La
domanda è: fino a dove riuscirà a spingersi il Pd – senza deflagrare –
nella mefistofelica alleanza che lo lega con un nodo scorsoio al partito
di Berlusconi o, per dire le cose più appropriatamente, alla miserabile
corte che ne interpreta le pulsioni più innominabili? La risposta è:
almeno tendenzialmente, fino alla propria dissoluzione.
Ognuno può vedere come ad ogni snodo politico di qualche significato (seppure ve ne sono in questa palude politica che tutto digerisce) il Pd vacilli, dia la sensazione di essere lì per esplodere: le sue cento anime si scontrano e i suoi rissosi capibastone si contraddicono, talvolta si insultano. Ma poi la polemica, anche quella apparentemente più aspra, si attenua, la lite si ricompone e tutto svanisce senza capire bene quale sia il vero oggetto del contendere. Mentre da palazzo Chigi sale come un mantra la laconica frase: “Tranquilli, si va avanti, il governo non è a rischio”. Il governo, appunto, quello presieduto dal ciarliero quanto impotente Enrico Letta, giustifica tutto. Ad esso, alla sua sopravvivenza, il più a lungo possibile e costi quel che costi, si è immolato il Pd, per quella sciagurata via instradato dal principale ispiratore delle “larghe intese” che siede ineffabile al Colle.
Ognuno può anche vedere come non siano le fibrillazioni politiche a buttare all’aria il castello di carte della poi non così strana alleanza: non l’Imu, non l’Iva, non le politiche fiscali, non i drammi del lavoro, non le politiche dell’immigrazione, non le folli spese militari, non le riforme istituzionali o la legge elettorale più infame che ci sia; men che meno i patti iugulatori che hanno espropriato di ogni sovranità il parlamento ed inchiodano il Paese alla più autolesionistica politica recessiva. Ebbene, nulla di tutto questo rappresenta, in ultima istanza, una ragione di rottura insanabile fra i due schieramenti che si fingono reciprocamente antagonistici ma che, al netto dell’inessenziale, trovano più punti di convergenza che di dissenso.
L’imprevisto – per fortuna la Storia ne è piena – viene dall’esterno dei competitors. Viene dalla magistratura, cioè da un potere (ancora) indipendente, che agisce in forza della legge e che può rompere le uova nel paniere agli ‘inciucisti’ di ogni risma, coloro che posseggono la golden share tanto del Pd quanto del Pdl.
La Corte di Cassazione, fra meno di venti giorni, concluderà la prima tappa della road map giudiziaria di Berlusconi. Se la sentenza Mediaset sarà confermata, il Cavaliere varrà come un cane morto. Solo un salvacondotto offertogli dalla maggioranza dei senatori potrà salvarlo dall’interdizione dai pubblici uffici. Ma un simile capitombolo del Pd o altre diavolerie ad personam che sortissero lo stesso effetto, in qualunque modo motivate, equivarrebbero al suicidio politico dei Democrat, un marchio d’infamia indelebile che trascinerebbe il Paese in una crisi democratica molto profonda.
Viceversa, al Pd si offrirebbe una sia pure immeritata opportunità di ravvedimento politico. Certo, imposto dalle circostanze, non desiderato, strategicamente non meditato, estraneo ad una cultura politica ormai docilmente insediata nei cardini del pensiero liberale e dunque esposto ad esiti imprevedibili. Eppure un’opportunità si aprirebbe, favorita dalla separazione dei propri destini da quello di Berlusconi e del centrodestra, da un folle consociativismo reazionario che ha sfibrato il Paese distruggendo ogni legame solidaristico.
A costruire più solidi argini e a delineare un’altra via d’uscita servirebbe poi la spinta propulsiva di un movimento sindacale che da tempo ha atrofizzato ogni muscolo ed il protagonismo di una classe lavoratrice ormai così sola da avere smarrito anche il senso di sé. E servirebbe un partito che avesse in essa le proprie radici, per dare corpo ed anima ad un altro progetto di società. Ma questo è esattamente ciò che da troppo tempo manca e che chiama in causa le nostre responsabilità.
