Scritta da Marx ed Engels fra il 1845 e il 1846, ma pubblicato solo postuma nel 1932, l’Ideologia tedesca è una critica minuziosa del modo di ragionare dell’intelligentsia germanica di allora, tacciata di ingenuo idealismo.
Quella ricostruzione era un po’ semplicistica
(e ultrapolemica), non v’è dubbio. E tuttavia è interessante che oggi,
quasi due secoli dopo, l’Europa si trovi di nuovo a fare i conti con una
variante dell’ideologia tedesca, questa volta sotto forma di un
complesso di idee sulla crisi economica e i modi per uscirne. Idee che
vengono attribuite alla cancelliera tedesca Angela Merkel, ma che in
realtà sono condivise (o subite?) dalle autorità europee e, in Italia,
sono sostanzialmente accettate dal governo tecnico guidato da Mario
Monti.
Qual è il nucleo dell’ideologia tedesca oggi? Il
nucleo dell’ideologia tedesca è la credenza che esista qualcosa come la
“virtù fiscale” di un paese, e che – se funzionano a dovere – i mercati
finanziari debbano premiare tale virtù. Al centro della virtù si trova
un solo criterio fondamentale: il deficit pubblico previsto per un dato
paese nell’anno in corso e in quelli immediatamente successivi. Se un
paese si avvicina rapidamente al pareggio di bilancio è virtuoso, se ne
resta lontano o vi si avvicina troppo lentamente è vizioso.
Di tale credenza esistono innumerevoli testimonianze,
dirette e indirette. I leader europei passano una notevole quantità del
loro tempo a lodare gli “sforzi” dei paesi che cercano di rimettere a
posto i loro bilanci pubblici, talora arrivando a definire
“impressionanti” i passi avanti fatti dai governi nel tentativo di
risanare le finanze pubbliche. E un tempo altrettanto notevole lo
dedicano a proclamarsi stupiti, contrariati, amareggiati, se non offesi,
ogni qual volta le agenzie di rating o i mercati finanziari sembrano
non apprezzare tanto sfoggio di virtù.
È questo, ad esempio, che è successo pochi giorni fa quando
l’Italia è stata declassata da Moody’s, suscitando l’immediata e
stizzita reazione del governo («siamo virtuosi e i mercati ci
puniscono», è stato il grido di dolore dei ministri). Ed è questa la
base teorica della proposta (tuttora in alto mare) di congegnare uno
scudo anti-spread, capace di intervenire ogniqualvolta i mercati
sbagliano le loro valutazioni e chiedono interessi troppo alti a un
paese virtuoso, ossia ben avviato sulla strada del risanamento. Per non
parlare dei recenti tentativi (Banca d’Italia e Confindustria) di
dimostrare che i mercati sono in errore, e che se facessero bene i conti
scoprirebbero che i nostri fondamentali non sono poi così malaccio e si
accontenterebbero di uno spread 200 o 300 punti più basso.
Insomma, il nucleo dell’ideologia tedesca è la pretesa della politica
di sapere quali siano i “fondamentali” economici di cui i mercati
dovrebbero tenere conto, una pretesa da cui discende l’idea di
correggere il giudizio dei mercati. E si noti che questa visione delle
cose, che dà un’enorme importanza al deficit e vede i mercati finanziari
come soggetti incapaci di riconoscere la virtù fiscale, non distingue
la Merkel da Monti, ma li accomuna profondamente. È vero che nella
Merkel c’è un di più di moralismo anti-cicale, cioè una volontà punitiva
nei confronti dei Pigs, ma la teoria di base è la medesima: portare il
bilancio pubblico in pareggio, costi quel che costi, e se i mercati non
apprezzano gli sforzi di un paese-pierino, ossia di un paese che ha
fatto tutti i “compiti a casa” che l’Europa gli ha assegnato, sostenere
artificialmente il paese-pierino.
La differenza fra Merkel e Monti,
in fondo, è solo che la cancelliera tedesca vorrebbe che i paesi che
hanno bisogno di esser aiutati, sostenuti o salvati fossero obbligati a
chiederlo esplicitamente, nonché ad accettare un commissariamento più o
meno blando, mentre il nostro premier – come il premier spagnolo –
comprensibilmente preferisce la filosofia di Denim, o dell’uomo “che non
deve chiedere mai”.
