martedì 31 luglio 2012

La ritirata ordinata, orchestrata dalla Bce di PierGiorgio Gawronski, Il Fatto Quotidiano

Stiamo assistendo alla ritirata dei neoliberisti, davanti all’incalzare… della realtà. Di fronte a questa mera eventualità, i mercati esultano, ed io con loro. Ricordo le previsioni ‘neolib’: 
(1) L’austerità riporterà la fiducia nei mercati finanziari e reali, cancellando gli spread, e rilanciando la crescita. 
(2) L’avvio delle “riforme strutturali” avrà lo stesso effetto. 
(3) Le banche centrali non possono fare molto contro la crisi. 
Infatti (4) l’aumento della moneta provocherà iperinflazione; il rischio vero da cui bisogna guardarsi è finire “come lo Zimbabwe”; l’aumento dei prezzi delle materie prime non è temporaneo ma segnala l’avvio di un processo inflattivo globale. 
(5) Le politiche di sostegno alla domanda, finalizzate a compensare la caduta della spesa privata e a sostenere le vendite delle imprese, saranno inefficaci. (6) Una delle ragioni è la seguente: la crescita dei debiti pubblici in tutto il mondo spingerà i tassi d’interesse reali alle stelle al netto degli spread – cioè nei paesi privi di ‘rischio default’: USA; Germania, Giappone, UK, ecc.

Tutte queste previsioni sono state smentite dai fatti; invito i lettori a verificare. Gente in buona fede concluderebbe: il modello che utilizziamo non funziona, dobbiamo cambiarlo. Si, cominciano a farlo: ma di nascosto, confondendo le acque. Come nelle dittature, dove la realtà è quella indicata dal Potere, le situazioni comiche si moltiplicano. Un esempio sono le contorte motivazioni con cui Draghi prepara l’opinione pubblica tedesca alla “svolta” della BCE (speriamo) in arrivo.
Draghi avrebbe finalmente trovato un pretesto per “aggirare il mandato” della BCE, e “salvare l’Euro” abbattendo gli spread: “Spread elevati riducono l’efficacia dei meccanismi di trasmissione della politica monetaria”. Quindi la BCE ha il diritto di abbatterli; l’efficacia della politica monetaria – il cui unico obiettivo, per la BCE, è “la stabilità dei prezzi” – deve essere preservata ad ogni costo!
Qualche sommessa domanda. Perché gli spread ora disturbano la politica monetaria, e prima no? Perché ieri gli interventi della BCE non potevano che essere “limitati e temporanei”, e ora no: la BCE farà “tutto il necessario per salvare l’Euro”? Perché prima “i poteri della BCE” erano deboli e “limitati… abbiamo solo guadagnato tempo… Tocca ai governi…”; mentre ora Draghi assicura: quel che faremo “…credetemi: sarà abbastanza!”? Perché la BCE si preoccupa del meccanismo di trasmissione ora, quando vede un’inflazione “vicina e sotto al 2% a fine 2012”, non quando cresceva ben oltre il 3%? Infine: se il mandato della BCE è inadeguato, perché non dirlo? Lo stesso Draghi non ha forse più volte invocato (p.es. Dicembre 2011) altre modifiche ai Trattati EU? E poi, basterà abbattere gli spread per “salvare l’Euro”?
I veri motivi della svolta sono altri: la strategia liberista é fallita. Le barzellette di Draghi meriterebbero di essere seppellite da una risata, se l’ideologia in ritirata non fosse ancora pericolosa! Gli Eurocrati guidati dalla BCE si apprestano a:
  1. Abbassare gli spread ma, temo, solo un po’, e con meccanismi “costosi”. Così mantengono la pressione su Governi e Parlamenti, e allarme fra la gente. Se qualcuno non avesse ancora capito che gli spread sono una variabile politica, c’è sempre tempo!
  2. Conservare il più possibile gli attuali meccanismi istituzionali dell’Eurozona. è la loro Europa: la vogliono sufficientemente “flessibile” da consentire ai loro modelli di funzionare. Il che è impossibile. Non succede neanche in America.
In poche parole: dopo averla fatta grossa, di fronte al mondo allibito, questi signori sono nell’angolo. O usano le ‘famigerate’ politiche keynesiane per uscirne – inclusa la banca centrale prestatrice di ultima istanza - o distruggono l’Euro. Dall’angolo cominciano a uscire, ma lentamente, coprendosi con foglie di fico, confondendo le carte. Per salvare non solo l’orgoglio personale, ma anche le riforme tecnocratiche, e la forma attuale delle difettose istituzioni europee, a fronte dell’ormai prevedibile ondata di ritorno dei popoli Europei, che chiederanno conto di una crisi ormai chiaramente ‘europea’ e ‘monetaria’. Ed allora: ben vengano le aperture della BCE. Ma se credono che siamo disposti ad accettare altri dieci anni di deflazione, depressione, e disoccupazione, secondo me si sbagliano.

A Parma tutti a letto dopo il Carosello di Achille Saletti, Il Fatto Quotidiano

E’ il Pizzarotti pensiero evidentemente che pone nella ora x ( ore 21 ) il divieto di vendere alcolici. La motivazione è duplice; da una parte il sacro timore di allevare future generazione il cui degrado morale possa superare quello, magnum, rilevato in questi anni. Dall’altra tutelare e proteggere i residenti del centro. Immagino il loro sonno non penso l’incolumità fisica.
Attenzione non di tutto il centro di Parma ma di parte del centro. Alcune vie sono esenti perché meglio frequentate evidentemente o forse con clientela più acculturata e bene educata.
Che dire? E’ il nuovo che avanza? O il giovane che si fa vecchio? Mi sembrava demenziale quando lo proponeva Giovanardi, mi sembra demenziale, oggi, che lo propone Pizzarotti. Ma Giovanardi, che evidentemente è un poco più gaudiente di Pizzarotti, non avrebbe mai escogitato nelle ore 21 la “ dead line” passata la quale rimani a becco asciutto.
Intendiamoci penso che una mediazione tra il desiderio di divertirsi e il riposo delle persone sia necessaria. Ritengo che sarebbe sufficiente applicare una ordinanza, applicata a partire dai prossimi giorni dal Comune di Milano in cui lo stop alle bevande alcoliche è fissato all’una di notte. Se proprio volessimo trasvolare l’oceano ed andare negli Stati Uniti scopriremmo che la mecca del cinema, Los Angeles, ha regolamenti restrittivi. L’ultimo drink all’una e fuori tutti alle due. Chi ha voglia di avvinazzarsi può continuare a farlo in riva all’oceano o a casa propria ( nel rispetto dei vicini, of course ). Del degrado morale la municipalità della città degli angeli si disinteressa come è giusto che sia.
Rimane questa ansia di vietare che rappresenta la vera cifra stilistica di questo inizio secolo. Rimane l’illusione che vietando si possa incidere sui comportamenti degli individui i quali, a questo punto,si presenteranno con beveroni artigianali pieni di coca, ghiaccio e rhum, portati da casa (l’ordinanza non regola questo aspetto ). Oppure si sposteranno di tre vie. Alla faccia, carina e simpatica di Pizzarotti, e dei suoi divieti. Rimane la rinuncia, nella mediazione, di provare a governare un fenomeno che, piacevole o meno, esiste non solo a Parma o in Italia ma in tutto il mondo.

Londra: se il marxismo è ancora tra noi di FQ Londra, Il Fatto Quotidiano



Why Marxism is on the rise again, perché il marxismo si sta rialzando di nuovo. Si intitola così un pezzo di Stuart Jeffries per il Guardian. Non un patetico foglio sovversivo, ma il più importante quotidiano progressista britannico decide di rispolverale i testi di Marx ed Engels e si chiede come mai riescano ancora, nello scenario di macerie del mondo contemporaneo, ad alimentare una qualche speranza di cambiamento.
La domanda non è del tutto peregrina, dato che dal 5 al 9 luglio si è tenuto a Londra il festival Marxism 2012Non era una novità. L’evento è organizzato da oltre un decennio dal Socialist Workers’ Party, un partito minoritario ben lontano dalle stanze dei bottoni. Ma questa volta è stato diverso: il festival ha ottenuto un’attenzione senza precedenti, soprattutto da parte dei più giovani. Ho deciso di farci un salto dopo aver aver ricevuto l’invito contemporaneamente da un’amico ventenne artista di Camberwell, una traduttrice italiana di Islington, uno scrittore di New Cross e un anarchico sessantenne di Hackney.
Ci sentivamo in buona compagnia, anche prima del festival: l’editoria inglese sta sparando sugli scaffali munizioni letterarie di tutto rilievo, tali e tante da far pensare che il dibattito sul marxismo non sia del tutto esaurito – come invece pare essere in Italia. Il professore di letteratura inglese Terry Eagleton ha pubblicato l’anno scorso un libro intitolato Why Marx Was Right. Il filosofo maoista francese Alain Badiou ha partorito un volume dalla copertina rossa col titolo The Communist Hypothesis. E si dichiarano senza alcun timore o tremore “marxisti” personaggi come l’ancora attivissimo Eric Hobsbawn, Jacques Ranciere, il sempre piu’ di moda Slavoj Žižek, il ventisettenne Owen Jones che ha affrontato la tematica dei chav – i tamarri inglesi – con l’ispirazione del primo Pasolini. Resta da vedere se le loro munizioni saranno di granata o di cerbottana.
Questione di epoca e di segnali: la più importante casa editrice radical anglosassone, la Verso, dopo aver quasi rischiato la bancarotta nel 2006, ora pubblica decine di nuovi titoli l’anno. Le vendite del Capitale, nonostante la concorrenza della spazza(lettera)tura di self-help alla Coehlo e di self-made men alla Jobs, sono schizzate verso l’alto a partire dal 2008. E se vogliamo fare ancora più paura ai benpensanti progressisti: sara’ un caso che i sondaggi dicono che nella Germania dell’Est e in generale in quasi tutti i paesi dell’ex cortina di ferro c’è più nostalgia per il socialismo che entusiasmo per la Rivoluzione digitale?
Parlando con amici scrittori e accademici non ho potuto non far notare, più con disincanto che con malinconia, che di tutto questo sembra non esserci eco alcuna nel disgraziato Stivale. E non perché l’Inghilterra, nonostante la sua verve intellettuale, non soffra di forme diffusissime di oppressione e manipolazione sociale, ma perché almeno qui certe sacche minoritarie di resistenza sembrano potersi esprimere, e certi gruppi di discussione sono attivi persino nei media mainstream, e non ridotti al silenzio e al ridicolo. Ve li immaginate un Fatto, una Repubblica o una Stampa affrontare un dibatitto sulla modernità di Marx anziché sulla diatriba Travaglio-D’Avanzo?
Augusto Illuminati,  professore associato di storia della filosofia politica, commenta: “Il marxismo non gode salute smagliante nell’accademia e nelle pubblicazioni ed è sparito completamente nell’area ex-Pci, che un tempo l’aveva ospitato, deformato ma comunque trasmesso. C’è tuttavia la speranza che alcuni elementi rinascano nella crisi e dentro un un ciclo di lotte, di cui abbiamo avuto indizi nel biennio scorso e forse qualche barlume anche ora. Sarà un marxismo difficilmente commisurabile alla tradizione che si perpetua”.
Paolo Persichetti, scrittore: “Il cantiere marxiano è sempre stato attualissimo. Il problema investe invece la sua ricezione politica. Esiste oggi una prassi politica efficace che si ispira a Marx? A me non sembra affatto. I vari marxismi del Novecento non hanno più molto da dire. La sfida è sul terreno di una politica ancora tutta da reinventare”.
*articolo di Paolo Mossetti, scrittore e reporter, vive tra l’Italia, Londra e New York. Collabora con diversi giornali e riviste tra cui Liberazione, Rolling Stone, Domus, Lo Straniero, Through Europe.

