La preparazione di Genova 2001, la protesta,
il dopo G8... Di seguito, un articolo che ricostruisce in modo puntuale
quanto accaduto negli ultimi anni, partendo dai processi.
* Comune-info.net
I commenti che sta suscitando la sentenza della cassazione sulla Diaz
dimostrano almeno un fatto: il G8 di Genova non si può derubricare a
una questione giudiziaria. Ma ora che lo stanno scrivendo anche i
maggiori quotidiani italiani c’è un rischio: quello di dare le risposte
sbagliate alle tante domande che si stanno ponendo all’attenzione
dell’opinione pubblica. E allora tanto vale chiarirne qualcuna e usare
nomi e cognomi.
Intanto sulla famigerata commissione d’inchiesta bocciata durante il
governo Prodi. Fu discussa e votata dalla commissione Affari
costituzionali il 30 ottobre del 2007. Non passò perché dei 45 membri
presenti, votarono in 44: 22 a favore e 22 contro. E dalla maggioranza
si sfilarono i radicali e socialisti Cinzia Dato e Angelo Piazza
(assenti, ma non rimpiazzati), Carlo Costantini dell’Idv che votò no
come Francesco Adenti (Udeur). L’altro Idv Massimo Donadi era assente.
Di Pietro giustificò questo
voto dicendo che era una commissione a senso unico contro la polizia,
Mastella perché non l’aveva visto nel programma dell’Unione (falso: era a
pagina 77). Quello che nessun commentatore ha sottolineato è che la
differenza la fece il non voto del presidente della commissione: Luciano
Violante, allora democratici di sinistra ora Pd. Del resto cosa ne
pensasse l’ex presidente della camera era scritto nero su bianco in una intervista a La Stampa del
23 Giugno 2007 nel quale si dichiarava personalmente contrario. E il
motivo lo ha spiegato l’editoriale del 9 luglio di Marco Menduni su Il
Secolo XIX, unico quotidiano a scriverlo oltre al manifesto. Quella
commissione rischiava di mettere in imbarazzo sia il governo di destra
che l’opposizione di centrosinistra. Questo perché il G8 a Genova fu
deciso sotto il governo D’Alema e gestito dal governo Amato che nominò
De Gennaro capo della polizia il 26 maggio del 2000. Il governo Amato
ero lo stesso che gestì l’ordine durante il global forum di Napoli (che
anticipò quello che avvenne dopo a Genova). Insomma non è solo la destra
a dover dare risposte, come chiede Concita De Gregorio su Repubblica. Che poi da quelle parti ci siano state altre connivenze è poco ma sicuro.
Uno dei deputati più attivi al G8 fu Filippo Ascierto, ex
carabinieri, ovviamente di Alleanza nazionale. Il 5 giugno del 2001
intervistato da Repubblica disse,
riferendosi ai manifestanti che stavano preparando il contro vertice di
Genova: «Non dormano tranquilli perché noi li andremo a prendere uno
per uno». Quando il giornalista chiese a chi si riferisse con il «noi»
aggiunse «ho detto andremo perché mi sento ancora un carabiniere». E
ancora, è noto che Fini, allora vicepresidente del consiglio, fu
personalmente presente a Forte San Giuliano, nella sede operativa dei
Carabinieri. Lui disse per portare un saluto istituzionale, peccato che
si durò dalle 10 alle 16,30. E tutto questo fu accertato in una sede
istituzionale. Già perché prima della commissione d’inchiesta mai nata
ci fu una commissione di indagine con
tre relazioni finali (una di maggioranza, una di centrosinistra ed una
di rifondazione) che a rileggerle oggi contenevano già tutti gli
elementi per farsi un’idea di quello che era accaduto facendo delle
proposte. Per esempio in quella di Mascia (Prc) si
prendeva atto dell’impossibilità di riconoscere gli operatori di
polizia in piazza chiedendo l’introduzione di codici identificativi.
Cosa che è passata nel dimenticatoio. Per l’opposizione della destra?
Difficile crederlo visto che Claudio Giardullo, il segretario del Silp,
sindacato di polizia vicino alla Cgil, intervistato l’anno
scorso dal manifesto si dichiarava contrario a questo provvedimento
(«aumenta il rischio del singolo operatore») e perfino all’introduzione
del reato di tortura («un messaggio di sfiducia per la polizia»), mentre
più di recente Giuseppe Corrado del Sap (vicino alla destra) dichiarava
a La Stampa «se lo Stato decidesse in questo senso non ci opporremo in
nessun caso». E a proposito del reato di tortura, fu discusso in
parlamento nel 2004 con una proposta bipartisan, ma poi si preferì non
fare nulla visto che fu approvato a maggioranza un emendamento
dell’onorevole Carolina Lussana, della Lega, che definiva tortura solo
il comportamento reiterato con il paradosso che che se fosse stato fatto
una solva volta o più volte nei confronti di più persone non
susisterebbe.
