Il periodo attuale è uno dei peggiori di sempre, sia per il movimento
comunista sia per la classi subalterne, in Europa e soprattutto in
Italia.
Le trasformazioni dell’economia mondiale hanno indebolito la
classe lavoratrice europea occidentale, esponendola all’aggressione del
mercato autoregolato, che ha ridotto occupazione e salari reali, nel
mentre si annullava, attraverso l’integrazione europea, la sovranità
democratica, sancita dalla Costituzione, ossia la capacità delle classi
subalterne di incidere sulle decisioni di politica economica e sociale.
Le profonde trasformazioni economiche hanno avuto come necessario
corrispettivo modifiche politiche altrettanto profonde.
Il crollo
dell’Urss e dei Paesi socialisti ha contribuito pesantemente al
peggioramento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, e in Italia
ha contribuito a trasformare il Pci, separandolo in due tronconi.
Uno,
il più grande, si è trasformato in partito liberaldemocratico, che da
subito si è collocato a destra, facendosi alfiere dell’integrazione
economica e valutaria europea e rappresentante del grande capitale
internazionalizzato. Soprattutto, questo troncone è stato fautore del
maggioritario, che ha spostato al centro, cioè sugli interessi dello
strato superiore del capitale, l’asse della politica. Ciò si è tradotto
nella trasformazione profonda del nostro Paese, attraverso massicce
privatizzazioni e pesanti controriforme del mercato del lavoro, delle
pensioni, e del welfare.
Il Partito della rifondazione comunista (Prc) ha raccolto il più
piccolo dei due tronconi in cui si era diviso il Pci, aggregando anche
una serie di altre organizzazioni e di individualità, che non
accettavano di identificare la fine dell’Urss con la fine della
prospettiva socialista. Il nome stesso del partito è significativo del
senso originario del progetto: non la riproposizione sic e simpliciter
del Pci ma, correttamente, la rifondazione di una teoria e di una
pratica comuniste e adatte a un’epoca nuova.
In realtà, negli ultimi
anni la “Rifondazione” è stata intesa in modo diverso da parte della
maggioranza del Partito, cioè come presa di distanza da quella parte del
movimento comunista legata alla storia dell’Urss e identificata in
quanto tale come “stalinista”. Il Prc, allo stesso tempo, ha continuato,
riducendosi sempre più sul piano quantitativo, a essere quello che era
all’inizio: una somma, e non una sintesi, di culture e punti di vista
diversi (spesso molto diversi) su temi a volte decisivi. Per realizzare
una sintesi si sarebbero dovute fare, dal nostro punto di vista, in
primo luogo due cose.
La prima era fare i conti con il passato. Sia
quello del Pci, la cui fine e trasformazione in Pds-Ds-Pd non sono certo
cadute dal cielo, ma affondano le radici anche negli errori commessi
negli anni ’70 e ‘80. Sia quello dell’Urss, a proposito della quale è
prevalsa una critica staccata da una vera analisi scientifica del
contesto storico ed economico e spesso concentrata sul piano morale,
confondendosi così, almeno in parte, con la critica di parte borghese.
La seconda era una ripresa delle categorie di Marx e di Lenin per una
lettura della formazione economico-sociale dei Paesi avanzati e
dell’imperialismo, e dell’Italia in particolare, allo scopo di
ridefinire una strategia, un via alla gramsciana “Rivoluzione in
Occidente”.
Nulla di tutto questo è stato fatto. Se risposte e analisi
sono fatte, queste sono rimaste all’interno delle correnti o delle
frazioni in cui il partito era diviso.