Ognuno può vedere come ad ogni snodo politico di qualche significato (seppure ve ne sono in questa palude politica che tutto digerisce) il Pd vacilli, dia la sensazione di essere lì per esplodere: le sue cento anime si scontrano e i suoi rissosi capibastone si contraddicono, talvolta si insultano. Ma poi la polemica, anche quella apparentemente più aspra, si attenua, la lite si ricompone e tutto svanisce senza capire bene quale sia il vero oggetto del contendere. Mentre da palazzo Chigi sale come un mantra la laconica frase: “Tranquilli, si va avanti, il governo non è a rischio”. Il governo, appunto, quello presieduto dal ciarliero quanto impotente Enrico Letta, giustifica tutto. Ad esso, alla sua sopravvivenza, il più a lungo possibile e costi quel che costi, si è immolato il Pd, per quella sciagurata via instradato dal principale ispiratore delle “larghe intese” che siede ineffabile al Colle.
Ognuno può anche vedere come non siano le fibrillazioni politiche a buttare all’aria il castello di carte della poi non così strana alleanza: non l’Imu, non l’Iva, non le politiche fiscali, non i drammi del lavoro, non le politiche dell’immigrazione, non le folli spese militari, non le riforme istituzionali o la legge elettorale più infame che ci sia; men che meno i patti iugulatori che hanno espropriato di ogni sovranità il parlamento ed inchiodano il Paese alla più autolesionistica politica recessiva. Ebbene, nulla di tutto questo rappresenta, in ultima istanza, una ragione di rottura insanabile fra i due schieramenti che si fingono reciprocamente antagonistici ma che, al netto dell’inessenziale, trovano più punti di convergenza che di dissenso.
L’imprevisto – per fortuna la Storia ne è piena – viene dall’esterno dei competitors. Viene dalla magistratura, cioè da un potere (ancora) indipendente, che agisce in forza della legge e che può rompere le uova nel paniere agli ‘inciucisti’ di ogni risma, coloro che posseggono la golden share tanto del Pd quanto del Pdl.
La Corte di Cassazione, fra meno di venti giorni, concluderà la prima tappa della road map giudiziaria di Berlusconi. Se la sentenza Mediaset sarà confermata, il Cavaliere varrà come un cane morto. Solo un salvacondotto offertogli dalla maggioranza dei senatori potrà salvarlo dall’interdizione dai pubblici uffici. Ma un simile capitombolo del Pd o altre diavolerie ad personam che sortissero lo stesso effetto, in qualunque modo motivate, equivarrebbero al suicidio politico dei Democrat, un marchio d’infamia indelebile che trascinerebbe il Paese in una crisi democratica molto profonda.
Viceversa, al Pd si offrirebbe una sia pure immeritata opportunità di ravvedimento politico. Certo, imposto dalle circostanze, non desiderato, strategicamente non meditato, estraneo ad una cultura politica ormai docilmente insediata nei cardini del pensiero liberale e dunque esposto ad esiti imprevedibili. Eppure un’opportunità si aprirebbe, favorita dalla separazione dei propri destini da quello di Berlusconi e del centrodestra, da un folle consociativismo reazionario che ha sfibrato il Paese distruggendo ogni legame solidaristico.
A costruire più solidi argini e a delineare un’altra via d’uscita servirebbe poi la spinta propulsiva di un movimento sindacale che da tempo ha atrofizzato ogni muscolo ed il protagonismo di una classe lavoratrice ormai così sola da avere smarrito anche il senso di sé. E servirebbe un partito che avesse in essa le proprie radici, per dare corpo ed anima ad un altro progetto di società. Ma questo è esattamente ciò che da troppo tempo manca e che chiama in causa le nostre responsabilità.
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