sabato 27 luglio 2019

PER UN'ITALIA SENZA EROI, SENZA ODIO, SENZA CRUDELTA' DIFFUSA di Marco Sferini



DAGLI AL MAGREBINO

La Meloni e altri suoi parlamentari hanno fomentato l'odio social contro i nordafricani per il caso del carabiniere ucciso. Ma la realtà è diversa: l'omicida è americano, ricco e bianco 



 



 



Una prima citazione: “I due ladri, assassini del povero carabiniere Mario Rega, erano nordafricani. Ma nei titoli i giornaloni online non ve lo fanno sapere #dueuomini #youarefakenews“. Poi arriva la vera e propria violenza verbale istituzionale cui ci si sta lentamente abituando e non si prova sdegno se un deputato, un ministro o un altro esponente della Repubblica si esprimono in questo modo: a proposito del carabiniere accoltellato e barbaramente ucciso a Prati in Roma, si leggono espressioni del tipo… “bastardi“, “infami“, “stronzi“, “ai lavori forzati“, “caccia all’uomo“.Il linguaggio energicamente muscoloso prosegue: “Provo rabbia e tristezza, l’Italia non può essere punto di approdo do certe bestie. Vicinanza alla famiglia e ai Carabinieri, spero che questi animali vengano presi e marciscano in galera“.Infine, tra le tante espressioni di cordoglio riservate a Mario Cerciello Rega, sul luogo dove ha trovato la morte per mano di due ventenni di nazionalità statunitense, alla ricerca di cocaina da sniffare e per questo ladri di un borsello che avrebbero restituito in cambio di una misera banconota da 100 euro…, spunta un foglietto bianco scritto al computer. Vi si legge: “I carabinieri muoiono / I delinquenti diventano eroi / Vedi caso giuliani / Ciao Mario / firma olografa“.Chiunque mi voglia scusare lo faccia, dall’alto della sua etica differente dalla mia: ma io prima del carabiniere, vedo colpito a morte un giovane di 35 anni che si guadagnava il pane con un mestiere certamente molto rischioso. Vedo un giovane marito, appena sposatosi. Vedo un viso sorridente allo stadio. Vedo una vita stroncata davvero nel fiore degli anni per mano di due altri giovani, molto più giovani di lui che hanno reagito con una violenza inaudita al controllo che stavano subendo.Invece tutto intorno percepisco solo odio, cattiveria, voglia di vendetta con bava alla bocca, schiumante di rabbia. Provo ad immedesimarmi nella moglie del carabiniere e sentire il pugnale che anche lei ha nel suo cuore oggi. A lei e a tutti i famigliari è concesso l’odio, è una necessità profondamente umana, un sentimento che in questi casi deve essere provato almeno per un certo tempo per elaborare quanto accaduto, davanti al quale si rimane increduli, catatonici e privi di speranza per il futuro.La perdita di una persona cara è sempre una tragedia: ma quando avviene sotto forma di brutale omicidio è ancora più terribile e quindi non si può e non si deve biasimare il parente, la moglie, chiunque pronunci parole durissime contro gli assassini.Ma la parte istituzionale del Paese, che rappresenta il governo e la Repubblica e si lascia scientemente andare a condanne preventive, travalicando lo stato di diritto e spargendo veleni contro presunti assassini nordafricani, così come chi pretende di fare informazione, essere giornalista, e twitta la medesima cosa salvo poi correggere la propria “fake news” poche ore più tardi, dopo aver accusato i quotidiani di essere spargitori di false notizie (vedere l’hashtag #youarefakenews…), sa che sta facendo politica nel mentre si esprime sguaiatamente in quel modo, alimentando un clima di disagio, di rabbia e di crudeltà nel Paese intero.E’ un comportamento irresponsabile nelle forme e nei termini, ovviamente. E’ come se lo stato di diritto si fermasse per davvero su alcune soglie e fosse una variabile dipendente dalla necessità che un partito o un esponente politico ha di accrescere il suo favore presso la popolazione esaltandola, esacerbandone gli animi, rendendola più forcaiola di quanto già non sia per un istinto quasi ancestrale. 

domenica 16 giugno 2019

La natura del Pd di Franco Astengo


Se mai ce ne fosse stato bisogno gli episodi di questi giorni rappresentano un ulteriore disvelamento della natura del PD, della logica del potere che ha mosso l’intenzione della “vocazione maggioritaria” e della “governabilità”.
Altro che “la maionese impazzita” richiamata a suo tempo da Massimo D’Alema.
La questione non sta tanto nella “qualità” di vera e propria mostra delle miserie umane evidenziata dalle intercettazioni riguardanti il giro degli “aggiustatori” del CSM e delle Procure, con tutto il loro corollario di cene segrete, turpiloqui, millanterie miranti addirittura a coinvolgere il Presidente della Repubblica.
Il punto sta nella reazione che il PD ha dimostrato anche in quest’occasione, nella quale sotto l’antica spoglia di consuete malversazioni si delinea una crisi di credibilità della magistratura che rende ancor più debole il già fragile impianto del sistema politico italiano, mandando in pericolo (più ancora di quanto non lo fosse già qualche giorno addietro) la democrazia repubblicana.
Da notare, inoltre, che al centro di questa pericolosa dinamica stanno personaggi protagonisti del tentativo, a suo tempo, di modificare la natura parlamentare della Repubblica attraverso riforme costituzionali per fortuna respinte dalla maggioranza di elettrici ed elettori.
La reazione del PD è sconcertante: si permette al protagonista–principe di questa vicenda di usare la formula ambigua “dell’autosospendensione” e, da notizie giornalistiche, il nuovo segretario sta cercando di fare in modo che una parte del partito coinvolta oggettivamente in questa vicenda non provochi addirittura una scissione.
Da dove deriva questa preoccupazione di Zingaretti ? Dal fatto che la corrente di Lotti controlla anche tanti pezzi di partito sul territorio (citazione testuale da articoli, di giornale nei quali si sottolinea anche la divisione in correnti del gruppo parlamentare e dell’Assemblea Nazionale).
Compreso bene? Il timore è quello di perdere pezzi di cordate di potere in giro per l’Italia: perché di questo si tratta, senza nessun accenno all’enormità della questione che si sta ponendo che, ripetiamo, non è tanto quella dell’intreccio (già tante volte visto e mai affrontato) tra “questione morale” e “questione politica” ma della credibilità dell’intero sistema soprattutto sul nodo delicatissimo della divisione dei poteri.
Calenda, dal canto suo, non è capace di dire altro che “Riformare il CSM”: anche in questo caso non si avverte la profondità della situazione, i rischi per la democrazia, l’alimento ulteriore per l’antipolitica che ormai – in via di esaurimento la sbornia del M5S – sta sempre di più assumendo i tratti della cosiddetta “democrazia illiberale”.
I segnali ci sono tutti e rappresentano i frutti avvelenati della confusione tra governabilità e gestione del potere e dell’assemblaggio indiscriminato sul piano dei valori e dei contenuti che inevitabilmente sta dentro all’idea della “vocazione maggioritaria” e della dismissione del ruolo di “parte” dei partiti (altro discorso quello della politica delle alleanze, tanto per intenderci).
Il pericolo riguarda, prima di tutto, la qualità della nostra vita democratica: sarà il caso di rifletterci prima di tutto a sinistra.

