Lo si capisce già dalle prime pagine di Manifesto capitalista*,
quanto sia profonda la crisi del pensiero neoliberista. Scrive Luigi
Zingales come viatico al lungo viaggio che compie in questo libro: “E
quando arrivai in America (…) provai l’emozione inebriante di avere ogni
obiettivo alla mia portata. Ero finalmente in una nazione in cui i
limiti ai miei sogni dipendevano solo dalle mie capacità”. In effetti,
non c’è più nulla da dire e da pensare, nessun argomento razionale per
difendere il capitalismo americano e i suoi mercati finanziari. Ai
neoliberisti non resta che disconoscerlo, affrettarsi a rinnovare la
promessa di una riforma del sistema, e riscoprire la “retorica della
frontiera”.
Molti sostenitori del capitalismo
americano, quelli che avevano una coscienza liberale, per quanto
incerta, erano preoccupati già da molto tempo. Non occorreva attendere
la crisi finanziaria del 2008 per accorgersi di ciò che stava accadendo:
“Tra il 1997 e il 2001 ci sono stati cambiamenti nel nostro sistema
finanziario che mi hanno profondamente preoccupato” (“The New York
Review of Books”, XLIX, n. 3) scriveva con mesto sconforto Felix G.
Rohatyin, ambasciatore degli Stati Uniti in Francia e banchiere di lungo
corso. Se lo chiedeva nel 2002, riflettendo su ciò che erano diventati
i mercati finanziari, non nella loro isterica instabilità, bensì nella
loro progettata indecenza. E poco più avanti aggiungeva: “Forse è
troppo presto per emettere un giudizio definitivo, ma gli eventi
recenti fanno pensare che il nostro sistema di regolazione stia
fallendo”.
Se lo chiedeva preoccupato, ma anche
imbarazzato, ricordando le conferenze che aveva tenuto in Europa per
dire della superiorità del capitalismo americano.
Non è la crisi finanziaria che esplode
nel 2008 a segnare la natura del capitalismo americano, bensì la
funzione che in esso assume il sistema finanziario, trasformato in uno
strumento di redistribuzione del reddito e della ricchezza alla scala
globale: una “macchina sociale” per estrarre valore, per condurre ciò che Luciano Gallino ha recentemente chiamato La lotta di classe dopo la lotta di classe
(Laterza, 2012). L’implosione del sistema finanziario e il salvataggio
attraverso l’intervento dei governi nazionali sono stati una tappa
annunciata, lungo un percorso ben tracciato, e non una catastrofe
inattesa. Non è la crisi del 2008 a mostrare che cosa era diventato il
capitalismo ma, come ha cercato di farci capire Tony Judt (Guasto è il mondo,
Laterza, 2012), l’esasperato individualismo e la perdita di ogni
misura nelle disuguaglianze sociali che si manifestano sullo sfondo
della scolastica neoliberista.
Zingales crede di trovare una strategia
di difesa proponendo, come primo passo, la tesi di una cesura nella
storia recente: con Clinton inizia e con Bush accelera il processo di
corruzione del capitalismo americano, di quel “capitalismo popolare” che
Reagan aveva delineato per gli Stati Uniti (e per noi tutti). Una
storicizzazione necessaria per interpretare le aberrazioni del
capitalismo di questi anni come una deviazione recente e temporanea, una
“malattia leggera” facile da curare. Ma è una tesi difficile da
sostenere, che l’autore non prova neppure ad argomentare. L’autore si
trova comunque in una strada senza uscita perché, fatto il primo passo, è
costretto a spiegare la negligenza dei neoliberisti, incapaci di
accorgersi della corruzione del capitalismo. Non evita la questione e
prova a dare una risposta, nel capitolo sei, che intitola La responsabilità degli intellettuali
e nel quale propone, con convinzione, la tesi della “cattura”, la tesi
di menti prese in trappola dal sistema: “Vi sono degli incentivi
economici tali da incoraggiare anche i regolatori con le migliori
intenzioni a soddisfare gli interessi delle aziende che sono chiamati a
regolare”. E prosegue con la domanda inevitabile: “Perché gli
economisti (e in particolare quelli come me, che lavorano nelle scuole
di business e hanno legami con il mondo degli affari) non potrebbero
[essere catturati] a loro volta, mettendosi a difendere l’interesse del
business, invece di quello di mercati liberi e competitivi?”. Il
lettore cerca nel libro una ragione che lo rassicuri, una ragione
perché ciò non possa avvenire, non sia avvenuto. Una ragione che non lo
costringa, per comprendere i neoliberisti di questi anni, a riprendere
in mano – e sarebbe un paradosso – La mente prigioniera di
Czeslaw Milosz (Adelphi, 1981). Ma una ragione non la trova. (Comunque,
a noi, qui, parlare di “responsabilità degli intellettuali” ricorda
altro: di persone che esprimono azioni e pensieri ancorati a codici
morali).