I gruppi dirigenti del Prc (e dopo la scissione del ’98 anche del
Pdci) sono sempre stati ideologicamente eterogenei e attraversati, in
parte non piccola, anche da una sfiducia nella attualità del comunismo,
che si sarebbe manifestata esplicitamente solo in seguito. Infatti,
quello che finiva per tenere insieme il gruppo dirigente e i militanti
non era tanto una visione e un progetto di trasformazione della realtà
condivisi, ma la politica, che in mancanza di una strategia, doveva
necessariamente scivolare nel tatticismo e nell’elettoralismo. Per
alcuni, evidentemente, si trattava soprattutto, mantenendo il simbolo,
di attingere elettoralmente all’enorme lascito del Pci. Lo sbocco di
questi limiti, accentuati dalle leggi elettorali maggioritarie, è stato
l’individuazione del centro-sinistra come unico orizzonte possibile. La
partecipazione ai due governi Prodi, specie il Prodi II, ha
rappresentato il punto di non ritorno per il Prc e per il resto della
sinistra radicale. Infatti, la crisi economica e politica ha duramente
colpito la base sociale su cui si fondava il centro-sinistra e in
particolare la sua parte più radicale. Un pezzo importante di quella
base sociale, composta soprattutto di lavoro salariato e disoccupati, si
è spostato verso l’astensionismo e verso la forza emergente del M5s. Si
è dimostrato così, nella realtà dei fatti, che il semplice sfruttamento
del lascito del Pci, in mancanza della definizione di una linea e di un
posizionamento adeguato alla realtà, non bastava e che quel lascito era
destinato a disperdersi rapidamente. Finita l’esperienza di Prodi, si è
dato luogo alla prima delle molte e successive aggregazioni
elettoralistiche, l’Arcobaleno, che nacque sulla base della convinzione
di Bertinotti che ormai il comunismo potesse sopravvivere solo come
corrente culturale. Con la grave sconfitta elettorale dell’Arcobaleno e
la fine, per volontà del Pd, dell’opzione elettorale del
centro-sinistra, le differenze di fondo e i contrasti non risolti tra i
comunisti sono venuti finalmente alla superficie. Il Prc (e altre forze
della sinistra radicale) sono implose, dando vita a una serie di
scissioni e a una situazione di atomizzazione del movimento comunista.
Ad oggi, in Italia non esiste nessun gruppo dirigente o organizzazione
che possa essere da solo il punto di aggregazione per la ricostruzione
di una forza comunista e persino dell’area della sinistra radicale.
La sconfitta spartiacque dell’Arcobaleno avrebbe dovuto far capire –
oltre al fatto che il centro-sinistra tradizionale era ormai sorpassato
dalla storia – che una unità puramente elettorale e senza contenuti
chiari e condivisi non era in grado di rispondere alle domande pressanti
che le classi subalterne ci rivolgevano. I gruppi dirigenti non l’hanno
capito e hanno continuato a darsi come obiettivo prioritario, se non
unico, il rientro in Parlamento. La maggior parte della sinistra
radicale e il Prc hanno continuato a concentrarsi sulle formule
elettorali, seguendo il feticcio della costruzione dell’unità a sinistra
come valore assoluto. Nei fatti, la ricerca dell’unità basata non sui
contenuti e sul programma ha prodotto numerose e sempre nuove formule
elettorali ma nessun risultato positivo, sicuramente non a livello di
ricostruzione delle basi sociali e neanche a livello di rappresentanza
elettorale, contribuendo invece a indebolirci a livello elettorale ed
organizzativo.
