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i limiti del decreto appena varato sull'occupazione giovanile. Perchè a
scoraggiare le assunzioni non sono solo il costo del lavoro o il cuneo
fiscale ma soprattutto le prospettive di vendita. E senza domanda
aggiuntiva le imprese non creeranno occupazione aggiuntiva
“Ora
tocca alle imprese che possono assumere giovani”. Questa l’opinione
del Presidente Letta dopo il varo del decreto sull’occupazione
giovanile e a conclusione del vertice europeo. Questo riferimento alle
responsabilità delle imprese è divenuto una parola d’ordine dei
principali esponenti politici nei giorni successivi.
Ai provvedimenti oggetto del decreto giovani, annunciati con molta
enfasi, vanno mosse alcune obbiezioni di un certo rilievo. La prima è
che stiamo parlando non di circa 800 milioni di euro, ma di 200 milioni
all’anno, il valore di qualche centinaio di appartamenti. La seconda è
che non è chiaro come si arrivi a stabilire questa spesa, visto che
molti dei provvedimenti non prevedono fondi chiusi, esauriti i quali i
provvedimenti non vengono più concessi o vanno rifinanziati (ciò che,
incidentalmente, dovrebbe sollevare ulteriori obbiezioni dal punto di
vista della affidabilità della previsione di spesa e, quindi, della
copertura). La terza è che tutti i riferimenti agli aspetti formativi
sono vaghi e non sembrano fare i conti con lo stato attuale della
capacità di fare formazione professionale in Italia. La quarta infine,
sulla quale intendo qui aprire delle riflessioni, riguarda l’enfasi,
sbagliata, posta nei richiami alle responsabilità delle imprese nel
determinare il successo della strategia governativa.
Queste riflessioni sono importanti perché si annunciano ulteriori
provvedimenti che dovrebbero essere meglio delineati in una ulteriore
riunione dei ministri del lavoro europei.
Si sa già, comunque, che essi prenderanno spunto dalle migliori
pratiche che vengono seguite in Europa (attenzione: non tutti i paesi
hanno eguali contesti nei quali ha senso inserire le best practices;
si pensi solo alle differenze che riguardano l’apparato formativo) e
si baseranno anch’essi sulla “presa in carico” da parte del soggetto
pubblico dei giovani che cercano lavoro, non appena superate certe
soglie che riguardano la durata della disoccupazione e alcune
condizioni soggettive. Presa in carico che non significa
schematicamente “assunzione pubblica”, ma solo assunzione di
responsabilità nei confronti dei giovani, impegno a fare qualcosa per
essi; qualcosa che – lo dico subito – considero un fatto estremamente
positivo, un recupero di decenza nei rapporti tra Stato e cittadini.
Se manca domanda aggiuntiva le imprese non hanno ragione di creare occupazione aggiuntiva
Il problema che val la pena di porre è un altro, riguarda i
provvedimenti già decisi e ha a che fare con l’opinione del Presidente
Letta. È chiaro che le imprese “possano” assumere i giovani. Hanno
sempre “potuto” farlo. A maggior ragione potranno farlo ora se le
misure saranno adeguate e di conseguenza i giovani costeranno meno
degli altri lavoratori. Ma l’impedimento alle assunzioni non è – e
comunque non è solo – il costo del lavoro e il cuneo fiscale. A
scoraggiare le assunzioni sono le prospettive di vendita di ciò che
viene fatto produrre da chi viene assunto.
Pertanto, in presenza della stessa domanda attesa di prima dei
provvedimenti, il totale di quelli che verranno occupati non potrà che
restare invariato, mentre il minor costo del lavoro dei giovani non
potrà che portare ad una sostituzione di lavoratori in età matura o
anziana con lavoratori giovani, a meno che la produttività soggettiva
dei primi, dovuta all’esperienza, non compensi il minor costo dei
secondi. Si potrà quindi avere, se va bene, qualche giovane occupato in
più, compensato da qualche anziano in meno, con un modesto aumento
virtuale dei profitti di qualche impresa. La via maestra è quindi
quella dell’aumento della domanda. Se per il momento una tale strada
non può essere percorsa e se al contempo si vuole privilegiare, ma solo
aggiuntivamente, l’occupazione giovanile, la strada da percorrere è
più complessa.
