutto chiaro che la cancellazione della storia e della memoria
del Pci, che è stata sistematicamente praticata in questi anni, è
funzionale a un disegno organico di retrocessione storica tenacemente
perseguito, che usando la retorica del cambiamento in realtà ci fa
regredire verso il passato. C’è un salto qualitativo in questa
regressione: dalla disapplicazione della Costituzione stiamo passando
alla sterilizzazione definitiva dei suoi principi, anche in conseguenza
dei trattati europei che sostituiscono il protagonismo dei lavoratori e
delle lavoratrici con il dominio dell’impresa.
Di
qui, in vista del referendum costituzionale, la necessità di fare
chiarezza su questi aspetti decisivi, che riguardano direttamente la
vita delle donne e degli uomini del nostro tempo.
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