lunedì 27 maggio 2019

Si chiude una fase, se ne apre un’altra. Non rinnoviamo la nostra tessera nel Prc di Domenico Moro - Fabio Nobile

Il periodo attuale è uno dei peggiori di sempre, sia per il movimento comunista sia per la classi subalterne, in Europa e soprattutto in Italia. 
Le trasformazioni dell’economia mondiale hanno indebolito la classe lavoratrice europea occidentale, esponendola all’aggressione del mercato autoregolato, che ha ridotto occupazione e salari reali, nel mentre si annullava, attraverso l’integrazione europea, la sovranità democratica, sancita dalla Costituzione, ossia la capacità delle classi subalterne di incidere sulle decisioni di politica economica  e sociale.
Le profonde trasformazioni economiche hanno avuto come necessario corrispettivo modifiche politiche altrettanto profonde. 
Il crollo dell’Urss e dei Paesi socialisti ha contribuito pesantemente al peggioramento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, e in Italia ha contribuito a trasformare il Pci, separandolo in due tronconi. 
Uno, il più grande, si è trasformato in partito liberaldemocratico, che da subito si è collocato a destra, facendosi alfiere dell’integrazione economica e valutaria europea e rappresentante del grande capitale internazionalizzato. Soprattutto, questo troncone è stato fautore del maggioritario, che ha spostato al centro, cioè sugli interessi dello strato superiore del capitale, l’asse della politica. Ciò si è tradotto nella trasformazione profonda del nostro Paese, attraverso massicce privatizzazioni e pesanti controriforme del mercato del lavoro, delle pensioni, e del welfare.
Il Partito della rifondazione comunista (Prc) ha raccolto il più piccolo dei due tronconi in cui si era diviso il Pci, aggregando anche una serie di altre organizzazioni e di individualità, che non accettavano di identificare la fine dell’Urss con la fine della prospettiva socialista. Il nome stesso del partito è significativo del senso originario del progetto: non la riproposizione sic e simpliciter del Pci ma, correttamente, la rifondazione di una teoria e di una pratica comuniste e adatte a un’epoca nuova. 
In realtà, negli ultimi anni la “Rifondazione” è stata intesa in modo diverso da parte della maggioranza del Partito, cioè come presa di distanza da quella parte del movimento comunista legata alla storia dell’Urss e identificata in quanto tale come “stalinista”. Il Prc, allo stesso tempo, ha continuato, riducendosi sempre più sul piano quantitativo, a essere quello che era all’inizio: una somma, e non una sintesi, di culture e punti di vista diversi (spesso molto diversi) su temi a volte decisivi. Per realizzare una sintesi si sarebbero dovute fare, dal nostro punto di vista, in primo luogo due cose. 
La prima era fare i conti con il passato. Sia quello del Pci, la cui fine e trasformazione in Pds-Ds-Pd non sono certo cadute dal cielo, ma affondano le radici anche negli errori commessi negli anni ’70 e ‘80. Sia quello dell’Urss, a proposito della quale è prevalsa una critica staccata da una vera analisi scientifica del contesto storico ed economico e spesso concentrata sul piano morale, confondendosi così, almeno in parte, con la critica di parte borghese.  
La seconda era una ripresa delle categorie di Marx e di Lenin per una lettura della formazione economico-sociale dei Paesi avanzati e dell’imperialismo, e dell’Italia in particolare, allo scopo di ridefinire una strategia, un via alla gramsciana “Rivoluzione in Occidente”. 
Nulla di tutto questo è stato fatto. Se risposte e analisi sono fatte, queste sono rimaste all’interno delle correnti o delle frazioni in cui il partito era diviso.
I gruppi dirigenti del Prc (e dopo la scissione del ’98 anche del Pdci) sono sempre stati ideologicamente eterogenei e attraversati, in parte non piccola, anche da una sfiducia nella attualità del comunismo, che si sarebbe manifestata esplicitamente solo in seguito. Infatti, quello che finiva per tenere insieme il gruppo dirigente e i militanti non era tanto una visione e un progetto di trasformazione della realtà condivisi, ma la politica, che in mancanza di una strategia, doveva necessariamente scivolare nel tatticismo e nell’elettoralismo. Per alcuni, evidentemente, si trattava soprattutto, mantenendo il simbolo, di attingere elettoralmente all’enorme lascito del Pci. Lo sbocco di questi limiti, accentuati dalle leggi elettorali maggioritarie, è stato l’individuazione del centro-sinistra come unico orizzonte possibile. La partecipazione ai due governi Prodi, specie il Prodi II, ha rappresentato il punto di non ritorno per il Prc e per il resto della sinistra radicale. Infatti, la crisi economica e politica ha duramente colpito la base sociale su cui si fondava il centro-sinistra e in particolare la sua parte più radicale. Un pezzo importante di quella base sociale, composta soprattutto di lavoro salariato e disoccupati, si è spostato verso l’astensionismo e verso la forza emergente del M5s. Si è dimostrato così, nella realtà dei fatti, che il semplice sfruttamento del lascito del Pci, in mancanza della definizione di una linea e di un posizionamento adeguato alla realtà, non bastava e che quel lascito era destinato a disperdersi rapidamente. Finita l’esperienza di Prodi, si è dato luogo alla prima delle molte e successive aggregazioni elettoralistiche, l’Arcobaleno, che nacque sulla base della convinzione di Bertinotti che ormai il comunismo potesse sopravvivere solo come corrente culturale. Con la grave sconfitta elettorale dell’Arcobaleno e la fine, per volontà del Pd, dell’opzione elettorale del centro-sinistra, le differenze di fondo e i contrasti non risolti tra i comunisti sono venuti finalmente alla superficie. Il Prc (e altre forze della sinistra radicale) sono implose, dando vita a una serie di scissioni e a una situazione di atomizzazione del movimento comunista. Ad oggi, in Italia non esiste nessun gruppo dirigente o organizzazione che possa essere da solo il punto di aggregazione per la ricostruzione di una forza comunista e persino dell’area della sinistra radicale.