Dopo la tragedia greca tocca alla farsa spagnola


Dopo la tragedia greca, quella che si sta consumando in Spagna ha le fattezze di una farsa, alla quale però pochi sembrano credere. L’Europa si appresta a mettere a disposizione della Spagna cento miliardi di euro per salvare il sistema bancario di un paese virtualmente fallito senza il sostegno della Bce e del fondo salva stati. Per la Grecia, a titolo di confronto, ammontavano a centotrenta. A corredo del prestito, il governo spagnolo si impegna in una manovra da 65 miliardi di euro in due anni, la quarta in sette mesi. La manovra interviene pesantemente in termini di tagli alla spesa pubblica, colpendo gli stipendi degli statali, i sussidi di disoccupazione, introducendo nuovi tagli agli enti locali che si tramuteranno in tagli ai servizi essenziali che in Spagna sono svolti prevalentemente per via decentrata sul territorio.
Il salvataggio della Spagna è quindi condizionato alla cura del settore pubblico. Il peso del settore pubblico in Spagna è simile a quello italiano, ma inferiore a quello francese, per non menzionare alcuni paesi scandinavi. Il punto è se la cura cui si sta sottoponendo l’economia spagnola sia quella giusta. E’ il settore pubblico il vero malato della Spagna?
Basta guardare ad alcuni dati negli anni precedenti alla crisi per vedere che le sue ragioni vanno semmai ricercate nel settore privato. La storia del recente boom iberico è nota: una forte crescita sostenuta da un boom nel settore edilizio a sua volta sostenuto da ingenti flussi di capitale dall’estero (soprattutto dai paesi europei, con Germania e Francia in prima fila). Fenomeni di crescita trainata dalle costruzioni sono dei cliché nella storia del capitalismo. Il mercato appare un circolo virtuoso in cui prezzi crescenti, profitti e investimenti si rinforzano a vicenda. Le banche a loro volta concedono risorse crescenti a tassi allettanti. Finchè la barca va il sistema distribuisce risorse per tutti: imprese di costruzione, imprese di servizi e intermediazione, banche. Che cosa accadeva nel settore pubblico, ovvero il «grande malato» della Spagna? Il debito pubblico in Spagna è sceso in modo consistente, e ancora nel 2008 era circa il 40% del Pil, molto inferiore a quello di Regno Unito, Francia e Germania. Nel frattempo, l’esposizione finanziaria verso l’estero è cresciuta a ritmi forsennati, e il livello di debito del settore privato – escluso il settore finanziario – ha raggiunto un livello pari a quattro volte il debito pubblico.
Il resto è storia recente. Come ogni bolla che si rispetti anche quella del mercato edilizio in Spagna esplode. Il settore bancario è la prima vittima, carico di debiti e mutui in buona parte inesigibili. Questo spinge le banche a vendere gli immobili che avevano in garanzia facendo ulteriormente aumentare l’offerta di immobili, e quindi cadere i prezzi in una spirale che si avvita specularmente, ma molto più repentinamente, rispetto a quanto al ciclo virtuoso degli anni precedenti. Un paese con un sistema bancario in crisi è un rischio che nessuno, né il paese stesso né tantomeno i paesi europei, si possono permettere. In breve, lo stato spagnolo interviene a sostegno del sistema bancario. Ed è qui il nodo centrale: il debito accumulato nel settore privato è stato di fatto trasferito in quello pubblico: dal 2008 al 2012 il rapporto debito pubblico-Pil raddoppia, passando dal 40 all’80%. Arriviamo quindi alle vicende di questi giorni. Il settore pubblico, gravemente malato (si legga indebitato) necessita di una cura a base di austerity (si legga tagli alla spesa pubblica) con conseguenze facilmente immaginabili sul welfare. Difficilmente comprensibili, se si pensa che tra le funzioni principali dei sistemi di sicurezza sociale c’è il sostegno alla popolazione nelle fasi di recessione, come ad esempio i sussidi alla disoccupazione. Invece di essere usati in maniera anti-ciclica, questi ammortizzatori sociali sono ora ridotti.
Alla farsa spagnola non sembrano credere coloro che scendono in piazza e capiscono che la loro situazione volge verso la tragedia greca. E non sembrano crederci troppo neanche i mercati, poco convinti che il ritornello austerity-recessione ripetuto ad libitum possa dare i frutti sperati. Ma intanto il gioco è fatto, il fallimento del mercato europeo, così come è stato congegnato, si è trasformato nel fallimento degli stati sovrani.
L’impulso calvinista che imperversa in Europa non lascia scampo, gli stati dovranno rimettere i loro debiti, e con loro i cittadini.
 
Andrea Filippetti - il manifesto

Ilva: ecologisti e anticapitalisti di rossana Rossanda, Il Manifesto

«Purché le due cose – difesa dell’occupazione e difesa dell’ambiente – vengano fatte insieme». Così scrive Alberto Asor Rosa, in occasione del dilemma fra chiudere l’Ilva smettendo di contaminare la zona o lasciarla aperta contaminandola. E ricorda che un dilemma simile si era verificato in val di Chiana, sul riuso di uno stabile dismesso, proposto da un’impresa che si occupava di biomasse e che aveva visto gli ambientalisti chianini disturbati da una invasione di disoccupati che volevano lavoro.
Giusto dunque operare insieme per lavoro e natura. Ma a chi si parla? Mi si permetta di protestare quando ci si rivolge, in ugual modo, alla proprietà e agli operai e ai loro sindacati. È un pezzo che anche questi sono accusati di essere stati “sviluppisti”, e quindi avvelenatori del pianeta, anche da parte di noti padri della patria. Come se fossero loro a decidere se aprire o chiudere una fabbrica, e a determinarne le linee e l’organizzazione della produzione, nonché la distribuzione. Ma non sono loro affatto! Non essendo in condizioni di investire, può investire e decidere su che cosa produrre sempre e solo la proprietà del capitale. Agli operai non resta che afferrare un salario, se se ne presenta la possibilità, vendendo la propria forza di lavoro; salario con il quale vivono, non avendo altri redditi, e del quale quindi non possono fare a meno. La fabbrica inquina o, peggio, infetta? Non sono loro né a infettare né a smettere di infettare, non hanno scelta se non combattere, come hanno fatto al Petrolchimico di Marghera.
Ma è difficile chiedere loro di cambiare l’azienda, da cui traggono quel misero salario in cambio di niente. Ed è perfettamente ipocrita chiedere loro di produrre pulito, produrre ecologico. Essi non hanno scelta, e se sono messi davanti a quella di perdere il lavoro o rischiare di avvelenarsi, rischieranno prima di avvelenarsi, salvo battersi poi per rischiare di meno. Non possono fare altrimenti.
Per questo non parlerei di alleanza fra operai e capitale. Nella difesa di una produzione sporca, gli operai non sono “alleati” con la proprietà sono “ricattati” dalla proprietà. Quando Viale o altri dicono: si produca meno o si passi a una produzione ecologicamente sana, si cessi di inquinare il pianeta, a chi parlano? Seriamente? Seriamente possono parlare soltanto alla proprietà, privata o pubblica, diretta o per azioni, nazionale o multinazionale, e solo ad essa, i salariati non potendo decidere né che cosa né come né dove produrre. Sì, qualche volta hanno cercato di farlo, come nel ’69, ma sono stati sconfitti dai padroni, dal governo, dalla stampa, in nome della democrazia, e la loro lotta è stata subito dopo resa sempre meno possibile dai licenziamenti in massa che sono seguiti.
Chi si ricorda che la Fiat aveva allora 129.000 dipendenti? Ora, ci informa Gabriele Polo, ne ha circa 15.000. L’operaio è meno di un uomo libero, lo è meno di un altro cittadino.
Da un mese a questa parte, dopo la vittoria dei socialisti in Francia – socialisti, non bolscevichi, anzi un po’ meno di socialdemocratici delle origini – il padronato dichiara in difficoltà una dozzina di grandi imprese. E ristruttura. Licenziando. Esempio: la Psa automobili (Peugeot +Citroen) ha annunciato ottomila “esuberi”, tra l’altro chiudendo del tutto il sito di Aulnay, alla periferia di Parigi, del quale ha occupato più di metà della superficie. Poiché per un occupato nell’automobile licenziato si calcolano altre quattro perdite di posti di lavoro (dal panettiere, macellaio, fruttivendolo del sito, all’indotto vero e proprio) la Psa decide dunque di aumentare i disoccupati di circa 35.000 persone. Il governo protesta, e si dichiara disposto a una serie di aiuti soltanto a condizione che la Psa imposti la produzione in vetture elettriche, riducendo il noto inquinamento della benzina o diesel. Zac, il presidente del consiglio d’Europa, Rompuy, assieme all’altra testa fina che dirige la Commissione, Manuel Barroso, aprono un’inchiesta se ha diritto di farlo o no, per le conseguenze che questa condizione potrebbe avere sul mercato. L’altra grande azienda automobilistica, la Renault, che ha probabilmente commesso meno errori nella produzione, ha fatto in questi giorni un contratto con la Corea per le batterie che le servono per la medesima, il governo si dice d’accordo, ma a condizione che la proprietà coreana produca in Francia. Apriti cielo, protezionismo!
Nessuno osa dire in questo luglio fatale: menomale che meno automobili escono dalla fabbrica. Fanno troppo spavento le facce stravolte di chi ha lavorato dieci o venti anni per Peugeot o Citroen e si sente dire di colpo che sarà licenziato, e sa che di lavoro difficilmente può trovarne un altro. Ma nessuno neanche dice che i responsabili di questo disastro umano, e del peso che ne deriverà per i conti pubblici, sono i signori del Cac 40, le proprietà quotate in borsa. I “mercati” sembrano incorporei, quanto per il Vaticano lo spirito santo, che come loro spira dove vuole.
Si deve essere ecologisti. Ma quindi anticapitalisti. O, come minimo, sostenitori di una primazia del pubblico sull’economico, in modo da determinarne l’indirizzo e la non dannosità per l’ambiente. Perché non si dice anche questo? Perché dal 1989 in poi non si ha più coraggio di dire nuda e cruda la verità sul meccanismo dell’impresa del capitale, nonché sulla rinuncia della sfera politica, continentale o nazionale, a controllarle.
Per l’Ilva, come qualche anno fa per la val di Chiana, non c’è dilemma fra lavoro e ambiente, c’è un sistema di proprietà, accettato dalle ex sinistre, che distrugge l’uno o l’altro, o tutti e due.

