Cosa
avrà deciso ieri pomeriggio il gip Patrizia Todisco? avrà davvero
firmato «il provvedimento di sequestro (senza facoltà d’uso) degli
impianti dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto, oppure avrà accolto i
miti, unanimi consigli di governo, padronato, sindacato metalmeccanico,
ricamati sul giornale della Confindustria? Si sarà fidata dei mediatori
della Regione? Per una volta, il giornale non aveva rampogne, ma
comprensione e sostegno ai lavoratori che bloccavano le strade nazionali
e il centro della Città, si addensavano intorno alle sedi della
giustizia e della politica, per difendere il proprio lavoro e insieme
l’azienda e i proprietari Riva.
Dal canto loro, i verdi – il presidente Bonelli è consigliere comunale a Taranto – descrivono una città divisa tra gli operai e chi non vuole morire di cancro.
Se i sindacati vogliono «fare presto», è per prendere la guida delle manifestazioni ed evitare che la situazione degeneri e diventi ingovernabile: in effetti si aspettano che la decisione del gip sarà contro di loro. I lavoratori sanno che il fermo dell’area a caldo bloccherà l’intera acciaieria e quindi porterà in un breve futuro al loro licenziamento; altre prospettive di lavoro – a Taranto! – non riescono a immaginarne. Tanto meno riescono a immaginare una città o forse un civiltà prive del loro prodotto, del loro orgoglioso lavoro: fare acciaio, base di tutto il resto che esiste al mondo. Riva è un pessimo padrone, dicono i metalmeccanici; ma spetta a noi dirlo, a nessun altro. Per competente che sia, un giudice non può condannare Riva e costringerlo a chiudere la fabbrica. La fabbrica è anche nostra che lavoriamo, che viviamo lì dentro. «Noi non meritiamo condanne».
D’altra parte la fabbrica di Riva è pericolosa da sempre e sono gli operai i primi a morirne. Nell’udienza preliminare di maggio per 30 dirigenti dell’Italsider, vecchio nome, poi mutato in quello ancora più vecchio di Ilva, risuona l’accusa di aver provocato la morte di 15 operai facendoli lavorare senza protezione in ambienti di gas tossici e amianto.
La risposta, a nome di tutti difensori della «fabbrica siderurgica più grande d’Europa», la fornisce in un’intervista lo stesso ministro dell’ambiente Clini che una volta di più parla all’incontrario su Il Sole 24 Ore: non si può condannare uno per vicende passate. «L’Ilva di Taranto non va fermata. Il giudizio sui rischi connessi ai processi industriali dello stabilimento va attualizzato». Qualche mese prima, in gennaio, dalla perizia veniva anche un’accusa un po’ diversa. Emergeva «la quantità rilevante di polveri rilasciata dagli impianti, anche dopo gli interventi di adeguamento».
Uno Stato padrone di sé avrebbe imposto un ciclo di riconversione degli impianti, con molti lavori in cui impiegare lavoratori competenti per tutto il tempo necessario. Il nostro Stato è pezzente e incatenato; quel poco che aveva lo ha ceduto all’Europa che lo costringe a non fare niente e poi lo rimprovera per non avere fatto niente. Possiamo sperare che un giudice più potente rovesci la decisione di Patrizia Todisco e si dia così, secondo il modello consueto, «tempo al tempo»?
Dal canto loro, i verdi – il presidente Bonelli è consigliere comunale a Taranto – descrivono una città divisa tra gli operai e chi non vuole morire di cancro.
Se i sindacati vogliono «fare presto», è per prendere la guida delle manifestazioni ed evitare che la situazione degeneri e diventi ingovernabile: in effetti si aspettano che la decisione del gip sarà contro di loro. I lavoratori sanno che il fermo dell’area a caldo bloccherà l’intera acciaieria e quindi porterà in un breve futuro al loro licenziamento; altre prospettive di lavoro – a Taranto! – non riescono a immaginarne. Tanto meno riescono a immaginare una città o forse un civiltà prive del loro prodotto, del loro orgoglioso lavoro: fare acciaio, base di tutto il resto che esiste al mondo. Riva è un pessimo padrone, dicono i metalmeccanici; ma spetta a noi dirlo, a nessun altro. Per competente che sia, un giudice non può condannare Riva e costringerlo a chiudere la fabbrica. La fabbrica è anche nostra che lavoriamo, che viviamo lì dentro. «Noi non meritiamo condanne».
D’altra parte la fabbrica di Riva è pericolosa da sempre e sono gli operai i primi a morirne. Nell’udienza preliminare di maggio per 30 dirigenti dell’Italsider, vecchio nome, poi mutato in quello ancora più vecchio di Ilva, risuona l’accusa di aver provocato la morte di 15 operai facendoli lavorare senza protezione in ambienti di gas tossici e amianto.
La risposta, a nome di tutti difensori della «fabbrica siderurgica più grande d’Europa», la fornisce in un’intervista lo stesso ministro dell’ambiente Clini che una volta di più parla all’incontrario su Il Sole 24 Ore: non si può condannare uno per vicende passate. «L’Ilva di Taranto non va fermata. Il giudizio sui rischi connessi ai processi industriali dello stabilimento va attualizzato». Qualche mese prima, in gennaio, dalla perizia veniva anche un’accusa un po’ diversa. Emergeva «la quantità rilevante di polveri rilasciata dagli impianti, anche dopo gli interventi di adeguamento».
Uno Stato padrone di sé avrebbe imposto un ciclo di riconversione degli impianti, con molti lavori in cui impiegare lavoratori competenti per tutto il tempo necessario. Il nostro Stato è pezzente e incatenato; quel poco che aveva lo ha ceduto all’Europa che lo costringe a non fare niente e poi lo rimprovera per non avere fatto niente. Possiamo sperare che un giudice più potente rovesci la decisione di Patrizia Todisco e si dia così, secondo il modello consueto, «tempo al tempo»?
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