La sconfitta spartiacque dell’Arcobaleno avrebbe dovuto far capire – oltre al fatto che il centro-sinistra tradizionale era ormai sorpassato dalla storia – che una unità puramente elettorale e senza contenuti chiari e condivisi non era in grado di rispondere alle domande pressanti che le classi subalterne ci rivolgevano. I gruppi dirigenti non l’hanno capito e hanno continuato a darsi come obiettivo prioritario, se non unico, il rientro in Parlamento. La maggior parte della sinistra radicale e il Prc hanno continuato a concentrarsi sulle formule elettorali, seguendo il feticcio della costruzione dell’unità a sinistra come valore assoluto. Nei fatti, la ricerca dell’unità basata non sui contenuti e sul programma ha prodotto numerose e sempre nuove formule elettorali ma nessun risultato positivo, sicuramente non a livello di ricostruzione delle basi sociali e neanche a livello di rappresentanza elettorale, contribuendo invece a indebolirci a livello elettorale ed organizzativo.
La recente vicenda di Potere al popolo (Pap) rappresenta un esempio emblematico di questa situazione. Il percorso precedente dell’”Assemblea del Brancaccio” si è interrotto bruscamente per la decisione di Sinistra italiana (SI) di fare un’alleanza con personaggi screditati fuoriusciti dal Pd, lasciando così in mezzo al guado un Prc che pure aveva puntato tutto su quella opzione politica. È a questo punto che ha preso in mano la situazione un gruppo di compagni di Napoli, cui va il merito di avere colto l’occasione per portare avanti un nuovo progetto, che rompesse chiaramente non solo con il Pd ma anche con quelle forze residue che continuano ad avere in mente rapporti con esso o con un certo tipo di politica. Dopo il risultato delle elezioni – che certo non è stato esaltante ma che era nelle cose, visto che Pap si era formato appena tre mesi prima delle elezioni – invece di ripartire da ciò che si era costruito per andare avanti, si è riusciti a fare esattamente quello che si era sempre fatto in precedenza. Si è buttata a mare l’ennesima esperienza come fosse una sigla elettorale usa e getta. Non ci interessa qui stare a soppesare le colpe e le responsabilità di questo e di quello con il bilancino, rimane il fatto che c’è stata una nuova ennesima rottura. Anche il tentativo di arrivare a un lista per le elezioni europee ha sacrificato la discussione sui contenuti alla frenesia di cercare il più “adatto” prodotto elettorale per eleggere.
È stata riproposta l’ennesima nuova sigla elettorale, “La sinistra”, che si presenta con le stesse caratteristiche delle altre liste del passato.  Quella che è stata costituita è una aggregazione con pochi e generici contenuti, cedendo sul programma elettorale anche sulla questione dell’uscita dalla Nato e paradossalmente basandosi sull’idea irrealistica che la Ue e l’euro si possano riformare.  Proprio sulla necessità di porre un Piano B, che preveda, su base negoziale, anche l’uscita dalla Ue e dall’euro si situa uno dei maggiori dissensi tra chi scrive e la linea, ormai consolidata, del Prc. In aggiunta, la lista vede come componente importante un partito, SI, che alle regionali svoltesi qualche mese fa si è presentato con il Pd e che continua a guardare in quella direzione, sperando nella segreteria Zingaretti e nella riedizione di un nuovo centro-sinistra alle prossime elezioni politiche. Si tratta, quindi, di una lista che, subito dopo il voto, finirà nello sgabuzzino dove sono finite tutte le altre che l’hanno preceduta. Insomma, ancora una volta ha prevalso una visione a breve, anziché la volontà di costruire e accumulare energie sul lungo periodo.
È ormai da diverso tempo che una fase storica si è chiusa, quella fase in cui si pensava di poter sopravvivere all’interno del quadro politico e sociale esistente avendo una posizione nelle istituzioni e inventandosi qualche formula elettorale efficace. 
Siamo in una fase diversa, perché la globalizzazione, l’integrazione europea e la crisi strutturale del capitale hanno sconvolto il panorama politico-sociale interno e internazionale. Siamo, inoltre, in una fase in cui non esiste un nucleo dirigente o una organizzazione che possa rappresentare da sola un punto di aggregazione privilegiato per la ricostruzione in Italia del partito comunista o della sinistra. 
In questa fase bisogna fare quello che si sarebbe dovuto fare dal 2008, dopo la sconfitta dell’Arcobaleno, e prima ancora già dal 1991: un lavoro, sicuramente lungo e lento, di analisi della realtà e delle condizioni della Rivoluzione in Occidente, e di ricostruzione di un punto di vista collettivo sulle cose e di un indirizzo strategico, adeguato alle domande cruciali che ci pone una della fasi più complicate della storia dei comunisti e della classe lavoratrice nel nostro Paese e in Europa occidentale.
È per tutte queste ragioni che non rinnoveremo la tessera del Prc. Abbiamo preso questa decisione tutt’altro che a cuor leggero, perché abbiamo stima dei compagni di Rifondazione, con i quali abbiamo condiviso momenti importanti di discussione e di militanza, perché Rifondazione ha rappresentato una speranza alla quale abbiamo creduto come comunisti, e perché si tratta di un frangente delicato. Tuttavia, riteniamo, coerentemente con quanto siamo andati sempre sostenendo, che è proprio nei momenti decisivi che bisogna assumere un atteggiamento di chiarezza, definendo le proprie posizioni e assumendosene tutte le responsabilità.