La recente vicenda di Potere al popolo (Pap) rappresenta un esempio
emblematico di questa situazione. Il percorso precedente dell’”Assemblea
del Brancaccio” si è interrotto bruscamente per la decisione di
Sinistra italiana (SI) di fare un’alleanza con personaggi screditati
fuoriusciti dal Pd, lasciando così in mezzo al guado un Prc che pure
aveva puntato tutto su quella opzione politica. È a questo punto che ha
preso in mano la situazione un gruppo di compagni di Napoli, cui va il
merito di avere colto l’occasione per portare avanti un nuovo progetto,
che rompesse chiaramente non solo con il Pd ma anche con quelle forze
residue che continuano ad avere in mente rapporti con esso o con un
certo tipo di politica. Dopo il risultato delle elezioni – che certo non
è stato esaltante ma che era nelle cose, visto che Pap si era formato
appena tre mesi prima delle elezioni – invece di ripartire da ciò che si
era costruito per andare avanti, si è riusciti a fare esattamente
quello che si era sempre fatto in precedenza. Si è buttata a mare
l’ennesima esperienza come fosse una sigla elettorale usa e getta. Non
ci interessa qui stare a soppesare le colpe e le responsabilità di
questo e di quello con il bilancino, rimane il fatto che c’è stata una
nuova ennesima rottura. Anche il tentativo di arrivare a un lista per le
elezioni europee ha sacrificato la discussione sui contenuti alla
frenesia di cercare il più “adatto” prodotto elettorale per eleggere.
È stata riproposta l’ennesima nuova sigla elettorale, “La sinistra”,
che si presenta con le stesse caratteristiche delle altre liste del
passato. Quella che è stata costituita è una aggregazione con pochi e
generici contenuti, cedendo sul programma elettorale anche sulla
questione dell’uscita dalla Nato e paradossalmente basandosi sull’idea
irrealistica che la Ue e l’euro si possano riformare. Proprio sulla
necessità di porre un Piano B, che preveda, su base negoziale, anche
l’uscita dalla Ue e dall’euro si situa uno dei maggiori dissensi tra chi
scrive e la linea, ormai consolidata, del Prc. In aggiunta, la lista
vede come componente importante un partito, SI, che alle regionali
svoltesi qualche mese fa si è presentato con il Pd e che continua a
guardare in quella direzione, sperando nella segreteria Zingaretti e
nella riedizione di un nuovo centro-sinistra alle prossime elezioni
politiche. Si tratta, quindi, di una lista che, subito dopo il voto,
finirà nello sgabuzzino dove sono finite tutte le altre che l’hanno
preceduta. Insomma, ancora una volta ha prevalso una visione a breve,
anziché la volontà di costruire e accumulare energie sul lungo periodo.
È ormai da diverso tempo che una fase storica si è chiusa, quella
fase in cui si pensava di poter sopravvivere all’interno del quadro
politico e sociale esistente avendo una posizione nelle istituzioni e
inventandosi qualche formula elettorale efficace.
Siamo in una fase
diversa, perché la globalizzazione, l’integrazione europea e la crisi
strutturale del capitale hanno sconvolto il panorama politico-sociale
interno e internazionale. Siamo, inoltre, in una fase in cui non esiste
un nucleo dirigente o una organizzazione che possa rappresentare da sola
un punto di aggregazione privilegiato per la ricostruzione in Italia
del partito comunista o della sinistra.
In questa fase bisogna fare
quello che si sarebbe dovuto fare dal 2008, dopo la sconfitta
dell’Arcobaleno, e prima ancora già dal 1991: un lavoro, sicuramente
lungo e lento, di analisi della realtà e delle condizioni della
Rivoluzione in Occidente, e di ricostruzione di un punto di vista
collettivo sulle cose e di un indirizzo strategico, adeguato alle
domande cruciali che ci pone una della fasi più complicate della storia
dei comunisti e della classe lavoratrice nel nostro Paese e in Europa
occidentale.
È per tutte queste ragioni che non rinnoveremo la tessera del Prc.
Abbiamo preso questa decisione tutt’altro che a cuor leggero, perché
abbiamo stima dei compagni di Rifondazione, con i quali abbiamo
condiviso momenti importanti di discussione e di militanza, perché
Rifondazione ha rappresentato una speranza alla quale abbiamo creduto
come comunisti, e perché si tratta di un frangente delicato. Tuttavia,
riteniamo, coerentemente con quanto siamo andati sempre sostenendo, che è
proprio nei momenti decisivi che bisogna assumere un atteggiamento di
chiarezza, definendo le proprie posizioni e assumendosene tutte le
responsabilità.
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