domenica 11 novembre 2018

Il popolo non esiste di Michele Filippini da Jacobin Italia



populismo 990x361È ormai difficile negare che l’Italia si trovi in un “momento populista”, caratterizzato dall’emergere di forze politiche nuove, nuovi discorsi politici e nuova costruzione di senso comune. Si tratta di una fase che, in altri tempi e con altra sensibilità, Antonio Gramsci aveva chiamato «guerra di movimento», un «interregno», una fase di passaggio verso la successiva stabilizzazione egemonica di un ordine. La rapida ascesa di partiti e personalità nuove (M5S, Salvini), l’altrettanto rapida caduta di altre (Monti, Renzi), l’elevata mobilità elettorale (il M5S che in pochi anni balza al 32,7% o la Lega che passa dal 4% al 32% dei sondaggi odierni) e la politicizzazione estrema di alcuni temi (Europa, migranti, sicurezza) sono tutti segnali di una fase di intensa ridefinizione dello spazio politico, dei soggetti in campo e delle loro parole d’ordine.
In un contesto come questo sembra perdere di significato la contrapposizione che aveva sostenuto quasi tutte le battaglie contro il neoliberismo degli ultimi anni: quella tra un discorso radicale-democratico di attivazione e contestazione del potere, e uno istituzionale governamentale di contenimento attraverso la spoliticizzazione. Al contrario, oggi più che mai il discorso del potere è un discorso populista e radicale, mentre la sua contestazione sembra relegata al piano della critica morale e paternalista. La crisi del neoliberismo ha riattivato le “faglie politiche” sulle quali si costruiscono i soggetti collettivi, e la destra razzista e i qualunquisti nostrani hanno compreso meglio di chiunque altro le opportunità di quest’apertura.
Il populismo razzista e quello democratico
È stata la crisi del 2008 a creare le condizioni per l’esplosione degli assetti politici che si erano consolidati negli anni Novanta e a far emergere lo spazio per nuovi discorsi e nuove formazioni. Non si tratta certo di un fenomeno solamente italiano, anche se da noi il successo della sua declinazione qualunquista (M5S) e poi razzista (Lega) ha raggiunto intensità e forza maggiori. Nel campo dei soggetti radicali e democratici, invece (cercherò quanto più possibile di evitare la connotazione “di sinistra”, ormai preda di un immaginario compromesso), si è avuta una prima ondata populista-democratica, tanto negli Usa quanto in Europa: ne sono protagonisti Podemos in Spagna, Bernie Sanders negli Usa e il Labour di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, a cui sembra stia seguendo una seconda ondata populista-sovranista, rinvenibile in alcune correnti de La France Insoumise, nella Aufstehen di Sahra Wagenknecht in Germania e in alcuni sparuti epigoni italiani.
Oltre ad essere molto più deboli dei cugini francesi e tedeschi, i politici e intellettuali sovranisti italiani “di sinistra” (e qui è d’obbligo l’uso del termine) hanno due caratteristiche peculiari: 
la prima è che sembrano formulare la loro proposta politica non in contrapposizione al populismo di destra (come fa Melenchon per esempio, pur contendendogli l’elettorato) ma alle altre declinazioni della sinistra, finendo così per sostenere una parte dei programmi e delle politiche dell’avversario; 
la seconda è di presentarsi con quelle stesse facce che fino a qualche mese fa facevano parte, seppur criticamente, di quei partiti e di quei circoli intellettuali che hanno applicato o giustificato le ricette neoliberali degli ultimi vent’anni. Insomma, nessuno con la storia e la credibilità di un Sanders o di un Corbyn, piuttosto la solita vecchia storia dell’amante deluso che si trasforma in detrattore. 
Non sarebbero quindi degni di nota, o di critica, se non rischiassero di inficiare una causa ben più importante, quella del populismo democratico-radicale della “prima ondata”, che ha radicalmente innovato lo scenario politico europeo e creato le condizioni per dare filo da torcere al populismo razzista dilagante.