domenica 11 novembre 2018

Il popolo non esiste di Michele Filippini da Jacobin Italia



populismo 990x361È ormai difficile negare che l’Italia si trovi in un “momento populista”, caratterizzato dall’emergere di forze politiche nuove, nuovi discorsi politici e nuova costruzione di senso comune. Si tratta di una fase che, in altri tempi e con altra sensibilità, Antonio Gramsci aveva chiamato «guerra di movimento», un «interregno», una fase di passaggio verso la successiva stabilizzazione egemonica di un ordine. La rapida ascesa di partiti e personalità nuove (M5S, Salvini), l’altrettanto rapida caduta di altre (Monti, Renzi), l’elevata mobilità elettorale (il M5S che in pochi anni balza al 32,7% o la Lega che passa dal 4% al 32% dei sondaggi odierni) e la politicizzazione estrema di alcuni temi (Europa, migranti, sicurezza) sono tutti segnali di una fase di intensa ridefinizione dello spazio politico, dei soggetti in campo e delle loro parole d’ordine.
In un contesto come questo sembra perdere di significato la contrapposizione che aveva sostenuto quasi tutte le battaglie contro il neoliberismo degli ultimi anni: quella tra un discorso radicale-democratico di attivazione e contestazione del potere, e uno istituzionale governamentale di contenimento attraverso la spoliticizzazione. Al contrario, oggi più che mai il discorso del potere è un discorso populista e radicale, mentre la sua contestazione sembra relegata al piano della critica morale e paternalista. La crisi del neoliberismo ha riattivato le “faglie politiche” sulle quali si costruiscono i soggetti collettivi, e la destra razzista e i qualunquisti nostrani hanno compreso meglio di chiunque altro le opportunità di quest’apertura.
Il populismo razzista e quello democratico
È stata la crisi del 2008 a creare le condizioni per l’esplosione degli assetti politici che si erano consolidati negli anni Novanta e a far emergere lo spazio per nuovi discorsi e nuove formazioni. Non si tratta certo di un fenomeno solamente italiano, anche se da noi il successo della sua declinazione qualunquista (M5S) e poi razzista (Lega) ha raggiunto intensità e forza maggiori. Nel campo dei soggetti radicali e democratici, invece (cercherò quanto più possibile di evitare la connotazione “di sinistra”, ormai preda di un immaginario compromesso), si è avuta una prima ondata populista-democratica, tanto negli Usa quanto in Europa: ne sono protagonisti Podemos in Spagna, Bernie Sanders negli Usa e il Labour di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, a cui sembra stia seguendo una seconda ondata populista-sovranista, rinvenibile in alcune correnti de La France Insoumise, nella Aufstehen di Sahra Wagenknecht in Germania e in alcuni sparuti epigoni italiani.
Oltre ad essere molto più deboli dei cugini francesi e tedeschi, i politici e intellettuali sovranisti italiani “di sinistra” (e qui è d’obbligo l’uso del termine) hanno due caratteristiche peculiari: 
la prima è che sembrano formulare la loro proposta politica non in contrapposizione al populismo di destra (come fa Melenchon per esempio, pur contendendogli l’elettorato) ma alle altre declinazioni della sinistra, finendo così per sostenere una parte dei programmi e delle politiche dell’avversario; 
la seconda è di presentarsi con quelle stesse facce che fino a qualche mese fa facevano parte, seppur criticamente, di quei partiti e di quei circoli intellettuali che hanno applicato o giustificato le ricette neoliberali degli ultimi vent’anni. Insomma, nessuno con la storia e la credibilità di un Sanders o di un Corbyn, piuttosto la solita vecchia storia dell’amante deluso che si trasforma in detrattore. 
Non sarebbero quindi degni di nota, o di critica, se non rischiassero di inficiare una causa ben più importante, quella del populismo democratico-radicale della “prima ondata”, che ha radicalmente innovato lo scenario politico europeo e creato le condizioni per dare filo da torcere al populismo razzista dilagante.
In Italia quell’onda non è mai arrivata, e nell’ultimo decennio in molti si sono chiesti come fosse possibile che proprio il paese che aveva avuto il più grande partito comunista e la più lunga stagione di mobilitazione d’occidente potesse rimanere inerte davanti a una tale rinascita internazionale di forze radicali e democratiche. La risposta sta forse proprio nella saturazione della memoria che queste esperienze hanno lasciato, provocando due effetti opposti ma speculari nei mille gruppuscoli della “diaspora”: da una parte, come eredità del Pci, la nostalgia passatista del Soggetto politico (maiuscolo), la sua mitizzazione, ossificazione e sostanziale riproposizione come schema oggi vuoto di significato; dall’altra, come eredità della contestazione “da sinistra” al Pci, la paura della sintesi politica, l’incapacità di considerare lo Stato come un campo di forze invece che come un mero strumento repressivo, la ritrosia a invadere il campo avversario per paura di essere “contagiati”. Ma la storia procede anche per salti e cosa ne sarà della formazione politica delle nuove generazioni nessuno può saperlo. Per questo, se da una parte occorre difendere la causa del populismo democratico dal populismo razzista e qualunquista, dall’altra occorre contrastare la sua appropriazione da parte dei sovranisti nostrani “di sinistra”. Quello che ci occorre, in breve, è un populismo democratico non sovranista.
Tre insegnamenti di Laclau
In questo compito può essere utile rileggere Ernesto Laclau, filosofo argentino scomparso recentemente e unanimemente considerato il teorico del populismo democratico. La fortuna di Laclau è molto cresciuta nell’ultimo decennio, tanto da diventare un solido riferimento per molti intellettuali e dirigenti politici della prima ondata populista. Dalle pagine dei suoi libri possiamo recuperare almeno tre insegnamenti utili per salvare il populismo democratico dalla deriva sovranista.