lunedì 30 luglio 2012

Serve un polo di Sinistra di Claudio Grassi


Pochi giorni fa Antonio Di Pietro ha lanciato una proposta di coalizione alle prossime elezioni fra tutte le forze alternative al governo Monti. A breve giro di tempo è arrivata la bocciatura di Grillo che in poche righe striminzite, in coda a un post, ha respinto l’invito del leader dell’Idv. «Il Movimento 5 Stelle non si alleerà con nessun partito». Un no è arrivato anche dai vertici di Sel, per bocca di Gennaro Migliore, che ha etichettato l’idea di un fronte dei “non allineati” come roba da politica vecchia. «La nostra politica non può ridursi a schieramenti, dove non contano mai i contenuti». Sono segnali di un quadro politico in fibrillazione. Nessun partito, oggi, a destra come a sinistra, può dirsi immune da questi fenomeni di riassestamento.
Governo Monti: laboratorio di un nuovo assetto di potere
Nessuno può prevedere come si presenterà il sistema politico italiano alle prossime elezioni. Comunque vada, qualunque saranno le forze e le alleanze elettorali, è fin d’ora certo che dopo il governo Monti nulla sarà come prima. Tramontate le geografie della lunga era berlusconiana, l’esecutivo dei bocconiani ha avuto la funzione di laboratorio di un nuovo assetto di potere nelle classi dirigenti. Le formule del centrodestra e del centrosinistra che avevano caratterizzato la Seconda repubblica oggi sarebbero completamente inadeguate a definire la maggioranza che sostiene il governo Monti. Quello che all’indomani del passaggio di consegne di Berlusconi venne presentato agli italiani come una sorta di “stato d’eccezione”, si è rivelato un governo che, col passare del tempo, ha normalizzato, naturalizzato, rese ovvie le politiche dell’austerity. La crisi finanziaria dello spread ha dato modo a Mario Monti di accreditarsi nell’opinione pubblica come il leader di un esecutivo che avrebbe salvato l’Italia dal rischio di insolvenza e, quindi,  di uscita dall’euro. In nome della retorica dell’emergenza sono state azzerate in un colpo solo le geografie del berlusconismo, consentendo la nascita di un nuovo blocco bipartisan di forze politiche, accomunate dal consenso sulle misure di austerity caldeggiate da Bce e vertici dell’Ue.

