Giorgio Cremaschi e il paradosso del presente: «Abbiamo il governo
socialmente più di destra della storia e poche lotte sociali» Cgil e Pd
incarnano un riformismo degli anni '80 e '90 ormai morto. Ma anche noi
siamo ancora troppo esitanti. «Monti non si emenda ci vuole il conflitto vero»
Francesco Piccioni, Il manifesto
Quale
futuro per il movimento dei lavoratori? Giorgio Cremaschi, presidente
del Comitato Centrale della Fiom, si è sempre posto da un punto di vista
originale. E anche stavolta non delude.
Il quadro legislativo sul mercato del lavoro è completamente mutato...
Il quadro legislativo sul mercato del lavoro è completamente mutato...
Trovo
delle terribili somiglianze con la Francia di Petain, all'inizio del
'40. La riduzione del danno, come oggi, era lo slogan anche di quei
tempi. Anche l'Italia è un paese occupato, per fortuna non militarmente,
da banche e finanza. E Monti è il rappresentante di questo potere.
Siamo di fronte a una crisi della democrazia senza precedenti, cui
corrisponde una passività senza consenso, una fuga dalla difesa dei
diritti di massa. C'è il governo socialmente più di destra della storia,
ma il conflitto sociale più basso della storia recente.
C'è una via d'uscita?
Non
può che essere la rottura con tutto questo modo di pensare, con il
petainismo sociale, politico, culturale; e porsi in sintonia con tutti
quei movimenti e forze che si mobilitano per rovesciare l'Europa delle
banche, non per emendarla.
Come si fa una «rottura» quando invece c'è una «passività di massa»?
Questo
è il lavoro di costruzione che devi fare, non si può dare colpa alla
gente. Lo scoramento enorme, che si traduce anhe nel voto di protesta a
Grillo - con cui peraltro bisogna misurarsi e discutere - richiede una
risposta innanzitutto da parte dei gruppi dirigenti. Siamo di fronte
alla fine di un trentennio di «concertazione sindacale» e alla crisi del
«riformismo» di centrosinistra. Entrambi sono morti che camminano.
Eppure le imprese avevano tratto grandi vantaggi dalla concertazione...
È
stata sostanzialmente uno scambio. Il concetto fondamentale era che si
rafforzava il ruolo politico e istituzionale del sindacato, che in
cambio consentiva il peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Sono
sempre stato totalmente critico su questo, proprio perché ha disgiunto
il destino del sindacato da quello dei lavoratori; originando la
burocratizzazione sindacale di questi anni. Fino all'inizio di questa
crisi avevamo la dinamica salariale peggiore dell'Ocse e i sindacati
organizzativamente tra i più forti dell'Ocse.
La spia che qualcosa non va...
Monti
la mette in discussione da destra, noi da sinistra. Lui ha bisogno di
mostrare che il sindacato viene umiliato, così lo «sconta» in borsa.
«Deve» peggiorare le condizioni dei lavoratori, e farlo in modo che si
veda. Non può fare come Padoa Schioppa nel 2006, che diceva: «siamo
d'accordo con la Thatcher, però ci mettiamo più tempo perché vogliamo
mantenere la concertazione». Monti è l'espressione del modello dello
spread, del rating, della finanza, della fine della sovranità nazionale e
anche della sostanziale eutanasia della nostra democrazia. Lui deve
poter dire: «ho umiliato i sindacati, quindi fate abbassare lo spread».
La concertazione è morta come il riformismo degli anni '80 e '90, cui
invece si aggrappa ancora il Pd.
Il fiscal compact toglie ogni margine al riformismo?
Possono
pensare alla sopravvivenza degli apparati per un po'. E trovare qualche
mezza vittoria elettorale finché dall'altra parte c'è una figura
sgonfia e superata come Berlusconi. Ma sono politiche che non portano da
nessuna parte perché accettano la subalternità all'occupazione
finanziaria. Non si può parlare di «centralità del lavoro», come fa
Fassina e la «sinistra del centrosinistra», se accetti il fiscal
compact.
Prevede vent'anni di tagli...
Si tratta di accettare che
il lavoro diventi una variabile totalmente dipendente dalla politica del
debito. Dietro il fiscal compact c'è l'idea della destra liberale alla
Draghi, che vuol distruggere il modello sociale europeo per ricostruire
la «competitività» dell'Europa con una società low cost. Fornero, Monti,
Marchionne sono la stessa identica cosa.
Come giudichi la reazione fin qui della Cgil?
Mi
pare evidente che agli occhi dei lavoratori il sindacato, la Cgil, ha
delle responsabilità gravissime. Il suo gruppo dirigente si è perso
senza combattere. Nel giro di 9 mesi c'è stata una serie di colpi: le
pensioni, l'art. 18, le tasse, ecc. C'è stata una «macelleria sociale»
senza nessuna visibile reazione, soprattutto senza nessuna capacità di
costruire una rottura e un'alternativa. Le battute in tv contro Monti o
Fornero diventano persino irritanti per un sindacato, se non corrisponde
loro nulla sul piano dell'iniziativa. Paradossalmente, il sindacato più
forte d'Europa è diventato il sindacato più inutile d'Europa. Agli
occhi dei lavoratori è una cosa terribile, perché aumenta la passività,
la voglia di arrangiarsi...