Il primo è proprio che… il popolo non esiste. Non esiste come dato biologico, non esiste come espressione di un’“omogeneità culturale”, non esiste nemmeno come entità sociologicamente definibile. Esiste invece il popolo come costruzione politica (e polemica), composto da gruppi e individui diversi che si articolano, cioè si legano e si organizzano sulla base di un discorso comune. Così concepito, il popolo non annulla affatto le differenze al suo interno, ma riesce comunque a presentarsi come un soggetto politico unitario perché ciò che tiene insieme le sue parti è la comune avversione a un nemico politico. È abbastanza chiaro come questa definizione implichi la possibile esistenza di diversi popoli, anche all’interno della stessa platea, definiti sulla base del tipo di articolazione (solidaristica o securitaria ad esempio) e del tipo di nemico scelto (l’1% più ricco o i migranti). Se quindi il popolo evocato dal fronte razzista e qualunquista è omogeneo, spaventato, razzista, il popolo del populismo democratico può e deve essere plurale, vitale, inclusivo. Non è questione di buoni sentimenti, ma di mettere in campo una diversa interpellazione degli stessi soggetti, un meccanismo di unità che ricomponga un blocco sociale attorno a diverse parole d’ordine e che identifichi nemici diversi. Al contrario, i “sovranisti” di sinistra sembrano aver assunto dall’avversario la falsa contrapposizione tra un popolo rozzo, preda di bassi istinti, e un’élite intellettuale e sofisticata, lontana dai supposti “bisogni” di questo soggetto omogeneo. Chi accetta questa visione, chi si rassegna a fare la politica di queste paure, è subalterno al discorso dell’avversario, ma soprattutto sarà sempre politicamente perdente di fronte alla proposta originale.
Il secondo insegnamento che possiamo trarre della teoria del populismo di Laclau riguarda il ruolo dello Stato e del discorso nazionalista. Su questo tema si può dire che il sovranismo cambi ragione sociale al populismo democratico: si passa infatti da una critica di classe (espressa tramite la contrapposizione tra alto e basso) ai meccanismi antidemocratici, neoliberali ed elitisti della costruzione europea, alla difesa dello stato nazionale contro le ingerenze esterne. Non più quindi la critica all’Europa neoliberale come strumento per la lotta di classe internazionale, ma la critica all’Europa tout court tramite la costruzione di un’identità nazionale, il tutto condito con un bel po’ di nostalgia per l’epoca fordista a cui corrispondeva uno Stato tanto protettivo quanto disciplinare. È così che la domanda per una democrazia radicale, che al fondo significa possibilità di influire sulle decisioni attraverso una lotta per l’emancipazione di chi sta in basso, si è trasformata in sovranismo, rivendicazione ultima dello spazio nazionale come difesa dalle invasioni straniere, tanto quelle dei flussi del capitale globale quanto quelle dei migranti. È in questo scivolamento che la ragione sociale è cambiata, il discorso di classe abbandonato, la giusta rivendicazione di uno spazio di decisione democratica trasformato in un discorso subalterno a quello dell’avversario. Anche su questo punto – il ruolo dello Stato in una politica populista democratico-radicale – Laclau può venirci in aiuto. Benché spesso si presupponga che il filosofo argentino postuli un unico spazio politico a disposizione, quello statale-nazionale, caratterizzato da solidi confini (territoriali, istituzionali, culturali) e piena sovranità (politica, economica), in realtà questi elementi non vengono mai esplicitati come precondizioni dell’emersione di una logica populista. Al contrario. Scrive Laclau: «Quando diciamo “Stato” ci riferiamo a un concetto che indica una funzione ordinatrice all’interno di una formazione sociale. Può essere lo Stato-nazione, ma non necessariamente solo questo, può anche riguardare uno Stato sovranazionale, oppure una serie di funzioni ordinatrici che non hanno nulla a che vedere con la dimensione pubblica nel senso stretto del termine». Ecco allora un secondo insegnamento da tenere presente: non è la forma di questa azione ordinatrice che conta (Stato-nazione, Stato sovranazionale o una configurazione comune oltre il pubblico e il privato), ma il fatto che essa si crei, come si crei e in che direzione si crei a determinare l’importanza dell’azione populista. Rimettere il populismo democratico sui suoi piedi significa anche non fare dei mezzi contingenti di una battaglia tattica (la critica all’Europa neoliberale) lo scopo ultimo dell’azione populista (la difesa della sovranità nazionale).
Un terzo insegnamento che possiamo trarre da Laclau è che nessuna configurazione politica è stabile, soprattutto all’interno di quel momento populista dove le identità si modificano di continuo e la loro articolazione non è affatto definitiva. Questo non è “un paese di destra”, come ieri ci dicevano i complici delle riforme neoliberali e oggi ci ripetono i compagni demotivati. Nel linguaggio un po’ formalistico di Laclau: perché si manifesti un nuovo popolo non serve che «tutti gli elementi di una configurazione emergente debbano essere radicalmente nuovi», serve invece che emerga un «punto d’articolazione» nuovo, attorno al quale tutti gli altri possano ricomporsi diversamente, formando un’inedita configurazione popolare. In breve, serve un discorso di nuova emancipazione e un soggetto credibile che la incarni. Ancora una volta, su questo aspetto specifico, la declinazione sovranista del populismo democratico dimostra di essere subalterna al discorso dell’avversario, dando per consolidati e stabili il panorama politico, il tipo di articolazione raggiunta dai gruppi sociali e le richieste che questi formulano. Il momento populista è invece caratterizzato da movimenti continui, scomposizioni e ricomposizioni di forze, creazione rapida di nuove identità e bisogni. Questo non vuol dire che non ci sarà in futuro una fase di stabilizzazione, ma che gli assetti su cui questa fase si stabilizzerà vengono decisi ora, nel momento populista, da chi riesce a costruire i soggetti più credibili, da chi sa politicizzare le faglie giuste, da chi ha più immaginazione e coraggio politico, perché non c’è cosa più sbagliata e codarda di fare il populismo con il popolo degli altri.