Per chiarire in che senso ritorniamo per un momento sulla questione
generale della domanda. La domanda privata dipende da molte cose, tra
le quali il reddito conseguito dai privati e le imposte che su di essi
gravano; la domanda totale dipende anche da investimenti, spesa
pubblica ed esportazioni. L’aumento dell’occupazione totale dipende
quindi dal gioco di queste componenti e dei loro effetti. Tali effetti
sono connessi ai famigerati “moltiplicatori”, quelli che, secondo i
ripensamenti di Blanchard e dell’Fmi, erano stati mal stimati, tanto da
portare ad un eccesso di austerità fiscale di cui ha fatto la massima
spesa la Grecia, seguita dagli altri paesi mediterranei.
“Moltiplicatori” vuol dire che gli effetti sulla produzione di ogni
euro sottratto o aggiunto tramite il bilancio possono essere e sono
diversi a seconda dell’uso che si faceva dell’euro sottratto e si fa di
quello aggiunto. Va ulteriormente chiarito che l’eventuale aumento
della domanda complessiva è fatto dall’aumento di tante domande
specifiche diverse. A parità di effetti sulle specifiche domande che
vengono attivate dalle azioni di bilancio, gli effetti sull’occupazione
sono diversi a seconda della quantità di lavoro che deve essere usata
per soddisfarle.
Il problema è: alla luce di quanto appena chiarito è possibile
attendersi effetti occupazionali aggiuntivi usando solo strumenti che
agiscono dal lato dell’offerta (costo del lavoro), come nelle strategie
del decreto appena pubblicato e come indicato dal Presidente Letta?
Vediamo.
Occorre saldare produzioni aggiuntive a occupazione aggiuntiva
Praticare le politiche per l’occupazione prospettate comporta spesa.
Questa potrebbe avere riflessi sulla domanda, a meno che non venga
compensata da maggiori imposte. Tuttavia il problema ulteriore non è
solo quali possano essere gli effetti netti sulla domanda complessiva,
bensì gli effetti sulle domande specifiche che dovrebbero andare a
stimolare la produzione proprio di quelle imprese che hanno –in
ipotesi- assunto aggiuntivamente (e non sostitutivamente) i giovani
(cosa praticamente impossibile da determinare). Non è questa quindi la
strategia da perseguire se si vuole evitare che incentivando
l’assunzione di giovani si finisca per portare solo ad una
discriminazione tra lavoratori.
Ciò che occorre è invece usare le poche risorse a disposizione per
concepire insieme un piano che colleghi specifiche produzioni aggiuntive
a occupazione giovanile aggiuntiva. Qualcosa cioè che emuli, in un
contesto moderno e di mercato, ciò che avveniva in società contadine o
feudali, dove il lavoro veniva usato flessibilmente, per ruoli,
professionalità e stagionalità, per fare le cose che servivano.
Questo è possibile solo collegando gli interventi per i giovani a
progetti finanziati pubblicamente e realizzati aggiuntivamente. Gli
estremi di base per concepire e sviluppare questa strategia di azione
sono contenuti nel Piano del Lavoro della Cgil (www.lavoce.info/wp-content/uploads/2012/09/Piano_Del_Lavoro_CGIL_gen13.pdf), soprattutto nelle pagine 5 e 11-12.
Si tratta di mere indicazioni di metodo, da usare per pervenire
rapidamente ad ideare e valutare progetti specifici. È probabile che
molti progetti, magari predisposti ad altri scopi, siano disponibili
presso amministrazioni centrali e locali, soprattutto nel campo della
manutenzione del territorio e nella conservazione del patrimonio
artistico.
