Modigliani e l’inizio della fine del Pci
Il
dibattito economico odierno sulle possibili soluzioni per uscire dalla
crisi si concentra sull’utilità o meno di una riduzione dei salari.
Sebbene si citi spesso la frase di Marx (per cui la storia si ripete
come farsa), in questo caso la farsa è che questo dibattito si ripeta
ancora nel nostro paese. Infatti, durante la crisi degli anni ’70, lo
stesso dibattito ebbe luogo proprio in Italia, e vide confrontarsi il
futuro premio Nobel Franco Modigliani ed economisti eterodossi, molti
vicini al Partito Comunista Italiano. Proprio il dibattito sul livello
del salario nella crisi è un indicatore importante per misurare
l’orientamento delle varie posizioni politiche e il loro cambiamento
reale.
Modigliani: la riduzione del salario reale e il compito dei sindacati
Gli anni ’70 furono attraversati da diversi fenomeni economici. Da una
parte si concluse il ciclo di lotte cominciano nei decenni precedenti,
con la conquista di molti diritti, tra cui lo Statuto dei Lavoratori e
la scala mobile per i salari. Dall’altro l’Italia, come le altre
economie capitaliste fu colpita da una crisi di stagflazione, che univa
quindi alla crisi della produzione un’impennata dell’inflazione.
Per uscire dalla crisi era necessario, secondo Modigliani, una riduzione
del salario reale, che sarebbe dovuta passare attraverso la modifica o
la cancellazione del meccanismo di indicizzazione dei salari
all’inflazione (conosciuto appunto come scala mobile).
La tesi di Modigliani era che questo meccanismo, di cui a prima vista
beneficiavano i lavoratori, andava in realtà contro i loro stessi
interessi collettivi. La scala mobile infatti conduceva, a suo dire, a
un aumento del salario reale ( a causa dell’impossibilità per gli
imprenditori di scaricare tutto l’aumento salariale sui prezzi)
determinando così un peggioramento della bilancia commerciale italiana
(le importazioni sarebbero aumentate, mentre le esportazioni sarebbero
diminuite). Inoltre l’occupazione sarebbe calata. In definitiva, secondo
Modigliani, il meccanismo della scala mobile tutelava i lavoratori
attivi a discapito dei disoccupati. Era quindi nell’interesse dei
lavoratori stessi, e compito dei loro sindacati, cancellare la scala
mobile e accettare un livello salariale più basso, che fosse compatibile
con la piena occupazione. Inoltre la riduzione del costo del lavoro
avrebbe fermato l’inflazione.
In sostanza i lavoratori ci avrebbero guadagnato rispetto alla
situazione che stavano vivendo: mentre la scala mobile generava
inflazione e disoccupazione (tutelando solo una parte della forza
lavoro), con le sue proposte si sarebbe sconfitta l’inflazione e si
sarebbe ottenuta la piena occupazione. A fronte di un sacrificio
momentaneo, si sarebbero quindi potuti ottenere benefici successivi.
Graziani: conflittualisti o compatibilisti
La figura di Modigliani rendeva le sue proposte interessanti
all’interno del dibattito degli anni ’70. Questo è stato il decennio
che ha segnato la crisi del pensiero keynesiano e dell’efficacia delle
politiche economiche di intervento pubblico contro la disoccupazione e
la crisi. Modigliani si considerava, ed era considerato, un rinomato
economista keynesiano del Mit, e in quanto tale le sue proposte
raccolsero l’attenzione tanto accademica quanto della pubblica opinione.
La risposta più dura alle sue analisi e alle sue proposte venne dall’economista Augusto Graziani.
Graziani vedeva infatti nelle proposte di Modigliani (e di Padoa
Schioppa, coautore di un importante articolo del 1977(1)) una
riaffermazione “aggiornata” dei principi marginalisti. Questi legavano
in modo biunivoco il prezzo di una merce (in questo caso il salario) con
la quantità acquistata di questa merce (in questo caso la forza
lavoro): qualsiasi deviazione da questo equilibrio di mercato avrebbe
causato disoccupazione (una minore quantità) e inflazione (per l’aumento
dei salari oltre l’equilibrio). L’unica differenza rispetto ai criteri
classici era che il livello salariale era determinato dall’accettazione
dei lavoratori piuttosto che dalla domanda e dall’offerta. Questa
posizione veniva definita da Graziani come “compatibilista”(2).
Al contrario Graziani riteneva (come altri economisti) che la società
fosse divisa in classi e che il livello salariale fosse determinato dal
risultato del conflitto tra le classi. In questo visione non esisteva un
solo livello salariale possibile, ma le soluzioni sarebbero state
molteplici. Questa impostazione veniva definita dallo stesso Graziani
come conflittualista(3).
Un aumento dei salari avrebbe quindi determinato un aumento dei consumi,
con una ripresa dell’economia e attraverso essa miglioramenti
occupazionali.