I fattori di incertezza del sistema politico italiano da qui alle elezioni
Questo nuovo assetto di potere produrrà effetti duraturi nel quadro politico? La maggioranza bipartisan che ha dato vita al governo Monti si ripresenterà, in qualche misura, anche alle prossime elezioni? Non si possono fare previsioni. Per due motivi. Il primo è che non si sa ancora con quale sistema elettorale si andrà a votare. Al momento si discute di diverse proposte avanzate perlopiù dai partiti della maggioranza. Ma si tratta, in parte, di abboccamenti e diversivi. Saranno proprio i tecnicismi – doppio turno, soglia di sbarramento, premio di maggioranza – a determinare quante e quali forze politiche siederanno nel prossimo parlamento. E siccome l’iniziativa è soprattutto nelle mani dei partiti dell’attuale maggioranza, sarà di fatto il trio ABC (Alfano-Bersani-Casini) a mettere un’ipoteca su chi farà parte dell’arco politico nella prossima legislatura e chi no. È sufficiente alzare di qualche punto la soglia di sbarramento per impedire l’accesso in parlamento di una o più forze politiche. Il rischio è che la nuova legge – ammesso che vedrà la luce e non si debba invece andare alle urne col Porcellum – finisca più per corrispondere agli interessi dei partiti della maggioranza che non al fine di una rappresentanza democratica e proporzionale delle forze politiche presenti nella società italiana. La composizione del prossimo parlamento, quali forze ne entreranno a far parte e quali alleanze i partiti stringeranno tra loro, dipenderà molto da quel che il trio Abc scriverà nel testo della legge elettorale.
Il secondo motivo di incertezza del quadro politico è più complesso. In ogni competizione elettorale gli schieramenti e le alleanze che i partiti stringono tra loro, dipendono dai contenuti che si impongono nel dibattito pubblico. Fino alle elezioni del 2008 uno dei principali antagonismi che divideva lo spazio politico era quello tra berlusconismo e antiberlusconismo. Attorno a quella discriminante si organizzavano le forze politiche, i rispettivi campi della destra e della sinistra, gli schieramenti e la propaganda elettorale. Il governo Monti ha costruito il consenso alle proprie politiche liberiste – perlomeno agli inizi – sul tema della permanenza nell’eurozona contrapposto al rischio di uscita dall’euro. Alle prossime elezioni non è detto che il tema del dentro o fuori la moneta europea sarà ancora la linea di divisione principale della competizione politica. Con molta probabilità non ci saranno il centrodestra e il centrosinistra che abbiamo conosciuto in passato, a contendersi i voti. Può darsi che lo scontro principale avvenga tra l’arco di forze che ha sostenuto le politiche di Monti e quelle che, in varia misura e a diverso titolo, si sono opposte a esse. Ma, di nuovo, non è detto che sia questo lo scenario. Soprattutto, non è affatto scontato che la crisi economica – e la possibilità di scegliere tra differenti strategie nell’affrontarla – diventi il tema principale su cui i partiti e gli italiani si misureranno e si divideranno. Può anche essere che nel dibattito politico altre saranno le questioni dirimenti sulle quali si giocherà la campagna elettorale.
Il populismo di Grillo
Può accadere, per esempio, che il tema dominante diventi la crisi (delle forme) della politica. Il malcontento che cova in strati diversi della società italiana, potrebbe prendere la via di un’unica protesta generalizzata nei confronti dei partiti, percepiti come responsabili non solo di corruzione e malaffare, ma anche della valanga di tasse e tagli che sommergono lavoratori, ceti popolari, piccola borghesia e ceti medi imprenditoriali. Se così fosse, l’antagonismo tra sistema di potere e forze antisistema diventerebbe la questione centrale delle prossime elezioni o, altrimenti detto, la principale linea di divisione dell’offerta politica. Da una situazione del genere uscirebbe favorito il Movimento 5 Stelle, il quale ha finora costruito la propria rendita di consenso – almeno stando ai sondaggi – sulla critica alla politica. Non è che non esista un deficit etico nella gestione della cosa pubblica. La crisi della democrazia rappresentativa, i limiti del meccanismo della delega, la frattura tra governanti e governati sono tutt’altro che problemi fittizi. È un errore clamoroso accusare il movimento di Grillo di antipolitica quando pone all’ordine del giorno la questione morale o l’assenza di processi di partecipazione nelle decisioni dirimenti per la collettività. Ma quando la risposta si limita essenzialmente al rifiuto del partito come forma organizzata della politica, il rischio è di infilarsi in un vicolo cieco. Si dimentica troppo in fretta la storia italiana. I partiti tradizionali di massa sono stati, dopo il fascismo, la forza motrice della democrazia, i protagonisti della Resistenza, gli artefici della Costituzione. Ma anche a prescindere da questo dato specifico della nostra storia, non si vede quali possano essere oggi le alternative nell’organizzazione della vita pubblica. A Parma, la città più importante in mano al M5S, il neosindaco Pizzarotti ha impiegato ben 46 giorni per formare una giunta. È la dimostrazione che non basta liquidare i partiti per risolvere il problema della selezione del personale chiamato ad amministrare il potere per contro dei cittadini. Un conto è la critica sacrosanta delle commistioni tra partiti, apparati di potere, interessi clientelari, lobby locali; altro però è rifiutare qualsiasi idea di corpo intermedio della democrazia che si collochi tra i cittadini e il governo della cosa pubblica, in nome di non si sa quale alternativa. Il problema di come scegliere i governanti e di come formare la classe dirigente rimane immutato. A Parma l’idea del M5S era di ricorrere alla Rete come a una sorta di assemblea permanente nella quale gli elettori, in piena trasparenza, avrebbero potuto scegliere tra personalità della società civile (urbanisti, economisti, docenti, ecc.) dotati delle competenze necessarie per fare gli assessori – un po’ come avviene in un casting quando si selezionano gli attori o i concorrenti di un programma televisivo. Che nei partiti ci sia molto da migliorare nel modo in cui si scelgono i gruppi dirigenti è fuori discussione. Ma chi assicura che nella società civile le cose vanno meglio? Perché a governare dovrebbero essere soltanto i “tecnici”, gli “specialisti”, le personalità in qualche modo accreditate nelle istituzioni della società civile? Forse che nelle università o nelle imprese – per citare solo un paio di casi – non ci sono clientele di interessi e meccanismi di selezione fondati sulla raccomandazione? Un conto è rifiutare la consuetudine della delega incondizionata da parte dei cittadini nelle mani di chi esercita in loro nome il potere, ma altro conto è spacciare per democrazia diretta qualcosa che assomiglia molto al populismo e alla fede negli uomini della provvidenza del nostro tempo: i tecnici della società civile.
Un campo della sinistra alternativa
Che fare allora perché la crisi e l’esistenza di politiche economiche alternative a quelle dominanti possa diventare, alle prossime elezioni, il tema principale nell’agenda pubblica? Dipende dal grado di egemonia che la Fds saprà esercitare nel dibattito. Per quel che riguarda Rifondazione comunista il compito prioritario è rendere il più possibile pubbliche le proprie proposte politiche. L’obiettivo, stabilito nel documento approvato dall’ultima Direzione nazionale, è la costruzione di uno schieramento politico, che possa competere alle elezioni, tra tutte le forze che si oppongono da sinistra al governo Monti – da Sel ad Alba e a tutto il mondo dell’associazionismo, passando per l’Idv di Di Pietro. L’interrogativo su cui riflettere è: esiste un campo così vasto di forze disponibili a centrare l’identità della loro proposta politica sul tema delle politiche economiche anziché su altri temi che, al momento, sembrano più redditizi dal punto di vista del marketing elettorale, come, ad esempio, la critica alla casta partitica? In  Sel la questione della crisi economica è riconosciuta come fondamentale nel proprio programma (ed esiste anche una discussione interna sulla necessità di costruire in Italia una sinistra federativa sul modello di Syriza), ma, al momento l’atteggiamento prevalente, è costruire un asse con il Pd con tutte le conseguenze che ciò comporta. L’Idv – con la cui abbiamo costruito le importanti esperienze di Palermo e di Napoli (anche se sarebbe un errore generalizzare vista la centralità  che hanno giocato i due sindaci, De Magistris e Orlando, in quanto tali), si trova su una posizione di rottura con il Pd e sta cercando di ricavarsi uno spazio su cui da tempo opera il M5S. Di Pietro – si diceva all’inizio – ha lanciato pochi giorni fa l’idea di uno schieramento di tutte le forze che si oppongono alle ricette liberiste del governo Monti. Eppure le politiche economiche non sono mai state al centro delle proposte dell’Idv che, almeno sotto questo preciso profilo, è sempre stato un fenomeno politico di incerta collocazione ideologica. I punti di forza del partito di Di Pietro sono tradizionalmente la legalità, la giustizia, la lotta alla corruzione e alla criminalità, con alcune punte di esasperazione nei confronti della casta (pochi giorni fa ha fatto discutere un video sul sito dell’Idv nel quale si raffiguravano Bersani, Alfano e Casini nelle sembianze di “zombie”, formula cara a Grillo). Se negli ultimi anni l’Idv si è spostato a “sinistra” è stato più per investire su un vuoto del sistema politico italiano – in seguito all’uscita dal parlamento di Rifondazione e alla deriva centrista del Pd – che non per una proposta univoca di politica economica. Di Pietro ha conquistato una parte dell’elettorato tradizionale di sinistra coniugando il tema della legalità con quello della giustizia sociale – ma anche grazie a un’abile campagna acquisti portata avanti dopo il 2008 tra gli intellettuali di sinistra, dal filosofo Gianni Vattimo allo storico Nicola Tranfaglia. Rimane tuttavia una sostanziale incongruenza tra la collocazione “a sinistra” dell’Idv nello spazio politico e la sua (quasi inesistente) visione di politica economica. Non a caso, fuori dal contesto specifico italiano la contraddizione si fa più lampante. La collocazione ideologica nel parlamento europeo è di tutt’altro genere rispetto a quella nazionale. A Strasburgo l’Idv aderisce al gruppo dell’Alde, l’alleanza liberaldemocratica di cui fanno parte, tra gli altri, il partito liberale tedesco e quello britannico. In Italia il partito di Di Pietro si schiera contro le politiche di austerity di Monti e appoggia le proposte della FIOM, mentre in Europa siede tra i sostenitori delle politiche economiche dell’Ue. Non è l’unica anomalia di un partito che aspira a divenire tale a tutti gli effetti, ma rimane ancora in gran parte ancorato all’immagine carismatica del suo leader. L’Idv è riuscito sinora a sfruttare a proprio vantaggio la critica alla casta, allo strapotere dei partiti e alla corruzione, nonostante abbia manifestato al suo interno tratti tipici del trasformismo e del notabilato politico. Le vicende di De Gregorio, Razzi e Scilipoti – tutti parlamentari eletti nelle file dell’Idv che in un secondo momento hanno cambiato casacca – sono l’ennesima dimostrazione che l’avversione per i partiti quasi mai arriva a costruire alternative credibili.
La nostra proposta
In questo contesto di grande incertezza dobbiamo sviluppare la nostra iniziativa.
La proposta politica contenuta nel documento della Direzione Nazionale è giusta: lavorare per costruire un polo della sinistra – cioè le forze che oggi a sinistra sono all’opposizione del Governo Monti – partendo da Sel, Idv e Fds con l’obiettivo di farla diventare la coalizione elettorale che si presenti alle prossime elezioni. Il programma è quello tracciato nella assemblea della Fiom e che avrà un ulteriore momento di discussione in un incontro nazionale promosso da Alba che si terrà a Torino in settembre al quale sarà importante partecipare. L’obiettivo – costruire un polo della sinistra – non è per nulla facile. Come ho scritto sopra per realizzarsi è necessario che Sel corregga la subalternità nei confronti del Pd che oggi caratterizza il suo agire e l’Idv dovrebbe abbandonare il progetto sbagliato e irrealistico di costruire una coalizione con Grillo.
Quindi non è un obiettivo facile, ma è quello che serve e noi dobbiamo fare tutto il possibile per realizzarlo. Da questo punto di vista più che gli appelli e gli incontri è decisivo mettere in campo l’iniziativa politica e la mobilitazione. Se la vediamo da questa angolazione possiamo constatare che ci sono le condizioni per provarci. In primo luogo sarebbe un segnale che va in questa direzione se alle prossime elezioni siciliane (fine ottobre) ci si presentasse come polo di sinistra. La cosa non è affatto remota: ci sono buone possibilità perché attorno alla candidatura di Claudio Fava si aggreghino Sel, Fds, Idv e Verdi. Già questo sarebbe un importante tassello. L’altro è quello si costruire la mobilitazione nel Paese contro le politiche economiche di Monti. Impresa più difficile, ma non impossibile. Ci sono in campo alcune proposte sulle quali possiamo far partire subito una campagna unitaria: reddito minimo, ripristino art 18, abolizione art 8. Parallelamente a questo si può iniziare a preparare una grande manifestazione nazionale (potrebbe essere promossa da un gruppo di personalità che per autorevolezza e rappresentanza possano farlo senza che nessuno si senta escluso o prevaricato).
È difficile? Si! Ma non ci sono molte alternative se non quelle della subalternità o della marginalità. Lavoriamoci.

La lettura sbagliata della crisi di Luciano Gallino, La Repubblica

Il 20 luglio la Camera ha approvato il “Patto fiscale”, trattato Ue che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Comporterà per l’Italia una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032.
Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà.

Approvando senza un minimo di discussione il testo la maggioranza parlamentare ha però fatto anche di peggio. Ha impresso il sigillo della massima istituzione della democrazia a una interpretazione del tutto errata della crisi iniziata nel 2007. Quella della vulgata che vede le sue cause nell’eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale. In realtà le cause della crisi sono da ricercarsi nel sistema finanziario, cosa di cui nessuno dubitava sino agli inizi del 2010. Da quel momento in poi ha avuto inizio l’operazione che un analista tedesco ha definito il più grande successo di relazioni pubbliche di tutti i tempi: la crisi nata dalle banche è stata mascherata da crisi del debito pubblico.

In sintesi la crisi è nata dal fatto che le banche Ue (come si continuano a chiamare, benché molte siano conglomerati finanziari formati da centinaia di società, tra le quali vi sono anche delle banche) sono gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza. Ciò avviene perché al pari delle consorelle Usa esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore.

La finanza ombra è formata da varie entità che operano come banche senza esserlo. Molti sono fondi: monetari, speculativi, di investimento, immobiliari. Il maggior pilastro di essa sono però le società di scopo create dalle banche stesse, chiamate Veicoli di investimento strutturato (acronimo Siv) o Veicoli per scopi speciali (Spv) e simili. Il nome di veicoli è quanto mai appropriato, perché essi servono anzitutto a trasportare fuori bilancio i crediti concessi da una banca, in modo che essa possa immediatamente concederne altri per ricavarne un utile. Infatti, quando una banca concede un prestito, deve versare una quota a titolo di riserva alla banca centrale (la Bce per i paesi Ue). Accade però che se continua a concedere prestiti, ad un certo punto le mancano i capitali da versare come riserva. Ecco allora la grande trovata: i crediti vengono trasformati in un titolo commerciale, venduti in tale forma a un Siv creato dalla stessa banca, e tolti dal bilancio.