Tutto questo è perfettamente logico, perché rientra negli interessi nazionali dei nostri Stati. L’interesse dell’Italia è di non diventare una provincia della “Grande Germania”, come ora viene chiamata la costellazione dei paesi virtuosi del Nord. La Merkel, a sua volta, ha tutto l’interesse a tirare la corda finché può, perché euro debole e spread alle stelle significano più esportazioni, zero interessi sul debito pubblico tedesco, molto più potere della Germania in Europa.
Tutto questo è perfettamente logico, perché rientra negli interessi nazionali dei nostri Stati. L’interesse dell’Italia è di non diventare una provincia della “Grande Germania”, come ora viene chiamata la costellazione dei paesi virtuosi del Nord. La Merkel, a sua volta, ha tutto l’interesse a tirare la corda finché può, perché euro debole e spread alle stelle significano più esportazioni, zero interessi sul debito pubblico tedesco, molto più potere della Germania in Europa.
Quel che colpisce, tuttavia, è l’adesione massiccia dei media
e dell’establishment economico all’ideologia tedesca, ossia a una
visione moralistico-idealistica del funzionamento dei mercati. Pensare
che esista una virtù fiscale, che essa possa essere definita dalla
burocrazia politica di Bruxelles, e che mercati ben funzionati
dovrebbero premiare tale virtù, è una credenza così ingenua che si
stenta a capire come abbia fatto a divenire così diffusa.
La realtà, ahimé, è molto più prosaica.
I mercati, in momenti particolari e per brevi periodi, possono anche
muoversi secondo logiche irrazionali (panico) o iper-razionali
(speculative), ma nel medio periodo operano secondo una visione del
rischio che è tutt’altro che priva di logica, o di ancoramento ai
fondamentali. Il vero problema è che il calcolo dei mercati non si
svolge secondo gli stessi parametri con cui l’ideologia tedesca
definisce la virtù fiscale. Per i mercati finanziari quel che conta non è
la virtù degli Stati, ma la probabilità che i debiti vengano ripagati
interamente allo loro scadenza. E tale probabilità dipende poco dal
deficit corrente, molto dall’entità del debito pubblico detenuto da
investitori esteri, moltissimo dalle prospettive di crescita. È per
questo che i paesi più puniti dai mercati non sono quelli con i deficit
più alti, bensì quelli con crescita negativa.
L’Italia, purtroppo, fa parte di questo secondo gruppo,
insieme a Grecia, Spagna e Portogallo. E se ne fa parte lo deve certo
agli errori del passato, alla congiuntura internazionale, all’incertezza
delle autorità europee, alle rigidità della Merkel. Ma non si può
escludere che lo debba anche al modo in cui il governo tecnico ha
interpretato i “compiti a casa” dell’Europa. Perché se la decrescita del
Pil spaventa i mercati finanziari, aver fatto una manovra che – per
raddrizzare il deficit – provoca precisamente tale decrescita, potrebbe
essere stato un errore fatale. È possibile, in altre parole, che quel
che è successo negli ultimi due mesi sui mercati finanziari sia successo
non solo nonostante Monti (sicuramente più capace e credibile di
Berlusconi), ma anche a causa di Monti, ossia grazie a una manovra che –
comprimendo il reddito disponibile e aumentando gli oneri che gravano
sui produttori – ha sensibilmente aggravato la recessione, e per questa
via ha reso più vulnerabili le nostre finanze pubbliche.
Non sarà né bello né edificante,
ma la realtà effettuale è che i mercati non ragionano come i tecnocrati
europei, né si curano delle loro definizioni della virtù. I mercati non
aderisono all’ideologia tedesca, né sono ossessionati dal deficit
quanto pare esserlo Angela Merkel. I mercati, semmai, paiono ragionare
secondo il motto di Margaret Thatcher, la più anti-europea fra i grandi
leader del continente: “I want my money back”.
Nota. Chi volesse
rendersi conto dal vivo di come funziona l’ideologia tedesca può, ad
esempio, leggere l’intervista rilasciata dieci giorni fa al Corriere
della Sera da Peter Bofinger, uno dei “cinque saggi” economisti della
cancelliera Angela Merkel (“Roma ha ragione, serve uno scudo europeo contro la speculazione”, 13-7-2012).
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