sabato 21 luglio 2012

La Costituzione violata dal mercato. E la riforma sanitaria è ormai un ricordo di Vittorio Bonanni



Quando si parla in continuazione di tagli alla sanità pubblica e di aziendalizzazione delle struttura sanitarie, non si sta discettando semplicemente se si debba affidare la cura delle persone al pubblico o invece al privato. O capire se vale la pena, conti alla mano, ridimensionare la gestione pubblica della salute perché troppo dispendiosa. Molti hanno dimenticato, o hanno fatto finta di dimenticare, che si sta parlando anche del rispetto della nostra carta costituzionale. Alla fine della Seconda guerra mondiale in Europa la consapevolezza che bisognasse garantire ai cittadini tutto ciò che serve per vivere una vita dignitosa, dalla scuola alla sanità, dalla casa al lavoro, era diventato un fatto acquisito non solo dalle grandi forze socialiste, socialdemocratiche o comuniste, ma anche da quelle moderate e di ispirazione cattolica. Questo avveniva, sia pure in contesti politici e sociali diversi, sia nell’Europa comunista che in quella occidentale.

Quando i nostri costituenti hanno realizzato e poi approvato il 22 dicembre del 1947 una della carte costituzionali più avanzate d’Europa proprio sul terreno dei diritti sociali, non hanno certo dimenticato che tra quei diritti bisognasse annoverare anche la salute. Così nacque l’articolo 32 della Costituzione che recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Ma questo punto così importante venne di fatto disatteso per trent’anni. Bisognò infatti aspettare il 1978 per vedere approvata la legge 833, meglio nota come riforma sanitaria. Quella normativa abolì le casse mutue, strettamente legate all’attività professionale dell’individuo e che dunque negavano proprio quel punto della Costituzione che prima abbiamo riportato. In altre parole il diritto alla salute era legato non dal fatto di essere un cittadino ma un lavoratore, mettendo dunque ai margini proprio i più bisognosi.

Va ricordato che già prima della 833 venivano collocate le premesse appunto della riforma con altri provvedimenti. Dieci anni prima, nel 1968, la legge Mariotti trasformò gli ospedali in enti ospedalieri, sottraendoli dunque ad una logica di tipo assistenziale o di beneficenza o peggio ancora caritatevole. Nel 1977 toccò agli enti mutualistici essere messi in liquidazione quali gestori di attività sanitarie. I principi cardine del nuovo sistema sanitario italiano erano dunque tre e tutti molto avanzati: l’universalità, cioè aveva l’ambizione di garantire la salute a tutti; l’unificazione perché un solo contributo copriva l’insieme dei rischi; e infine l’uniformità perché garantisva le stesse prestazioni a tutti, senza discriminazione alcuna.

Questa grande conquista arrivava dopo una straordinaria stagione di lotte per i diritti civili e sociali che il Paese non aveva mai conosciuto prima e, dobbiamo dire, anche dopo, quando si scatenò quella che possiamo definire una vera e propria controriforma ancora in atto. Sulla sanità ricordiamo l’approvazione della legge sull’interruzione di gravidanza, la 194, e quella sulla psichiatria, la 180/78, meglio conosciuta come legge Basaglia, che chiuse gli ospedali psichiatrici. Malgrado gli indiscussi vantaggi che la riforma portò a tutti i cittadini, e che ancora adesso malgrado tutto possiamo verificare, le difficoltà nell’applicare la 833 non mancarono e furono sostanzialmente di due ordini: uno pratico, ma in realtà anche politico, che riguardava la programmazione e la riorganizzazione della rete dei servizi e la necessità di eliminare il capitolo drammatico degli sprechi che caratterizzò tutta la storia della sanità italiana e divenne lo spunto per dare spazio ai privati. Senza dimenticare l’ostilità di una fetta consistente della classe medica, che vedeva messi in discussione con la riforma antichi privilegi.
Gli enti mutualistici soppressi portarono poi all’interno dei bilanci della sanità pubblica un’eredità pesante a causa di buchi ingenti di carattere finanziario. Così dopo solo tre mesi dall’approvazione della 833 venne introdotta la cosiddetta “tassa sulla salute” oltre che ad una serie di ticket sui farmaci e sulle prestazioni sanitarie. Il concetto di sanità pubblica e gratuita veniva così minato, sia pure parzialmente, praticamente fin dall’inizio. Ascoltando le affermazioni dell’epoca, «una spesa sanitaria improduttiva quando va bene e fonte di spreco e di sperpero quando va male», sembra di sentire i politici di oggi che puntano l’indice contro le risorse ingenti che vengono stanziate per la sanità, di solito inferiori a quelle degli altri paesi europei. Anche allora si dicevano le stesse cose. Peccato che l’Italia stanziasse in quegli anni per la sanità il 6% del Pil contro il 10% degli Stati Uniti e l’8% della Germania.
Queste cifre e il fatto che molte regioni riuscirono a raggiungere risultati eccellenti coniugando conti in ordine ed efficienza non riuscirono a frenare il tentativo di emulare quello che stava succedendo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Cominciava così, e questo fu il secondo grande problema, l’era dell’aziendalizzazione della sanità italiana già annunciata nel 1987 dal ministro Carlo Donat Cattin, che cominciò a ridurre i posti letto, le assunzioni e il numero delle stesse Usl. Il cambiamento più radicale avvenne però il 23 ottobre del 1992, quando fu approvata la legge 421 che “delega al Governo la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”. Le Usl divennero Asl, appunto aziende, con tanto di personalità giuridica e direttore generale alla guida. Anche gli ospedali vennero aziendalizzati e vennero istituzionalizzate nuove forme di assistenza integrativa. Furono i decreti 502/92 o decreto De Lorenzo, e il 517, o decreto Garavaglia, a favorire l’introduzione massiccia del mercato nella sanità pubblica, fino ad equiparare il sistema privato a quello pubblico. Di fatto l’articolo 32 della Costituzione poteva essere ormai considerato disatteso o modificato senza passare per la procedura prevista dall’articolo 138 della stessa Carta Costituzionale.

Da allora fu un susseguirsi di decisioni che avevano come obiettivo quello di ridurre le spese, introdurre nuovi tickets, favorire l’attività privata dei medici – tranne il caso di Rosy Bindi che li obbligò a scegliere tra pubblico e privato – sottoporre al vincolo di bilancio l’attività delle Asl e trasformare i medici in veri e propri manager che dovevano appunto lavorare con criteri aziendalistici. Il titolo V della Costituzione, introdotto nel 2001 dal centrosinistra, diede più potere alle Regioni le quali aprirono le porte alla privatizzazione più spinta e alla cancellazione delle piccole strutture territoriali a favore delle attività ultraspecialistiche dei grandi ospedali e delle assicurazioni. L’ultima ciliegina sulla torta è quella che ci sta regalando il governo Monti con questi nuovi ulteriori tagli. “Spending review: per riqualificare la spesa o per tagliare ancora sanità e welfare?” si chiede retoricamente la Cgil.

La risposta è ovvia anche se il governo dei tecnici cerca di convincere gli italiani che si tratterà di una razionalizzazione. La verità è che si tratta di un’altra brutta spallata all’edificio costituzionale costruito nel 1947. Un ulteriore svuotamento dei contenuti della massima legge dello Stato, realizzato con la complicità del principale partito del centro-sinistra e contro il quale c’è ancora troppo poca opposizione anche da parte dei sindacati che pure a parole denunciano la gravità di quanto sta avvenendo.

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