Con ciò la banca può ricominciare a concedere prestiti, oltre a incassare subito l’ammontare dei prestiti concessi, invece di aspettare anni come avviene ad esempio con un mutuo. Mediante tale dispositivo, riprodotto in centinaia di esemplari dalle maggiori banche Usa e Ue, spesso collocati in paradisi fiscali, esse hanno concesso a famiglie, imprese ed enti finanziari trilioni di dollari e di euro che le loro riserve, o il loro capitale proprio, non avrebbero mai permesso loro di concedere. Creando così rischi gravi per l’intero sistema finanziario.

I Siv o Spv presentano infatti vari inconvenienti. Anzitutto, mentre gestiscono decine di miliardi, comprando crediti dalle banche e rivendendoli in forma strutturata a investitori istituzionali, hanno una consistenza economica ed organizzativa irrisoria. Come notavano già nel 2006 due economisti americani, G. B. Gorton e N. S. Souleles, «i Spv sono essenzialmente società robot che non hanno dipendenti, non prendono decisioni economiche di rilievo, né hanno una collocazione fisica». Uno dei casi esemplari citati nella letteratura sulla finanza ombra è il Rhineland Funding, un Spv creato dalla banca tedesca IKB, che nel 2007 aveva un capitale proprio di 500 (cinquecento) dollari e gestiva un portafoglio di crediti cartolarizzati di 13 miliardi di euro.

L’esilità strutturale dei Siv o Spv comporta che la separazione categorica tra responsabilità della banca sponsor, che dovrebbe essere totale, sia in realtà insostenibile. A ciò si aggiunge il problema della disparità dei periodi di scadenza dei titoli comprati dalla banca sponsor e di quelli emessi dal veicolo per finanziare l’acquisto. Se i primi, per dire, hanno una scadenza media di 5 anni, ed i secondi una di 60 giorni, il veicolo interessato deve infallibilmente rinnovare i prestiti contratti, cioè i titoli emessi, per trenta volte di seguito. In gran numero di casi, dal 2007 in poi, tale acrobazia non è riuscita, ed i debiti di miliardi dei Siv sono risaliti con estrema rapidità alle banche sponsor.

La finanza ombra è stata una delle cause determinanti della crisi finanziaria esplosa nel 2007. In Usa essa è discussa e studiata fin dall’estate di quell’anno. Nella Ue sembrano essersi svegliati pochi mesi fa. Un rapporto del Financial Stability Board dell’ottobre 2011 stimava la sua consistenza nel 2010 in 60 trilioni di dollari, di cui circa 25 in Usa e altrettanti in cinque paesi europei: Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna. La cifra si suppone corrisponda alla metà di tutti gli
attivi dell’eurozona. Il rapporto, arditamente, raccomandava di mappare i differenti tipi di intermediari finanziari che non sono banche. Un green paper della Commissione europea del marzo 2012 precisa che si stanno esaminando regole di consolidamento delle entità della finanza ombra in modo da assoggettarle alle regole dell’accordo interbancario Basilea 3 (portare in bilancio i capitali delle banche che ora non vi figurano).

A metà giugno il ministro italiano dell’Economia – cioè Mario Monti - commentava il green paper: «È importante condurre una riflessione sugli effetti generali dei vari tipi di regolazione attraverso settori e mercati e delle loro potenziali conseguenze inattese». Sono passati cinque anni dallo scoppio della crisi. Nella sua genesi le banche europee hanno avuto un ruolo di primissimo piano a causa delle acrobazie finanziarie in cui si sono impegnate, emulando e in certi casi superando quelle americane. Ogni tanto qualche acrobata cade rovinosamente a terra; tra gli ultimi, come noto, vi sono state grandi banche spagnole.

Frattanto in pochi mesi i governi europei hanno tagliato pensioni, salari, fondi per l’istruzione e la sanità, personale della PA, adducendo a motivo l’inaridimento dei bilanci pubblici. Che è reale, ma è dovuto principalmente ai 4 trilioni di euro spesi o impegnati nella Ue al fine di salvare gli enti finanziari: parola di José Manuel Barroso. Per contro, in tema di riforma del sistema finanziario essi si limitano a raccomandare, esaminare e riflettere. Tra l’errore della diagnosi, i rimedi peggiori del male e l’inanità della politica, l’uscita dalla crisi rimane lontana.

«Vietiamo»: la via creativa di Pizzarotti al governo di Parma

di Toni Jop

Divieto. Il nuovo passa da questa parola, a dire il vero consumata e non per questo meno tagliente. L’ha usata, com’è noto, il sindaco grillino di Parma, Pizzarotti, inaugurando la sua stagione, giusto per impedire la vendita, sia per consumo interno che per l’asporto, di ogni bibita alcolica dalle 21 alle sette del mattino in alcune strade centrali della città emiliana.
Vuole disarmare la movida, sedare il chiasso che disturba, attivare un deterrente al fatto che molti ragazzi inzuppino il loro cervello nell’alcol.
Il problema esiste ed è diffuso. Certo, finché nessuno si premura di avvisare quei ragazzi che stanno maneggiando una bomba ben più devastante di una “canna”, non si può sperare di uscirne.
Il problema esiste ed è diffuso. Certo, finché nessuno si premura di avvisare quei ragazzi che stanno maneggiando una bomba ben più devastante di una “canna”, non si può sperare di uscirne. Poi, lo “sballo” è questione politico-culturale che ha la sua “fabbrica” nei consumi e nella crescente febbre di uscire per quanto si può da un presente grigissimo e compresso.
Va capito, conviene offrire alternative alle vie autolesioniste, le serate dei centro-città vanno animate, c’è bisogno che qualcosa accada in quelle piazze e dia un senso alla lucidità piuttosto che al suo tramonto. C’è bisogno di una nuova cultura per impostare risposte non rabberciate, non ripiegate sul divieto, non sdraiate sulla consumistica autosufficienza della repressione.
Il Movimento Cinque Stelle è al governo della città, soffia un vento nuovo che spazza le miserie del passato e mostrerà a tutti come un’altra vita sia possibile: è il momento di ungere la realtà con quest’olio benedetto.
Pizzarotti ha detto “vietiamo”, questa è la via creativa, sapendo che avrebbe semplicemente spostato le truppe della movida da un incrocio all’altro, che i ragazzi si sarebbero pippati l’alcol prima di arrivare a destinazione oppure dietro l’angoloD. Ha spento un pezzo di città e ne ha acceso un altro. Non ci ha pensato troppo su, ha proceduto per intuito folgorante sostenuto dall’illuminazione del suo Grillo Tulsa-Doom.
Hanno ragione: non sono né di destra né di sinistra, sono oltre, sono geni, di una genialità di cui la destra, che li ha votati sapendo perché, è ghiotta.
Infine, sulla graticola dei blog piagnucolano: perché ci accusate?, lamentano, hanno fatto così anche amministrazioni di centro-sinistra.
Bravi: ma non siete saliti su quel podio promettendo che avreste fatto piazza pulita di quella “feccia”?

parole-povere.comunita.unita.it

NON IN MIO NOME. Il Pd va a destra, e io me ne vado dal Partito di Ivano Marescotti, Il Fatto Quotidiano

La politica non è un mero esercizio di ragionamenti asettici e razionali. Prende più giù della testa e anche del cuore. Ma quando arriva alla pancia son dolori e crampi ingovernabili.
È quello che mi succede proprio in questi giorni, in queste ore. Io sono sempre stato nel Partito (come si chiamava di volta in volta) o lì attorno come le falene con le lampadine.
Ma quello che mi succede ora è ancora inedito per me. Non  avendo più il cemento ideologico di un mondo migliore promesso dalla rivoluzione pacifica, all’italiana, democratica ecc. un partito vale per quello che fa e gli uomini che lo rappresentano valgono per quello che fanno vedere di sé. Ma le azioni e gli scopi ora mi sfuggono.
Gli ultimi avvenimenti riguardanti le indagini sugli accordi Stato-Mafia di 20 anni fa e, in particolare, il suo aspetto laterale come quello del coinvolgimento di Napolitano mi hanno sorpreso e anche indignato parecchio. Napolitano si è infognato chiaramente e alla luce del sole. Ha commesso un errore chiaro e palese (difendere il suo portavoce che dichiarava che il Presidente aveva “preso a cuore” la richiesta di un ex Ministro di manipolare le indagini dei pm che indagano su fatti molto gravi) e, per trarsene fuori, ne ha commesso un altro più grave (il conflitto di attribuzione alla corte costituzionale) ed infine, dopo la morte di D’Ambrosio per infarto, accusare, nel suo necrologio, esplicitamente Ingroia e gli altri (oltre ad alcuni giornali) di avere causato la morte del suo collaboratore. Il titolo dei giornali di destra è “Napolitano: pm assassini”. Oggi nulla, attendo domani se Napolitano avrà qualcosa da ridire, distinguere il suo giudizio, difendere i pm palermitani… Dopodomani sarà già troppo tardi.
E Bersani e il suo PD appoggiano in toto, a priori, Napolitano in una vicenda dove è chiaro ed evidente l’errore del Presidente, mettendosi con ciò a fianco della peggior feccia politica di destra.
Quella lampadina attorno a cui ronzavo in cerca di lumi si è proprio spenta. Non si può essere ipocriti fino a questo punto. Se uno sbaglia occorre dirlo e farlo capire a tutti. Tutti possono sbagliare ma accanirsi nell’errore è diabolico e letale. È così che si difende l’istituzione e la democrazia e non con l’accusa di lesa maestà.
Io non nutro più molte speranze di svolte del PD e non vedo luci. Ci ho provato per alcuni anni fino a far parte della Assemblea Nazionale dalla quale mi sono dimesso dopo un paio di riunioni così come, definitivamente, dal Partito. E mi sembra ora di essere non più tanto a fianco del PD ma all’opposizione dopo che quel partito governa l’Italia sostenedo un Governo assieme al PDL. Inaudito e intollerabile. Monti è di destra e va lasciato alla destra che almeno sarebbe dignitosa. Anche solo battersi per contenderselo con la destra è per me un  assurdo inconcepibile. Monti fa una politica cieca, toglie soldi e consumi e servizi alla popolazione, comprimendo diritti acquisti nel tempo con dure lotte di classe, pensando di risanare l’economia portandoci invece vicino al baratro. È una politica capitalistica semplice e chiara ma lontana da quella illuminata, keinesiana, degli anni trenta in America. Una situazione che rende anche più semplice e chiaro che una politica di sinistra è un’altra: di opposizione. Un partito di sinistra non ha paura di vincere le elezioni e di governare. Direi che esattamente quello è il suo compito! E avrebbe dovuto almeno cercare di farlo mesi fa. con le elezioni avremmo vinto a man bassa e avremmo avuto l’onore e l’onere di dovere governare una crisi con scelte impopolari ma forse accettate dalla popolazione che sa accettare sacrifici se fatti con il loro concorso e per un futuro migliore. La gente andava anche in galera durante il fascismo e moriva per un avvenire migliore.
Invece abbiamo un governo retto dal PD, UDC e PDL. Ecco… non in mio nome.