In Italia quell’onda non è mai arrivata, e nell’ultimo decennio in molti si sono chiesti come fosse possibile che proprio il paese che aveva avuto il più grande partito comunista e la più lunga stagione di mobilitazione d’occidente potesse rimanere inerte davanti a una tale rinascita internazionale di forze radicali e democratiche. La risposta sta forse proprio nella saturazione della memoria che queste esperienze hanno lasciato, provocando due effetti opposti ma speculari nei mille gruppuscoli della “diaspora”: da una parte, come eredità del Pci, la nostalgia passatista del Soggetto politico (maiuscolo), la sua mitizzazione, ossificazione e sostanziale riproposizione come schema oggi vuoto di significato; dall’altra, come eredità della contestazione “da sinistra” al Pci, la paura della sintesi politica, l’incapacità di considerare lo Stato come un campo di forze invece che come un mero strumento repressivo, la ritrosia a invadere il campo avversario per paura di essere “contagiati”. Ma la storia procede anche per salti e cosa ne sarà della formazione politica delle nuove generazioni nessuno può saperlo. Per questo, se da una parte occorre difendere la causa del populismo democratico dal populismo razzista e qualunquista, dall’altra occorre contrastare la sua appropriazione da parte dei sovranisti nostrani “di sinistra”. Quello che ci occorre, in breve, è un populismo democratico non sovranista.
Tre insegnamenti di Laclau
In questo compito può essere utile rileggere Ernesto Laclau, filosofo argentino scomparso recentemente e unanimemente considerato il teorico del populismo democratico. La fortuna di Laclau è molto cresciuta nell’ultimo decennio, tanto da diventare un solido riferimento per molti intellettuali e dirigenti politici della prima ondata populista. Dalle pagine dei suoi libri possiamo recuperare almeno tre insegnamenti utili per salvare il populismo democratico dalla deriva sovranista.
Il primo è proprio che… il popolo non esiste. Non esiste come dato biologico, non esiste come espressione di un’“omogeneità culturale”, non esiste nemmeno come entità sociologicamente definibile. Esiste invece il popolo come costruzione politica (e polemica), composto da gruppi e individui diversi che si articolano, cioè si legano e si organizzano sulla base di un discorso comune. Così concepito, il popolo non annulla affatto le differenze al suo interno, ma riesce comunque a presentarsi come un soggetto politico unitario perché ciò che tiene insieme le sue parti è la comune avversione a un nemico politico. È abbastanza chiaro come questa definizione implichi la possibile esistenza di diversi popoli, anche all’interno della stessa platea, definiti sulla base del tipo di articolazione (solidaristica o securitaria ad esempio) e del tipo di nemico scelto (l’1% più ricco o i migranti). Se quindi il popolo evocato dal fronte razzista e qualunquista è omogeneo, spaventato, razzista, il popolo del populismo democratico può e deve essere plurale, vitale, inclusivo. Non è questione di buoni sentimenti, ma di mettere in campo una diversa interpellazione degli stessi soggetti, un meccanismo di unità che ricomponga un blocco sociale attorno a diverse parole d’ordine e che identifichi nemici diversi. Al contrario, i “sovranisti” di sinistra sembrano aver assunto dall’avversario la falsa contrapposizione tra un popolo rozzo, preda di bassi istinti, e un’élite intellettuale e sofisticata, lontana dai supposti “bisogni” di questo soggetto omogeneo. Chi accetta questa visione, chi si rassegna a fare la politica di queste paure, è subalterno al discorso dell’avversario, ma soprattutto sarà sempre politicamente perdente di fronte alla proposta originale.