Ma la Fiom non è stata passiva...
La
Fiom è stata un punto di contrasto importantissimo. Due anni fa, il «no»
della Fiom a Pomigliano è stato un messaggio universale, non «di
fabbrica». Si era intuito che Marchionne era non il «dopo Cristo», ma
Giovanni Battista che annunciava l'avvento. Allora Bersani disse che
Pomigliano si poteva accettare purché fosse un eccezione; con la stessa
ottusità con cui oggi dice Monti può essere «solo una parentesi». Non è
così. Sono processi strategici contro cui bisogna costruire rottura e
alternativa. Ripeto: la Fiom l'aveva cominciata, però mi pare che abbia
rinunciato. Perché non si possono fare queste scelte come «emendamento»
al centrosinistra, senza porsi il problema di cambiare totalmente la
Cgil. Le scelte di rottura richiedono profondi cambiamenti di assetti
politici, gruppi dirigenti, linee di fondo. Credo che uno degli errori
fatti in quest'ultimo periodo dal gruppo dirigente sia quello di
lasciare «appese» le sue dichiarazioni di fondo e non trarne le
conseguenze sul piano delle scelte dentro la Cgil, sul piano dei
rapporti sociali con i movimenti. Forse riproduce un errore che è tipico
delle forze a sinistra del Pd. Che vogliono tutte essere «unitarie», ma
da sole.
Non cercano di fare fronte?
Bisognerebbe mettere assieme
un fronte di tutti coloro che sono a sinistra del Pd, che non accettano
più la concertazione sindacale e la «riduzione del danno». In Italia
non si è prodotto un fenomeno come Syriza perché, nei momenti di crisi,
l'aspetto soggettivo è decisivo. C'è ancora un'autoferenzialità in tutti
coloro che pure lottano, e che impedisce l'idea del fronte comune. E
c'è una parte non piccola di forze di sinistra, sociali e politiche, che
pensa ancora che si possa avere il cambiamento in alleanza con il Pd.
È possibile una polarità indipendente, politica e sindacale?
Sul
piano sindacale bisogna lavorare per la rottura con la politica di
questi trent'anni di concertazione e ricostruire una pratica
conflittuale, su un programma economico di fatto «anticapitalista».
Penso a una drastica riduzione di orario, a un investimento pubblico che
vuol dire metta mano alle banche... Un sindacato, se vuole ripartire,
deve avere un grande programma economico di rottura anticapalistica.
Penso che la stessa cosa debba avvenire a livello politico e che non si
può farlo insieme a chi accetta Monti.
Da Rete28aprile ora siete
Opposizione organizzata. Perché?
Per due cose: una è accentuare,
rispetto ad altri pezzi critici della Cgil, la pratica dell'opposizione.
Oggi chi non è d'accordo con la linea prevalente in Cgil deve essere
visibile, deve fare delle cose. I lavoratori devono sapere che c'è. C'è
un malessere profondo. Due giorni fa l'assemblea sul contratto della
gomma plastica, a Roma, è finita nel caos. Il gruppo dirigente di Cgil,
Cisl e Uil ha rifiutato tutti gli emendamenti che venivano dai luoghi di
lavoro, la gente ha abbandonato la sala... Quindi occorre ripartire con
una pratica in cui i lavoratori, i delegati, pesano e si organizzano.
Occorre una vera e propria autorganizzazione del dissenso Cgil. Secondo:
bisogna lavorare per l'unità di tutte le forze che non ci stanno con la
concertazione, dentro e fuori la Cgil, fra i movimenti sociali e i
sindacati di base, senza settarismi. Poi, c'è anche una questione di
carattere politico. Molti di noi fanno parte anche del movimento «No
debito». Pensiamo che, senza smanie elettorali, sia compito della
sinistra sindacale anche operare per costruire una sinistra politica
alternativa al Pd.
Tra la resistenza e la resa può esistere una via di mezzo?
Non
c'è. La resistenza è anche un progetto. Per esempio la riduzione
generalizzata dell'orario di lavoro, drastica, in tutta Europa, è il
solo modo per affrontare la disoccupazione di massa. Non ce ne sono
altri. Ma qui occorre riaprire il conflitto con il profitto. Non c'è
nessuna collaborazione possibile oggi con chi cerca di uscire dalla
crisi con il supersfruttamento del lavoro e ripristinando le condizioni
del profitto. L'altra linea, quella cui allude il gruppo dirigente di
Cgil e Cisl, l'«alleanza dei produttori» - Camusso e Squinzi contro
Monti - mi pare una linea in cui i lavoratori pagherebbero ancora dei
prezzi. Ma che non avrebbe nemmeno nessuna vera credibilità politica. E'
un percorso obbligato, il nostro; ma non vuol dire che ci si riesca
perché, purtroppo, il guasto economico e morale prodotto in questi
ultimi trent'anni è enorme.
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