Marchionne no! Lui non c'entra di Alessandro Robecchi, Il Manifesto


Parlare di meritocrazia in un paese che vanta tra le sue eccellenze Sergio Marchionne è come organizzare un mondiale di scacchi tra babbuini: una cosa abbastanza insensata. L’ultima uscita del “vero socialdemocratico” (cfr: Fassino) che guida la Fiat, cioè l’attacco a un concorrente capace di vendere macchine in tutta Europa e nel mondo, è più comica che paradossale. Credevamo che Marchionne fosse un grande sostenitore del liberismo e del mercato, ed eccolo invece invocare una «razionalizzazione» del mercato dell’auto in Europa. Tradotto in italiano: implorare che francesi e (soprattutto) tedeschi facciano e vendano meno macchine. E’ come se un maratoneta si appellasse al giudice di gara per chiedere che i concorrenti corrano con la suocera in spalla, e giustamente il commissario europeo per la concorrenza non gli ha nemmeno risposto, affidando la questione al suo portavoce, che gli ha signorilmente riso in faccia («Le intemperanze di Marchionne»…).
Insomma. Prima era colpa della Fiom. La Fiom venne cacciata con un referendum-ricatto e ora nello stabilimento modello de-fiomizzato si va allegramente in cassa integrazione. Poi fu colpa della crisi e del mercato, ma intanto i concorrenti vendevano più macchine di lui. Allora fu la volta dei concorrenti: come si permettono di produrre e vendere, addirittura di fare una politica dei prezzi? Dove credono di essere, su un libero mercato?
Ora, immaginiamo lo staff di Sergio Marchionne al lavoro per elaborare altre ardite teorie. Tipo prendersela con le strade: «Se fossero tutte in discesa le nostre macchine andrebbero meglio!». Oppure con le curve: «Se non ci fossero potremmo fare a meno del volante!». Aspettiamo con ansia, certi che qualche colpevole si troverà. Al momento, Marchionne guida la Fiat con esiti disastrosi da sette anni, l’unico segno più che si ricordi è quello delle sue stock options. E questo sarebbe niente, se non dovessimo anche sentirci recitare ogni giorno come il rosario la ridicola tiritera sulla meritocrazia.