*Michele Filippini si occupa di teoria politica, operaismo, populismo. Ha scritto Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società.

mercoledì 31 ottobre 2018

M5S e la metafora della rana bollita di Elena Fattori, Vice presidente commissione Agricoltura Senato

Alessandro Di Battista nei suoi comizi raccontava una interessante metafora:
"Immaginate una pentola di acqua bollente. Una rana non ci entrerebbe mai e se qualcuno ce la buttasse dentro, darebbe un colpo di zampa e si salverebbe. Ora immaginate la stessa rana in una pentola di acqua fredda. Il fuoco è acceso e l'acqua si scalda poco a poco. La rana non si preoccupa. Ma la temperatura sale ancora, l'acqua inizia a scottare. La rana ormai è debole, non ha più forza di reagire. Prova a sopportare. Poi non ce la fa più e muore bollita. Abituarsi è deleterio. Sono gli 'abituati' i cittadini più amati dal Governo. Io credo che siamo ancora in tempo a dare quel colpo di zampa prima di finire bolliti. Dipende soltanto da noi. A riveder le stelle!".
Ecco, ora immaginate se in uno dei tanti comizi e convegni appena qualche mese fa avessi raccontato questo:
"Il Movimento 5 stelle non fa alleanze, ma noi cambieremo il termine, ci alleeremo con la Lega e chiameremo questa alleanza "Contratto". Ricordate la bella presentazione dei ministri 5 stelle che vi avevamo chiesto di votare? Perché il Movimento presenta la sua squadra prima delle elezioni così il popolo può scegliere i suoi ministri. Ecco, non c'entra niente con la squadra di governo che verrà, ma voi non ci farete troppo caso. Avremo un presidente del Consiglio non eletto dal popolo a voi totalmente sconosciuto, come ministro dell'Interno Matteo Salvini, e un ministro della Famiglia "tradizionale" forse un po' omofobo, ma pazienza. Poi diremo sì alla Tap, si all'Ilva, valuteremo costi/benefici per decidere sulla Tav e anche sul Ceta ci ragioneremo. Faremo un condono fiscale e uno edilizio. Ed eleggeremo come presidente del Senato una berlusconiana doc.
Per quanto riguarda il tema migranti scordatevi il saggio piano 5 stelle di accordi con i paesi di provenienza, lo smantellamento dei grandi e orribili centri di accoglienza che generano conflitti sociali e disagi per i cittadini. Scordatevi la gestione pubblica dell'accoglienza diffusa, i tempi rapidi per le domande di asilo che consentano di rimpatriare chi non ha diritto ed accogliere con dignità i rifugiati. Toglieremo la gestione di migranti ai Comuni e la affideremo ai privati senza gara di evidenza pubblica raddoppiando i tempi di permanenza da nove a diciotto mesi, favorendo così il business dell'immigrazione. Doneremo 150.000 nuovi clandestini alla criminalità organizzata per il lavoro nero e lo spaccio. Chi invocherà il rispetto del programma 5 stelle rischierà sanzioni e persino di essere espulso per non contrariare l'alleato Salvini".
Mi avrebbero preso per folle o per lo meno mi avrebbero rincorso con torce e forconi. Ma si sa, le rane saltano solo se le butti nell'acqua bollente. Se accendi il fuoco nel pentolone e la temperatura sale piano piano...

giovedì 18 ottobre 2018

La sinistra europea sta morendo: e se lo merita di Aldo Giannuli




Risultati immagini per quarto stato in ritiro foto
Di fronte al processo di globalizzazione neo liberista la sinistra europea (limitiamoci a questa area) si è divisa in tre aree:

a. la sinistra “riformista” (o, se volete, socialdemocratica) che ha accettato supinamente la rivoluzione neo liberista, non opponendo alcuna resistenza e cercando maldestramente di ritagliarsi uno spazio di sinistra interna al sistema. In questo processo di omologazione, questa sinistra ha cessato di essere socialdemocratica (e lo ha dimostrato accettando la demolizione un pezzo alla volta del welfare) per diventare semplicemente liberale, pur se con vaghissime aspirazioni socialeggianti.
La cosa è andata avanti per un quindicennio, sinché la creazione di denaro bancario ha dato la sensazione di un sostitutivo del welfare state, poi è arrivata la grande crisi e, con essa, la stretta che ha frantumato il ceto medio, spinto sotto la soglia di povertà gran parte delle classi lavoratrici e precarizzato tutta la forza lavoro giovanile. Ed in breve è stato evidente che nell’ordinamento neo liberista non c’è spazio per una sinistra riformista. I vari partiti dell’Internazionale “Socialista”, per salvare il sistema, hanno abbracciato senza fiatare le politiche di austerity che hanno massacrato la loro base sociale che, a lungo andare, li hanno abbandonati riducendoli sotto il 15% (e talvolta sotto il 10%) in Grecia, Austria, Francia Spagna e, fra non molto, Italia.
Il deflusso è andato ad alimentare la rivolta “populista” che accomuna cose molo diverse fra loro. Di fatto, l’unica sinistra possibile in questa fase storica è la sinistra antisistema: se vuoi sostenere decenti politiche sociali, non puoi accettare questo ordinamento e devi predisporti alla battaglia fontale contro l’ipercapitalismo finanziario, magari sperando di poterci arrivare con i mezzi usuali della lotta politica.
b. la seconda area è stata quella semi radicale (Rifondazione Comunista, Linke, Izquierda Unida, Siryza ecc.) che ha ritenuto non ci fossero le forza per una scontro frontale con il sistema ed ha scelto una linea di “guerra di posizione”, cercando di cedere meno terreno possibile e, a questo scopo, ponendosi come “gruppo di pressione” verso la sinistra riformista, con la quale tentare una qualche alleanza.
Schema non meno sbagliato del precedente: in primo luogo perché noi siamo una fase di guerra di movimento, nella quale non ci sono trincee nelle quali resistere. In secondo luogo perché non comprendeva la natura sociale e politica della ex sinistra socialista diventata ormai liberale ed interna al sistema liberista. Il risultato è stato che la sinistra semiradicale non ha fatto alcuna alleanza con quella “riformista” ma ha fatto solo da sgabello ad essa (basti citare l’esperienza del governo Prodi, costata la pelle a Rifondazione Comunista che prosegue in una inutile esistenza senza riuscire neanche a chiedersi dove ha sbagliato e perché). Soprattutto, l’errore bi base è stata la mancata comprensione delle caratteristiche di questo nuovo capitalismo, che, a sua volta ha determinato la totale incomprensione della crisi, verso la quale questa area non ha saputo proporre alcuna politica. E lo dimostra il fatto che la protesta montante ha premiato le nuove formazioni “populiste” e non questa sinistra semi radicale che non interessa nessuno. In Italia è ridotta a brandelli insignificanti, in Spagna e in Germania vivacchia.
Il caso più clamoroso è quello della Grecia, dove la formazione semi radicale è giunta al governo, promettendo il superamento dell’austerity salvo vendersi anima e corpo ed eseguire fedelmente i diktat della Troika, per non aver avuto il coraggio di andare allo scontro. E la conseguenza di questa disfatta morale prima ancora che politica è stata l’infelice esperienza della lista Tsipras varata in Italia, della cui esistenza non abbiamo avuto modo di accorgerci in questi quasi cinque anni per la totale assenza di ogni iniziativa.
c. la terza area è stata quella che definiamo “sinistra radicale” (centri sociali, gruppuscoli di radice maoista o trotskjista, vecchi Pc come quello portoghese o quello greco, pezzi di sindacato ecc.) che hanno assunto una posizione dichiaratamente antisistema, ma, haimè, puramente verbale e declamatoria. Non sono mancati sporadici movimenti di protesta, rivendicativi o territoriali (vedi il movimento No Tav o singole ondate di protesta salariale in Francia ecc.) ma tutto questo non fa una politica. E’ la riproposizione del vecchio “basismo” sessantottino, tentativo generoso ma votato alla sconfitta. Ed anche questa area, come la precedente, deve chiedersi perché la protesta ha premiato i “populisti” e non ha riversato neppure un rivolo di consensi in questa direzione.
Di fatto questa area non si dimostra in grado di uscire da un disperato minoritarismo e di darsi una cultura politica degna di questo nome.
Tutte tre queste aree pagano il prezzo di aver cessato qualsivoglia lavoro teorico: ma senza teoria non c’è cultura politica e, senza cultura, non c’è né analisi né progetto. I “riformisti” hanno sostituito il pensiero politico con le serate nei salotti della finanza o frequentando i Think Tank del potere (come l’Aspen, la Trilateral o i loro più modesti succedanei nazionali). La sinistra semi radicale si occupa solo di formazione di liste, di organigrammi e di distribuzione delle sempre più magre risorse. La sinistra radicale ha conati in questo senso ma che si spengono subito per l’incapacità di interloquire con chi non faccia parte della ristrettissima cerchia di ciascun gruppo.
Qualche novità positiva non manca: Corbyn in Inghilterra, Melenchon in Francia ad esempio, ma speriamo non rifacciano gli errori di chi li ha preceduti. Ne riparleremo, per ora le espressioni conosciute della sinistra, chi per un motivo e chi per un altro, possono tranquillamente dichiarare bancarotta.

A loro insaputa


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        La “manina” che strozza l’accordo Lega-M5S
                            di Alessandro Avvisato   

Che il governo a tre presentasse problemi di tenuta fin dall’inizio, ci era abbastanza chiaro. Mettere insieme blocchi di interessi sociali diversi (Lega e M5S), entrambi posti sotto tutele contabile da parte dell’Unione Europea (Tria, Mattarella, Moavero Milanesi), significava disporsi a camminare sul filo mentre soffia tramontana.