Oggi diverse proposte giaciono nei cassetti e del resto cosa ne
pensasse uno dei massimi esponenti della Lega fu chiaro nel 2008 quando
Repubblica intervistò Roberto
Castelli, all’epoca di Genova ministro della giustizia in visita al
carcere di Bolzaneto, disse che tenere in piedi le persone per ore non
era tortura: perché «i metalmeccanici stanno in piedi otto ore al giorno
e non si sentono umiliati e offesi». Per fortuna si può ancora
sostenere l’appello sul
sito di Amnesty international. Eppure quella non è stata l’unica voce
isolata in tutto questo tempo. Il Comitato Verità e Giustizia che oggi chiede le dimissioni di Manganelli e De Gennaro aveva chiesto tutte queste cose sia al presidente della Repubblica Napolitano che ai segretari del centrosinistra Bersani,
Di Pietro, Bonelli e Vendola. Risposte? Nessuna. Eppure perfino il
procuratore generale di Genova, Luciano Di Noto, aveva chiesto a
suo tempo scuse e dimissioni per una situazione che non è certo
circoscritta solo alla vicenda Diaz. Uno degli avvocati delle parti
civili al processo Diaz, Emanuele Tambuscio, ha calcolato che
ci sono altre 9 condanne nella polizia passate in giudicato per falso e
calunnia, mentre su altri processi che sono in corso o devono partire
incombe la prescrizione.
Se su tutti questi fatti oggi abbiamo un po’ di verità non è certo
per la maggioranza dei media nazionali che oggi si stracciano le vesti
sulle responsabilità della politica. Se i processi sono andati in un
certo modo è stato grazie al lavoro di decine di attivisti che con il
lavoro del supporto legale hanno
fornito materiali audio video agli avvocati delle parti civili e alla
magistratura. Oggi tutti quei materiali sono fruibili in rete e hanno
smentito tutte le ricostruzioni più mistificatorie sentite in questi
anni. Della Diaz abbiamo delle immagini grazie al fatto che le
videocamere di Indymedia erano posizione nel palazzo di fronte ed hanno
potuto riprendere la scena dell’irruzione che ha smentito le
ricostruzioni della polizia (il Tg5 di Mentana lo mandò in onda qualche
tempo dopo oscurando il logo del network). Filmati, foto e testimonianze
di giornalisti freelance sono stati il racconto in presa diretta che ha
prodotto decine di video e di libri ben
prima del film Diaz di Vicari e Procacci alimentando un dibattito nel
paese taciuto dai tv e giornali se non per qualche cronaca locale che
non ha mai raggiunto le prime pagine fino ad oggi. Molte delle
informazioni raccolte qui provengono da libri come “Genova nome per nome” di Carlo Gubitosa o “L’eclisse della democrazia”
di Lorenzo Guadagnucci e Vittorio Agnoletto che non hanno trovato
spazio su giornali blasonati né in trasmisioni come quelle di Fazio,
Dandini, ecc. E invece continua l’abitudine, tutta italiana, di
riportare commenti piuttosto che fatti.
Eppure, anche in queste ore, sarebbe stato troppo chiedere ai giornalisti che ne hanno riportato le parole di Paola Severino, ministro della giustizia, e quelle di Luigi Li Gotti, parlamentare Idv, sulla professionalità dei condannati di spiegare anche che sono stati avvocati difensori rispettivamente di Giovanni Luperi, Gilberto Caldarozzi e Francesco Gratteri?
Genova non è finita. Venerdì 13 ci sarà la sentenza per 10 ragazzi che rischiano 100 anni di pena complessivamente
in un processo che forse qualcuno vorrebbe far diventare una specie di
secondo tempo con pareggio per la vicenda Diaz. Una concezione indecente
per chiunque sostenga in buona fede le ragioni dello stato di diritto.
In questi giorni un altro tema è stato la richiesta di scuse da parte
delle istituzioni. Giuste, certo, ma accettarle o meno riguarda un piano
umano ed emotivo che avrebbe meritato parole migliori e gesti più
concreti che non si sono visti in questi 11 anni. Alle istituzioni,
invece, bisognerà porre un’altra domanda: «Come si potrà evitare altri
episodi come Genova per il futuro?». Oggi che la verità ottenuta con il
sacrificio di tante persone è diventata anche un pezzo di giustizia,
gran parte delle possibilità di trovare risposte dipenderanno dalla
capacità di chiedere conto del proprio operato a chi in quei giorni
aveva incarichi di responsabilità, a chi ha taciuto pur sapendo e a chi
sta ancora tacendo. Non generiche responsabilità politiche, ma
chiamandoli per nome e cognome. Altrimenti non avremo alibi se Genova
sarà l’ennesima pagina nera della storia di questo paese di un libro che
non si vuole chiudere.
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