domenica 29 luglio 2012

Da Pomigliano a Taranto, delitto d'estate di Stefano Galieni



A Taranto si è in fondo in questi giorni confermata la nemesi delle nefandezze connesse al modello di sviluppo. La parola d’ordine semplificata è semplice, o si crepa di cancro, grazie alle esalazioni prodotte dal polo siderurgico, o si crepa di disoccupazione se questo, come da decisioni giudiziarie, verrà chiuso. In mezzo loro, i lavoratori, le loro famiglie il cui destino è sospeso e carico di rabbia che non trova pace, loro che bloccano e occupano la città e che pretendono una soluzione che sembra incompatibile con le decisioni dei padroni. Tutto è sospeso fino al 15 settembre quando il tribunale si pronuncerà sulla richiesta di riapertura della fabbrica ma l’operazione che ha portato anche all’arresto di coloro che dovevano garantire anche la sua bonifica non promette bene. Da Taranto arriva rabbia e disperazione a malapena fermata dall’intervento provvido di uno dei pochi uomini del sindacato ancora dotati di una certa credibilità come Maurizio Landini. Prevale il senso d’impotenza e del perso per perso, la lotta condotta giorno dopo giorno, forse senza prospettive, di pura anche se necessaria resistenza. La vicenda di Taranto è solo quella oggi alle cronache, il paese intero sembra devastato dalla metastasi del blocco del circuito produttivo, non si vende e non si consuma e allora perché produrre? Il viaggio che segue, a macchia di leopardo e senza nessuna pretesa di essere esauriente, è attorno a zone produttive, a singoli comparti, a vertenze particolari, lavoratori e lavoratrici che passeranno l’agosto in fabbrica o in piazza e che forse apriranno con largo anticipo l’autunno caldo. Ma dietro una situazione del genere c’è anche la vittoria di un modello che si è rivelato totalmente fallimentare. L’alfiere delle fiere forzate, degli stabilimenti in eccesso, delle giornate di cassa integrazione distribuite come bombe a grappolo è di certo l’amministratore delegato della Fiat, il dott. Marchionne. Facile prendersela con la politica dei prezzi della concorrenza tedesca quando si è puntato tutto sulla distruzione dei contratti nazionali, sui salari bassi, su modelli che non valgono la cifra a cui vengono venduti. «Gli ultimi giorni di produzione della “Musa” sono stati drammatici –racconta con rabbia Pasquale Lojacono, ex rappresentante Rsu della Fiom, ormai cacciata dagli stabilimenti – Ci rendevamo conto che tutto stava precipitando e che la Fiat non voleva fare investimenti ad agosto ma un colpo del genere è veramente di quelli che fanno male». Si perché da alcuni giorni i prodotti fallimentari elaborati dai geni della direzione non verranno più fabbricati, risultato per 2600 lavoratori non ci saranno più collocazioni mentre altri 2300 potranno lavorare al massimo 2 giorni a settimana.
Anche a Mirafiori si sta consumando l’ennesimo sterminio, alla faccia di trovate pubblicitarie come “Fabbrica Italia”, i lavoratori, anche quelli in attività, raccontano di aver perso con i diversi periodici cassa integrazione, almeno 18 mila euro ciascuno di salario. Chi aveva risparmi li ha bruciati, molti hanno dovuto attingere anche al fondo pension e al tfr.«Io ormai come sindacalista sono stato cacciato via- racconta ancora Pasquale – Ma alcuni giorni fa sono andato in direzione per accompagnare un lavoratore a cui avevano fatto una contestazione. L’impressione che ho avuto, parlano con i dirigenti, è che neanche loro credono più in un futuro. Il problema è che molti lavoratori ora non ce la fanno più a resistere, in parecchi si sono indebitati per andare avanti. A Torino, come in qualsiasi altra città non campa una famiglia con 800 euro». La Fiom fa notare anche come il tanto decantato accordo che ha spaccato tutto, si sia rivelato totalmente inadeguato Nasconde il fatto che si vogliono produrre meno vetture con meno lavoratori e basta. Pasquale, come gran parte degli altri ,ha lavorato 12 giorni in 7 mesi, per il resto solo cassa integrazione. Questo impianto è uno di quelli che sta per morire nell’indifferenza generale, secondo Pasquale e la Fiom la sola soluzione per mantenere il livello occupazionale è quella della riduzione dell’orario di lavoro, ma da quell’orecchio l’ad della Fiat non ci vuole sentire, per mantenere un rapporto con i lavoratori si sono organizzate assemblee degli iscritti fuori dal luogo di lavoro, incontri con i simpatizzanti, ma a Torino è anche difficile, quello che resta della Fiat è sparso per un vasto territorio, anche raggiungere i lavoratori non è facile.
La situazione della Fiat e della produzione di veicoli è secondo Emanuele De Nicola, di Melfi, entrata in una fase che potrebbe essere di non ritorno.«Come annunciato ci hanno messo in cassa e riprenderemo a lavorare (forse) il 29 agosto. Ma qui non si illude nessuno, è troppo tempo che lavoriamo 8 giorni al mese se va bene, il salario diminuisce me non ci sono produzioni da fare. Si avvicina la fine se non ci sarà un intervento diretto del governo. Personalmente ho seri dubbi che la Fiat voglia realmente restare in Italia». Anche i lavoratori di Melfi non passeranno ferie tranquille, si sta ancora aspettando la sentenza definitiva che riguarda lo scontro fra Fiom e Fiat, si aspetta dal 10 luglio ma ancora c’è il silenzio. Non si tratterebbe di una vittoria simbolica, si ridefiniscono anche con questa sentenza, le relazioni industriali in Italia. «Noi – continua Emanuele – auspichiamo una ripresa per fare chiarezza rispetto alle intenzioni reali della Fiat, dobbiamo capire se vogliono o meno riconvertire le produzioni. I dirigenti Fiom come Emanuele hanno una linea ben definita, sono convintiche soltanto investendo in ricerca e innovazione per creare un nuovo modello di auto a basso impatto ambientale e realmente ecocompatibile si possa uscire dalla crisi. Oggi si producono più automobili di quante se ne vendono, quindi andrebbe cambiata radicalmente la strategia industriale:«Dobbiamo partire dall’idea di città intelligenti – dice Emanuele – in cui si rimette in discussione il concetto stesso di mobilità, il servizio pubblico, capire come uscire prima che inizi la scarsità, dalla dipendenza dal petrolio, ragionare insomma. Cose che la Fiat sembra non voler fare. E il governo nazionale sembra subalterno alle decisioni di Marchionne, oppure si da credito a buffonate come la messa in affitto di stabilimenti industriali. Occorre altro, non basta la Punto Evo che produciamo noi, anche a metano che non si vende, bisogna sperimentare i motori ad idrogeno, investire sul fotovoltaico, e se la Fiat non è in grado di farlo che se ne vada senza pretendere nulla. A me sembra che il governo francese si sia creato meno problemi per affrontare la crisi della Peugiot . E chi pensava che la Fiom fosse la responsabile della chiusura degli stabilimenti ora ci deve ripensare.
La Fiat, e più in generale la produzione siderurgica, sono l’aspetto più visibile di un Paese in cui ad essere al crollo è l’economia reale che ne dica il presidente del consiglio. Le realtà produttive che sono rimaste hanno scelto di scaricare tutte le difficoltà sui lavoratori con orrende devastazioni contrattuali, l’uso massiccio della cassa integrazione (straordinaria o in deroga), cercando di espellere il conflitto dalla fabbrica e dimostrando assoluta assenza di volontà nella riprogrammazione della propria strategia di mercato. Migliaia e migliaia di lavoratori, le loro famiglie, che vivono questo scorcio d’estate in maniera drammatica, senza soldi e senza la voglia nemmeno di pensare alle meritate ferie. E poi ci sono gli altri, quelli che attengono ad altri comparti, il mondo frammentato e disperso dei lavoratori precari, delle piccole aziende, dei servizi in cui l’occupazione o diminuisce o è cattiva occupazione. Le cifre sono spaventose 3.152.763 sono quelli registrati come lavoratori precari 24.133.764 quelli a tempo indeterminato 2.402.482 gli ufficialmente disoccupati. Nel primo quadrimestre del 2012 sono state utilizzate dalle aziende 322 milioni di ore di cassa integrazione per una media di 470.000 lavoratori in cassa a tempo pieno. In media sono stati persi per ogni lavoratore 2.600 euro in busta paga per un totale di 1,2 miliardi di euro. Lo sottolinea la Cgil sulla base dei dati Inps sulla cig nel 2012. Dopo il dato record del 2011, anche nell’anno in corso le ore di cassa integrazione utilizzate dalle aziende si aggireranno intorno al miliardo.
Anche per questo 2012, quindi, il quarto anno consecutivo di crisi, “la cassa integrazione si avvia ad attestarsi attorno al miliardo di ore autorizzate”, osserva il segretario confederale, responsabile Industria, Elena Lattuada – si continuano a registrare dati negativi che indicano uno stato di profondissima crisi e di inesorabile declino del settore industriale. Senza ripresa – avverte – questi dati peggioreranno tirandosi dietro disoccupazione e desertificazione industriale. Bisogna dare risposte al profondo malessere sociale rimettendo al centro il lavoro”.
Ad aprile – sottolinea la Cgil nella sua elaborazione dei dati Inps diffusi nei giorni scorsi – sono stati chiesti 86 milioni di ore (-13,6% su marzo). Nel primo quadrimestre sono state autorizzate 322,8 milioni di ore in linea con lo stesso periodo del 2011. “Le ore di cig – afferma la Cgil – azzerano dall’inizio dell’anno 470.000 posizioni di lavoro ma coinvolgono mediamente 940 mila persone con un’incidenza di cig per occupato nell’industria pari a 46 ore per dipendente”.
Nei primi quattro mesi del 2012 il totale delle ore di cig ordinaria è stato di 101 milioni di ore (+26,54% tendenziale) . La richiesta di ore per la cassa integrazione straordinaria nel periodo gennaio-aprile (110,9 milioni) segna un calo del 18,6% sullo stesso periodo dell’anno scorso.
Infine la cassa integrazione in deroga (cigd) con 110,9 milioni di ore autorizzate (+3,79%) risulta lo strumento più usato. I settori che presentano un maggiore volume di ricorso alla cigs in questi quattro mesi sono quello del commercio con (39,9 milioni e +31,16%) e il settore meccanico (21,9 milioni ma con un -31,88%). Le regioni maggiormente esposte con la cassa in deroga da inizio anno sono la Lombardia con 20,5 milioni di ore (+19,70%), l’Emilia Romagna con 12,5 milioni (+15,19%) e il Lazio con 11,7 milioni di ore (+154,18%).
“Considerando un ricorso medio alla cig, pari cioè al 50% del tempo lavorabile globale (9 settimane) – afferma la Cgil – sono coinvolti da inizio anno 938.525 lavoratori in cigo, cigs e in cigd. Se invece si considerano i lavoratori equivalenti a zero ore, pari a 17 settimane lavorative, si ha un’assenza completa dall’attività produttiva per 469.262 lavoratori, di cui 160 mila in cigs e altri 160 mila in cigd. Continua così a calare il reddito per migliaia di cassintegrati: dai calcoli dell’Osservatorio cig, si rileva come i lavoratori parzialmente tutelati dalla cig abbiano perso nel loro reddito 1,2 miliardi di euro, pari a 2.600 euro per ogni singolo lavoratore”.
Cifre di questo tipo fanno pensare che il numero di coloro che quest’anno stanno già riducendo in maniera tremenda il proprio tenore di vita e che difficilmente potranno permettersi una vacanza estiva, è destinato a crescere in maniera esponenziale.
Come se non bastasse bisogna considerare che fra chi ha un contratto a tempo indeterminato, cresce in maniera esponenziale il numero di colo che si ritrova in cassa integrazione sapendo che la mobilità, ovvero il licenziamento, restano dietro l’angolo, mondi diversi fra di loro che spesso non hanno neanche modo di incontrarsi e di dialogare, di fare massa comune, in cui si cercano le soluzioni per sbarcare il lunario. Parlare di “ferie” e di vacanze a chi vive in una simile condizione spesso suona come un insulto, come il voler rammentare che le condizioni di vita, di un anno due anni addietro, oggi non hanno modo di esistere. Stefano Materia, segretario Fiom Cgil di Catania, ci racconta sconsolato di come stia morendo l’attività produttiva nella sua provincia. «In questi giorni abbiamo saputo che per i 39 lavoratori della Nokia, che producono software – dice ,con tono irato – non ci sono prospettive se non qualche ricollocazione individuale. Lo stesso per gli altri che costituivano l’indotto. Catania e Siracusa sono il cuore produttivo della Sicilia ma da noi ormai siamo con la Cig al 70%, resiste Siracusa ma è come se si tenesse su una gamba sola. La produzione nostra finisce in Portogallo, noi resistiamo, lunedì e martedì saremo in sciopero e manifesteremo». Si c’è chi l’estate la vive anche come momento di lotta e di difesa del posto di lavoro, combattendo contro un sistema che li vuole schiacciati.
Ma c’è chi lotta, resiste e in qualche maniera riesce a non lasciarsi, per ora schiacciare. Tutti al mondo conoscono gli “studios” di Cinecittà, luogo storico per la produzione culturale in Italia e nel mondo. Luigi Abete è un imprenditore che intende acquistare l’area ( in cui per altro sorge anche un parco) per creare altra speculazione edilizia, ovviamente dichiarando di voler invece mettere in atto un rilancio. Messi in discussione i posti di lavoro dei circa 250 che degli studios sono l’anima e anche la storia, ma anche le migliaia di posti che ruotano attorno all’industria cinematografica. Sono intervenute le Rsu interne, si è tentato di rompere il silenzio che il potente Abete ha tentato di imporre sulla vertenza e si sono attuati presidi,ci si è relazionati alla città anche con momenti spettacolari come la finta nevicata di inizio luglio. Alla fine,grazie al prezioso lavoro di compagni come Citto Maselli, si è mosso il mondo della cultura, quella che si percepisce anche come opportunità di vita e di lavoro. Hanno preso parola persone come Ghini, Tognazzi, Tornatore. La vicenda è uscita dai confini nazionali e sono intervenuti Loach e Tritignant, lo stesso Le Figarò si è soffermato sulla vicenda. Abete non ha preso molto bene la determinazione dei lavoratori, continua a dichiarare di volersi liberare dei riottosi ma nel frattempo c’è chi comincia a chiedere le sue di dimissioni. A protestare contro lo smantellamento di un pezzo di industria privatizzata già 15 anni fa ora ci sono anche gli abitanti del quartiere che non vogliono vedere trasformato un parco importante per il territorio in cemento allo stato puro. Il comitato “Cinecittà bene comune” e forze politiche come il Prc sostengono la loro lotta.