Quanto ai progetti, quello che occorre evitare è che si determini
uno stallo nella selezione dei progetti da finanziare, che scattino
operazioni a controllo clientelare o mafioso, che si perda troppo tempo
in situazioni di contenzioso territoriale o settoriale. Problemi non
da poco, come si può immaginare, ma certamente superabili. Superabili,
certo, ma a patto di comprendere che questi sono i nodi problematici,
non altri.
Progetti aggiuntivi e durata dei rapporti di lavoro
Vi è infine un ultimo equivoco da chiarire. Le misure del decreto
tendono con chiarezza a favorire i contratti a tempo indeterminato da
parte delle imprese. Ben vengano, nei limiti già chiariti. Se tuttavia
si sceglie di realizzare i progetti che creano occupazione nella misura
in cui producono tutela, conservazione e valorizzazione del territorio
o del patrimonio artistico (tanto per esemplificare), allora occorre,
almeno in una prima fase, lasciar cadere la propensione a favore dei
contratti a tempo indeterminato. Ciò va detto con chiarezza e con
altrettanta chiarezza va detto che non bisogna ripetere l’esperienza
della stabilizzazione dei giovani che vennero a suo tempo coinvolti nei
“lavori socialmente utili”. Se si connette, come qui indicato, la
maggiore occupazione giovanile alla attivazione di specifici progetti
nel territorio, ha senso solamente premiare le assunzioni in relazione
alla realizzazione dei progetti.
Al contempo va chiarito che la realizzazione dei progetti non
implica necessariamente occupazione diretta nel settore pubblico; i
lavori relativi possono in tutto o in parte essere affidati a soggetti
privati (imprese, cooperative, ecc.) con apposite commesse, ma sarebbe
contraddittorio prescrivere ai soggetti privati che ricevono commesse
legate al progetto che assumano a tempo determinato.
L’uso di contratti a tempo indeterminato aveva senso nel Piano del
Lavoro solo perché quel Piano puntava ad un cambiamento complessivo e
permanente della politica della domanda e della politica industriale,
associato ad un impegno di spesa rilevante e ad una ristrutturazione
della spesa stessa ancor più rilevante. Qui stiamo parlando, purtroppo,
di ben poche risorse, qualcosa che può servire solo ad una primissima
sperimentazione di taluni frammenti di quanto era stato concepito nel
più ambizioso Piano del Lavoro. L’incentivazione alla stipulazione di
contratti di lavoro a tempo indeterminato deve essere perseguita, ma
non velleitariamente. Il processo non può che avvenire di fatto,
attraverso la manifestazione di una intenzione seria di continuare a
finanziare le tipologie di progetto/intervento cui si è fatto cenno,
trasformandole progressivamente in linee di azione permanente.
La propensione a stipulare contratti a tempo indeterminato, in altri
termini, non può che derivare dal prevalere, presso le aziende
private, di aspettative di espansione stabile a medio e lungo termine.
Del resto si tratta solo di ripercorrere in forma diversa il passato.
Storicamente parlando infatti il passaggio dal prevalere di rapporti di
lavoro precari (si pensi alle assunzioni al cancello della fabbrica o
della miniera) a rapporti permanenti è avvenuto per il diffondersi di
aspettative espansive relativamente stabili ed insieme a seguito della
scoperta, da parte delle imprese più moderne ed efficienti dell’inizio
del secolo scorso, della convenienza, in termini di incentivi e di
produttività, ad avere lavoratori stabili (penso ai c.d. “mercati
interni del lavoro”, ai fenomeni di evoluzione delle relazioni
industriali analizzati da Clark Kerr in Industrialism and Industrial Man del 1964 e a quelli, catturati nel 1962 dal famoso articolo di Oi, “Labor as a quasi fixed Factor”).
È per questo che trovo che confondere le acque vincolando gli
incentivi alla stipulazione di contratti a tempo indeterminato mi
sembra inutile nelle presenti circostanze e poco più che ordinaria
demagogia.
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