Il Pci e la Cgil: accettazione delle proposte neo-liberali Negli anni ’70 il Partito Comunista Italiano era ancora il maggiore partito di opposizione: raccoglieva più di un terzo dei voti, aveva oltre un milione e mezzo di iscritti, possedeva giornali e radio, e aveva attorno a sé una miriade di organizzazioni sociali. Tra di esse la Cgil, che organizzava milioni di lavoratori. Sebbene sia sempre stato all’opposizione, il Pci aveva un forte capacità di influenza su una parte consistente della società italiana. Il ruolo di partito che aspirava a governare lo obbligava a prendere parte nel dibattito sulla crisi. Di questo tema si occupò il Cespe (Centro Stuti sulle Politiche Economiche), vicino al Pci, organizzando un convegno nel 1976, al quale partecipò lo stesso Modigliani. In quell’occasione, il direttore del Cespe Peggio sostenne che era necessario prendere in considerazione la tendenza di alcune variabili come la produttività o i salari di altri paesi industrializzati e che i sindacati avrebbero dovuto accettare una diminuzione del salario in cambio di investimenti produttivi e sociali in un dato termine di tempo(4). In questo modo i sindacati avrebbero veramente tutelato i lavoratori e il salario. Parole queste sottoscritte da Modigliani. In un passaggio il Rapporto del Cespe sull’Economia Italiana sosteneva:
Il Pci e la Cgil: accettazione delle proposte neo-liberali Negli anni ’70 il Partito Comunista Italiano era ancora il maggiore partito di opposizione: raccoglieva più di un terzo dei voti, aveva oltre un milione e mezzo di iscritti, possedeva giornali e radio, e aveva attorno a sé una miriade di organizzazioni sociali. Tra di esse la Cgil, che organizzava milioni di lavoratori. Sebbene sia sempre stato all’opposizione, il Pci aveva un forte capacità di influenza su una parte consistente della società italiana. Il ruolo di partito che aspirava a governare lo obbligava a prendere parte nel dibattito sulla crisi. Di questo tema si occupò il Cespe (Centro Stuti sulle Politiche Economiche), vicino al Pci, organizzando un convegno nel 1976, al quale partecipò lo stesso Modigliani. In quell’occasione, il direttore del Cespe Peggio sostenne che era necessario prendere in considerazione la tendenza di alcune variabili come la produttività o i salari di altri paesi industrializzati e che i sindacati avrebbero dovuto accettare una diminuzione del salario in cambio di investimenti produttivi e sociali in un dato termine di tempo(4). In questo modo i sindacati avrebbero veramente tutelato i lavoratori e il salario. Parole queste sottoscritte da Modigliani. In un passaggio il Rapporto del Cespe sull’Economia Italiana sosteneva:
“Una
strategia basata solamente sulla riduzione del salario sarebbe difficile
da raggiungere e produrrebbe, da sola, un effetto temporaneo. […] [non
devono essere escluse] misure di contenimento dei redditi monetari [e in
ogni caso] il costo del lavoro per unità di prodotto espresso in moneta
nazionale non dovrebbe crescere, nel medio termine, più che nei paesi
competitori dell’Italia”(5).
Una conseguenza del processo iniziato dalle proposte di Modigliani era
la liberalizzazione dei mercati. Come scrisse insieme a Padoa Schioppa
“è la competizione che protegge i lavoratori salariati, non i
sindacati, ed è la competizione che dovrebbe essere incoraggiata in ogni
modo, attraverso le legislazioni anti-trust, attraverso la rimozione
delle barriere che impediscono scambi più efficienti, attraverso la
competizione internazionale”(6).
E’ lecito domandarsi come il Partito Comunista (o una parte di esso)
potesse non vedere le conseguenze di queste posizioni(7). Come descrisse
bene Graziani infatti
“Il
documento del Cespe si muove in una logica economica apertamente
borghese e non marxista. Infatti, leggendo questa analisi, condotta
interamente in termini di efficienza di mercato, competitività, prezzi,
produttività, tassi di cambio, tassi finanziari etc, si ottiene
l’impressione che il documento muova in un’area di economia borghese,
che idealizza un capitalismo di perfetta competizione”(8).
e accusava gli economisti del Cespe di voler stabilire
“una seconda restaurazione capitalista”(9).
E’ più ragionevole pensare che questa sia una delle manifestazioni del
mutamento che si attuò all’interno del Partito Comunista Italiano negli
anni ’70 e che portò, 15 anni dopo, alla sua morte.
Come è stato osservato, “un metro di ghiaccio non si forma in una notte di gelo”(10).
Il processo che ha portato alla fine del Pci è stato lungo ed è stato
composto da tanti mutamenti intermedi. Come osserva Liguori:
“mentre la gran parte del Pci restava radicata nel paese, si
contrapponeva orgogliosa agli attacchi dell’avversario più ringhioso
[...] parti importanti del partito, non solo nel gruppo dirigente, a
iniziare dagli anni ’70 erano andate mutando molecolarmente la propria
cultura politica e abbracciavano ormai punti di vista e culture
politiche diverse. Erano divenuti parte (subalterna) di un diverso
sistema egemonico.”(11)
Conclusioni: la svolta economica prima della svolta politica Ben prima della svolta “politica” della Bolognina c’è quindi stata una svolta “economica”, necessaria a creare le basi ideologiche per la prima.Come osserva Cattabrini
“Il risultato, alla fine, fu di attribuire al costo del lavoro la
principale responsabilità in termini di crescita dell’inflazione e
compressione dei profitti, permettendo politiche di compressione del
salario e di miglioramento della profittabilità. Da un punto di vista
analitico, nell’opinione di Graziani questo significava la diffusione
dell’approccio neomarginalista, o della “teoria della compatibilità”,
secondo cui la classe lavoratrice dovrebbe accettare un certo livello di
salario reale per il proprio stesso interesse: sia in termini di
beneficio aggregato che ciascun lavoratore otterrebbe in termini di
riduzione della disoccupazione; sia per il maggiore potere d’acquisto
che otterrebbe una volta sconfitta la battaglia contro
l’inflazione.”(12)
Il fatto che oggi si debbano scrivere libri in cui si sottolinea l’idea
che le politiche di austerità e di compressione salariale siano di
destra, e reazionarie e contrarie agli interessi della classe
lavoratrice(13), indica quanto a fondo siano penetrate queste idee nel
senso comune dei lavoratori italiani. E mostra come il dibattito delle
idee sia importante e addirittura decisivo nei rapporti di forza
sociali.
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