Nel mondo senza leader è la rete che domina di Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano

-Qualcosa è accaduto mentre noi eravamo occupati nel tentare di salvarci dalla bancarotta. Sono scomparsi i leader. Non parliamo di quelli che c’erano nel passato “normale”. Si sono tolti di mezzo da soli, a volte, in circostanze drammatiche. Altre volte semplicemente sono svaniti come nell’effetto speciale di un film. C’erano, e occupavano spazio, notizie, interviste, talk show. C’erano e non ci sono più. Sono ancora in giro, ma non in favore di telecamere. Se parlano non si sente la voce. E non trascinano nessuno. Il fenomeno non è solo italiano. Il mondo in questo momento è occupato da marce e comizi, da sit in e assemblee, dove nessuno guida e nessuno ha qualcosa di speciale da dire, non nel senso del carisma, della leadership, del messaggio con cui mettersi alla testa di una folla.
Ognuno parla fra altri e, fra altri, viene ascoltato e dimenticato. Ci sono trovate estrose ed eventi drammatici, si va dalla tragedia allo spettacolo, dal furore alla indignazione alla presa in giro. Manca sempre il protagonista. É nato un attivismo collettivo abbastanza ordinato, con informazioni in tempo reale e un vero e proprio collegamento in diretta che non chiede niente agli organizzatori, non il suono, non le luci, non lo studio o il costo per le riprese. E neppure un capo. Tutto avviene e basta.
Direte che questa è la rete, che il nuovo strumento ha sfarinato e poi ricompattato quella che una volta era la massa, che si aggregava intorno a un fede (detta ideologia) e identificava un capo da seguire, una volta stabilito il percorso. Adesso “ricompattare” vuol dire sincronizzare, informare, collegare giorno e notte senza lasciare il minimo spazio vuoto. In questo mondo c’e’ una vasta pianura di orizzonti infiniti dove tutto appare possibile, e dove chiunque è in grado di trovare o seguire o indicare una strada. Ci sono segnali di orientamento, come nei sentieri di montagna, ma ciascuno si avvia da solo e conta di trovare gli altri, senza che gli altri siano parte o personaggi della sua vita, senza che vi siano legami, tranne il progetto. Il progetto è in parte un testo, in parte citazione, in parte frammento di libro, in parte grido che passa di “postazione” in “postazione” venendo da chissà chi e chissà dove, ma bello, azzeccato. Scomparirà quasi subito.
In rete vi sono poderosi archivi ma non c’e’ memoria, non nel senso umano, che ricorda per amore, per ossessione, per associazione o per caso. Perciò tutto resta per sempre, e tutto si perde per sempre, perchè una frenesia (tecnica, non nervosa) di cambiamento percorre ogni tempo e spazio di ciò che accade in rete e ciò che oggi è la cosa da fare, la sola, con urgenza ed emergenza, domani è sparita. Domani è pieno d’altro. E se c’era un leader che aveva afferrato il prima, subito dopo ci vorrà un altro, perchè tutto è cambiato e le tracce del prima si perdono subito.
E’ una esperienza nuova mischiarsi ai gruppi spontanei di esseri umani che si formano dappertutto, ciascuno testimoniando una missione e raccontando una pena. La prima differenza con le generazioni di protesta che li precedono è che non sfidano, resistono. La seconda è che l’estremismo (ovvero un senso di impossibile, di inaudito, di eccessivo) viene esibito da chi governa verso i cittadini, un curioso rovesciamento dell’estremismo del ” vogliamo tutto”. Ora vuole tutto – o questa è l’impressione diffusa – chi governa, qui o in Europa, e i gruppi che si mobilitano tentano ogni tipo di barriere e di resistenza, non per avere di più ma per cedere meno.
Come vedete è uno strano mix, fatto di un mondo virtuale che nasce in rete (sia i progetti di resistenza che quelli di governo). Quando diventa vero, nelle fabbriche, nelle case, nelle piazze, nelle strade, porta dalla rete due tratti inesorabili: la solitudine e una strana sorta di eguaglianza, che non è l’eguaglianza come valore sociale. É un dato statistico in cui ciascuno conta come un altro. E anche se a un certo punto si scatena un gioco fra chi è più bravo, la gara vale solo per quel momento, come una partita di scarabeo. Poi ognuno torna ad essere un pezzo del gioco.
E infatti ogni volta, nei gruppi veri fatti di esseri umani e non di Facebook e di numeri, si vedono megafoni abbandonati nelle mani di qualcuno che ha già parlato e non sa a chi passarlo, microfoni aperti (si sente la voce ” prova…prova”) che aspettano qualcuno che si faccia avanti volontario per parlare, vedi palchi a lungo deserti, perchè nessuno, abituato a vivere dietro il computer, pensa che tocchi a lui, a lei, di prendere l’iniziativa e di parlare, guidare.
Ognuno nasce spettatore dello schermo che non smette di generare fatti inediti, ognuno interessato quasi solo alle cose nuove che trova. E si abitua a esprime il suo giudizio con le tre righe di Twitter. In queste condizioni nessuno prende il comando. Il comando di cosa?

I numeri dell’Inps smentiscono Fornero di Michele Carugi, Il Fatto Quotidiano

A fronte del quasi dimezzamento delle nuove pensioni e dell’età media effettiva di pensionamento che si è innalzata a 61,3 anni e cioè di quasi un anno secco rispetto al 2011, che conferma una tendenza già iniziata nel 2011 e che ha portato a ottimi risultati economici in quell’anno sul versante puramente previdenziale, il presidente dell’Inps Mastrapasqua ha dichiarato: “I dati Inps sul calo delle nuove pensioni dimostrano che le riforme hanno funzionato e che il sistema previdenziale é stato messo in sicurezza”. Va dato atto peraltro a Mastrapasqua, di avere sostenuto già dal 2010 che il sistema previdenziale era stabilizzato, in questo concordando con moltissimi altri personaggi pubblici ed esperti del settore.
A scanso di equivoci non è superfluo sottolineare che la riforma Fornero non ha avuto alcun impatto di alcun genere sui risultati dell’Inps del primo semestre del 2012, poiché i suoi effetti devastanti sulle persone e quelli economici si cominceranno a sentire solo dal 2013.
Allora le domande che sorgono spontanee sono:
  1. Da quale infausta motivazione furono ispirati Trichet e Draghi quando nell’agosto 2011 scrissero la famosa lettera al Governo italiano nella quale chiedevano tra le altre cose che si mettesse mano con urgenza alla riforma della previdenza?
  2. Che cosa ha motivato Fornero a pensare e poi attuare la riforma che si sta rivelando, oltre che drammaticamente insostenibile per centinaia di migliaia di pensionandi senza lavoro, anche del tutto superflua?
  3. Perché le forze politiche hanno colpevolmente avallato la bieca riforma proposta da Fornero salvo apportare alcune modifiche meno che marginali?
Le mie risposte sono le stesse già date altre volte. Trichet semplicemente non sapeva di cosa parlava essendogli probabilmente sconosciuti i dettagli del nostro sistema previdenziale. Draghi mirava a sostenere preventivamente una riforma non necessaria ma che certamente è utile per spostare a regime risorse dai contributi dei lavoratori alle spese dello Stato in altre aree e migliorare i conti pubblici. Fornero ha attuato una riforma di cui è ideologicamente convinta da sempre anche contro le evidenze di non necessità e ha trovato sponda da tutti coloro che volevano “fare cassa”. I partiti politici hanno subito ottusamente il ricatto consistente nel “prendere o lasciare”, e cioè o si approva tutto ciò che il Governo Monti propone oppure lo stesso lascia.
Nessuna di queste motivazioni ha radici nei conti del nostro sistema previdenziale preesistente, che a questo punto solo un commentatore in malafede potrebbe continuare a definire instabile e illumina meglio le ragioni grettamente di cassa che stanno dietro alla furia riformatrice altrimenti ingiustificata.
I circa 200.000 esodati che pagheranno sulla loro pelle la riforma saranno agnelli sacrificali, il cui sangue non scorrerà per risanare i conti della previdenza o per garantire pensioni migliori ai giovani di oggi, bensì per bilanciare nei conti dello Stato spese quali l’assistenza (gestita dall’Inps) oppure, peggio, per mantenere un flusso di risorse che contribuisca a finanziare aree di spreco, clientelismo e parassitismo che non si andranno a toccare, perlomeno non sufficientemente.
Altresì, l’età pensionistica più alta d’Europa verrà raggiunta con effetto quasi immediato non perché ciò fosse necessario per i numeri previdenziali, ma per migliorare la situazione di cassa dello Stato prelevando da una delle poche aree in equilibrio grazie ai contributi dei lavoratori e delle imprese.
Ci dissero, in dicembre, che occorreva la riforma perché lo Stato rischiava di non poter neppure pagare le pensioni esistenti; ciò sembrò da subito un’invenzione, sensazione confermata vedendo i conti della ragioneria dello Stato che indicavano i primi benefici a partire dal 2013 e che quindi rendevano non credibile che tali risparmi servissero a pagare le pensioni nell’immediato.
Ci dissero anche che la riforma era una delle cose necessarie per dare agli investitori internazionali fiducia sul paese e quindi far abbassare lo spread; tutti hanno visto cosa è successo in seguito allo spread e come questo sembri del tutto in dipendente dallo stato del nostro sistema pensionistico.
In conclusione, ritengo che ci siano state raccontate molte storie fantasiose che la realtà dei fatti smentisce una per una; di fronte a questo occorre che il Governo ci liberi quanto prima della presenza del ministro Fornero e che venga cancellata la sua riforma o almeno modificata radicalmente con buon senso; ci si aspetterebbe che tutti i partiti ne chiedessero le dimissioni, cosa che invece è stata fatta solo da alcune forze all’opposizione e nel non supportarla si è persa un’occasione.
Temo, invece, che il ministro resterà al suo posto e che continuerà a sostenere contro l’evidenza che la sua riforma era necessaria e che non ci sono risorse per risolvere il problema di tutti gli esodati e che in partiti politici continueranno a giocare con proposte di legge future ed emendamenti minimali, continuando a sottostare al ricatto surreale di chi dice: “o questo governo esattamente com’è oppure il diluvio”.
Continueranno su questa strada che però, è bene lo sappiano, li porterà al tracollo elettorale e porterà la nazione a una reale ingovernabilità; sempre che la rabbia degli esodati che oltre che bastonati sono anche ora irrisi dalle cifre pubblicate dall’Inps, saldata a quella dei lavoratori che vedono la pensione allontanarsi enormemente senza un motivo reale, non esploda e costringa finalmente qualcuno a smetterla di trincerarsi dietro favolette sempre più risibili e ad affrontare la realtà del fatto che la riforma si può e si deve modificare radicalmente, molto radicalmente e che le risorse per il problema esodati ci sono, basta evitare di stornarle dalla previdenza per destinarle ad altro e che cambiando il Ministro del lavoro non necessariamente i Governi devono dimettersi; si chiama “rimpasto” ed è doveroso quando la principale riforma di quel ministro viene smentita dalla realtà dei numeri.