Il secondo insegnamento che possiamo trarre della teoria del populismo di Laclau riguarda il ruolo dello Stato e del discorso nazionalista. Su questo tema si può dire che il sovranismo cambi ragione sociale al populismo democratico: si passa infatti da una critica di classe (espressa tramite la contrapposizione tra alto e basso) ai meccanismi antidemocratici, neoliberali ed elitisti della costruzione europea, alla difesa dello stato nazionale contro le ingerenze esterne. Non più quindi la critica all’Europa neoliberale come strumento per la lotta di classe internazionale, ma la critica all’Europa tout court tramite la costruzione di un’identità nazionale, il tutto condito con un bel po’ di nostalgia per l’epoca fordista a cui corrispondeva uno Stato tanto protettivo quanto disciplinare. È così che la domanda per una democrazia radicale, che al fondo significa possibilità di influire sulle decisioni attraverso una lotta per l’emancipazione di chi sta in basso, si è trasformata in sovranismo, rivendicazione ultima dello spazio nazionale come difesa dalle invasioni straniere, tanto quelle dei flussi del capitale globale quanto quelle dei migranti. È in questo scivolamento che la ragione sociale è cambiata, il discorso di classe abbandonato, la giusta rivendicazione di uno spazio di decisione democratica trasformato in un discorso subalterno a quello dell’avversario. Anche su questo punto – il ruolo dello Stato in una politica populista democratico-radicale – Laclau può venirci in aiuto. Benché spesso si presupponga che il filosofo argentino postuli un unico spazio politico a disposizione, quello statale-nazionale, caratterizzato da solidi confini (territoriali, istituzionali, culturali) e piena sovranità (politica, economica), in realtà questi elementi non vengono mai esplicitati come precondizioni dell’emersione di una logica populista. Al contrario. Scrive Laclau: «Quando diciamo “Stato” ci riferiamo a un concetto che indica una funzione ordinatrice all’interno di una formazione sociale. Può essere lo Stato-nazione, ma non necessariamente solo questo, può anche riguardare uno Stato sovranazionale, oppure una serie di funzioni ordinatrici che non hanno nulla a che vedere con la dimensione pubblica nel senso stretto del termine». Ecco allora un secondo insegnamento da tenere presente: non è la forma di questa azione ordinatrice che conta (Stato-nazione, Stato sovranazionale o una configurazione comune oltre il pubblico e il privato), ma il fatto che essa si crei, come si crei e in che direzione si crei a determinare l’importanza dell’azione populista. Rimettere il populismo democratico sui suoi piedi significa anche non fare dei mezzi contingenti di una battaglia tattica (la critica all’Europa neoliberale) lo scopo ultimo dell’azione populista (la difesa della sovranità nazionale).
Un terzo insegnamento che possiamo trarre da Laclau è che nessuna configurazione politica è stabile, soprattutto all’interno di quel momento populista dove le identità si modificano di continuo e la loro articolazione non è affatto definitiva. Questo non è “un paese di destra”, come ieri ci dicevano i complici delle riforme neoliberali e oggi ci ripetono i compagni demotivati. Nel linguaggio un po’ formalistico di Laclau: perché si manifesti un nuovo popolo non serve che «tutti gli elementi di una configurazione emergente debbano essere radicalmente nuovi», serve invece che emerga un «punto d’articolazione» nuovo, attorno al quale tutti gli altri possano ricomporsi diversamente, formando un’inedita configurazione popolare. In breve, serve un discorso di nuova emancipazione e un soggetto credibile che la incarni. Ancora una volta, su questo aspetto specifico, la declinazione sovranista del populismo democratico dimostra di essere subalterna al discorso dell’avversario, dando per consolidati e stabili il panorama politico, il tipo di articolazione raggiunta dai gruppi sociali e le richieste che questi formulano. Il momento populista è invece caratterizzato da movimenti continui, scomposizioni e ricomposizioni di forze, creazione rapida di nuove identità e bisogni. Questo non vuol dire che non ci sarà in futuro una fase di stabilizzazione, ma che gli assetti su cui questa fase si stabilizzerà vengono decisi ora, nel momento populista, da chi riesce a costruire i soggetti più credibili, da chi sa politicizzare le faglie giuste, da chi ha più immaginazione e coraggio politico, perché non c’è cosa più sbagliata e codarda di fare il populismo con il popolo degli altri.

*Michele Filippini si occupa di teoria politica, operaismo, populismo. Ha scritto Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società.

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