Però che il bubbone sarebbe esploso così presto, effettivamente, era un po’ difficile da prevedere, anche per il più speranzoso dei “gufi”.
Ieri sera il vicepremier e ministro Luigi Di Maio ha utilizzato il megafono tardo-democristiano di Bruno Vespa per buttare lì una bomba politica di prima grandezza: «Non è possibile che vada al Quirinale un testo manipolato» che riguarda la pace fiscale. «Domani sarà depositata una denuncia alla procura della Repubblica».
Stiamo parlando della più importante legge dello Stato – quella di “stabilità”, che regola entrate e uscite per il prossimo anno – su cui già ora la Commissione Europea ha anticipato il veto, aprendo quindi un contenzioso dalle incerte conseguenze (è la prima volta che accade, nella Ue). Una legge che, garantisce il Quirinale, non è neppure ancora arrivata sul tavolo del presidente della Repubblica, come se in due giorni il “camminatore” non fosse riuscito a coprire i 500 metri che separano Palazzo Chigi dal Colle. Una legge che – una volta approvata dal Consiglio dei ministri – nessuno può azzardarsi a modificare senza aprire un confronto politico nel governo.
I problemi sono parecchi, ma di due tipi, fondamentalmente.
Il merito della “manipolazione”. Su questo Di Maio è stato chiaro. «Nel testo che è arrivato al Quirinale c’è lo scudo fiscale per i capitali all’estero. E c’è la non punibilità per chi evade. Noi non scudiamo capitali di corrotti e di mafiosi. E non era questo il testo uscito dal Cdm. Io questo testo non lo firmo e non andrà al Parlamento. Questo è un condono fiscale come quello che faceva Renzi, io questo non lo faccio votare. Non abbiamo mai chiesto né parlato di scudare capitali all’estero e tanto meno di prevedere l’impunità per gli evasori. Non abbiamo mai discusso di questi temi e soprattutto mai pensato a dare l’impunità per il reato di riciclaggio».
Si tratta di temi contro cui i Cinque Stelle hanno costruito gran parte della loro fortuna politica, quindi impossibili da avallare senza perdere automaticamente l’aura di “onestà” che li ha portati a diventare il primo partito nel paese.
La “manina” che avrebbe apportato le modifiche è certamente competente, sia in in materia economico-legale, sia in equilibri politici.
Secondo la denuncia (solo politica, per ora) di Di Maio la possibilità di “pace fiscale” (pagando il 20% del dovuto, senza sanzioni e interessi) sarebbe stata in modo fraudolento estesa a due imposte che riguardano proprietà e attività fiscali extra-confine (Ivie e Ivafe), che riguardano gli immobili all’estero e l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero. Insomma, una specie di “scudo fiscale” per i capitali oltre confine.
Proprio come quello varato a suo tempo – con dettagli leggermente diversi – da Berlusconi-Tremonti, Renzi-Padoan, ecc. Come “governo del cambiamento” non c’è male…
In questi ultimi anni, quelli renziani, si chiamava voluntary disclosure, anzi è ora persino più benevola (la vecchia voluntary prevedeva il pagamento di tutto il dovuto, mentre ora gli evasori pagherebbero solo il 20%; bello sconto, vero?).
Ma c’è ovviamente di peggio, visto che la stessa “manina avrebbe” autorizzato anche uno scudo penale per chi presenterà la dichiarazione integrativa. Se, come c’è scritto nel testo “taroccato”, non c’è punibilità per “dichiarazione infedele, omesso versamento di ritenute e omesso versamento di Iva”, questa “facilitazione” varrebbe automaticamente anche in caso di riciclaggio o impiego di proventi illeciti. Un po’ troppo sfacciati, dài…
Altri argomenti spinosi già non mancavano, visto che la formula usata per delimitare la sanatoria di fatto esclude gli “evasori per necessità” (di cui si riempiono la bocca tutti i leghisti ospitati nei talk show), mentre ci rientrerebbero gli evasori totali, quelli che non vogliono pagare nemmeno davanti a una pistola puntata. Lo sconto sulle imposte si applica infatti sul “maggior reddito dichiarato” (nascosto al fisco), ma non a chi ha dichiarato tutto e poi non ha versato le imposte perché non aveva i soldi.
Il secondo ordine di problemi è tutto politico, invece.
Se c’è stata davvero una “manina” competente che ha provato a far passare condoni non concordati tra i “tre governi in uno”, si tratta di scoprire a chi appartiene. Non è una indagine complessa, perché può essere stato solo un ministro o un vice, o il sottosegretario alla presidenza del consiglio (il leghista Giorgetti).
Se invece era già tutto scritto così come si legge oggi, allora i ministri grillini – e tutto il loro staff, Giuseppe Conte compreso – semplicemente non avevano capito che cosa stavano elaborando di concerto con la Lega e Tria.
In entrambi i casi, però, questo governo sta insieme con lo sputo. Perché nel primo caso i leghisti sarebbero i nuovi berlusconiani, interessati soprattutto a fare gli interessi delle imprese, qualsiasi cosa facciano (evasione fiscale compresa); disposti a tutto, anche a taroccare la prima legge dello Stato infilandoci nottetempo frasi opportunamente scelte. Nel secondo, perché i grillini sarebbero degli incompetenti totali che poi buttano per aria il tavolo quando si accorgono di essere stati presi per il naso.
Sia chiaro. Queste cose accadono nella normale dialettica politica di qualsiasi governo in qualsiasi paese, ma hanno altrove un esito obbligato: lo scioglimento dell’alleanza di governo e la formazione di uno nuovo, oppure elezioni anticipate. L’unica alternativa in mano al ministro o partito che si ritiene truffato è infatti una sola: tacere e dunque cercare di rifarsi in un’altra occasione (a parti invertite), oppure denunciare davvero tutto e far saltare l’alleanza.
L’unica cosa che non si può fare è proprio quella provata fin qui da Di Maio: denunciare e continuare ad andare avanti come prima.
Ci sembra perciò altamente utile il sarcasmo del commento di Giorgio Cremaschi alla vicenda.
E ADESSO POVER'UOMO? di Giorgio Cremaschi 

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Questa davvero è un cambiamento, robe così non risultano agli archivi. Di Maio annuncia che denuncerà alla Procura della Repubblica la manipolazione del suo decreto fiscale del suo governo. Egli stesso ammette che quel testo contiene uno scandaloso condono, e anche una salvaguardia sul piano penale, per chi ha riciclato all’estero capitali sporchi. Mafie, corruttori e corrotti vari ringraziano.
Di Maio annuncia solennemente in TV che tutto questo è avvenuto a sua insaputa e che per questo andrà dal giudice. Ma chi denuncerà il vice presidente del consiglio? Salvini che conferma integralmente il provvedimento? Conte che come al solito non sa nulla? Tria che complotta nel buio? Castelli che non ha controllato i testi? O sé stesso per manifesta incapacità? Non lo sa Di Maio cosa approva? Non ha dei collaboratori che leggano i testi per lui? Non lo sa, il pover’uomo, che condono chiama condono? Che questa sanatoria sempre più vergognosa non riguarda solo l’evasione fiscale, ma anche quella dell’IVA e dei contributi previdenziali?
E siccome il testo non è ancora pubblico, finora neppure è arrivato al Quirinale, chissà quante altre porcherie contiene, come il decreto Genova nel quale una manina a cinquestelle – così dichiara Salvini – ha inserito la sanatoria per le case abusive di Ischia.
Che scambio di gelide manine tra Di Maio e Salvini: io metto una cosa a te, tu metti una cosa a me.
Ora però Di Maio annuncia, il che vuol dire che non è proprio detto che lo faccia, una denuncia in Procura.
Pover’uomo o ci fa o ci è, se fosse un concorrente de La Corrida a questo punto sarebbe travolto dai campanacci, ma come vicecapo del governo gode ancora del residuo credito che gli deriva dal discredito dei suoi predecessori. Di Maio deve tutto a Renzi, che come lui aveva inizialmente maturato un grande consenso, ma questa eredità si sta consumando rapidamente.
A sua insaputa.