La strategia difensiva di Zingales è
tutta qui, in queste due tesi: è una forma corrotta di capitalismo
quella che abbiamo visto fallire; non ci siamo accorti che il
capitalismo si stava corrompendo. Ma è una linea difensiva immaginaria.
Perché è del tutto evidente che il sistema finanziario che fallisce
così fragorosamente (e tragicamente) è il prodotto di un’intenzione, di
un’agenda politica pensata e realizzata. Non erano “perfetti” i
mercati finanziari che si stavano costruendo nell’opinione dei
neoliberisti? Non erano capaci di “autoregolarsi”? E l’innovazione
finanziaria che si manifestava dentro il sistema di regole progettate e
introdotte non garantiva l’efficienza dei mercati? Non si è riesumato,
per dare un fondamento analitico ai cambiamenti delle regole, il
“teorema di Modigliani-Miller” – e la “perfezione” dei mercati
finanziari che esso “dimostrava”, la loro capacità di attualizzare il
futuro, come Dio nell’epistemologia di Laplace? E il mercato del
lavoro, della terra e dell’energia non sono stati anch’essi
deregolamentati come da teoria (neoliberista)? Il modello di
capitalismo che fallisce è stato progettato e nello stesso tempo
giustificato dagli economisti neoliberisti. Stupefacente leggere, ora,
che chi sosteneva la solidità delle basi teoriche di quel progetto
sociale, dei cambiamenti istituzionali che costruivano il capitalismo
del futuro – il capitalismo “dopo la fine della storia” – aveva una
“mente prigioniera”.
Ma l’agenda liberale che il libro
propone per riformare il capitalismo sembra venire dalla stessa
scolastica, che è riuscita a farsi credere scienza, con un esercizio di
egemonia perfettamente riuscito. “Quando lo Stato inizia a prendersi 50
centesimi su ogni dollaro guadagnato, trasforma le persone in schiavi”
afferma Zingales. Il lettore non ha il tempo di provare a dare un
senso a questa affermazione, che gli sembra paradossale, perché già
deve confrontarsi con un’altra inaudita verità: “In ogni
ridistribuzione il dollaro dato a Caio è preso da Sempronio, quindi il
trasferimento in sé non aumenta né diminuisce il benessere generale”.
Quindi, se rinuncio a un concerto alla Scala e dono il corrispettivo
del biglietto a una famiglia che non ha le risorse per mettere insieme
un pasto, il “benessere generale” non aumenta?
E questa sarebbe un’agenda liberale? Ma
dove sono finite le riflessioni di Rawls, Walzer, Dworkin, Sunstein,
Sandel e dei tanti altri intellettuali americani che hanno dato forma al
pensiero liberale, insegnandoci a riflettere sulla “giustizia
distributiva”, sulla sua necessità come fondamento etico del
capitalismo? Dove è finita l’utopia anarchica di Robert Nozick, certo
non disposto ad archiviare la necessità di un giudizio morale sui
mercati? Dove è finito Friedrich Hayek, che almeno lo scientismo aveva
ripudiato ed era capace di assumersi la responsabilità morale del
modello di società che proponeva? E da dove viene, invece, la
sconcertante agenda liberale che Zingales ci presenta in questo libro,
questo “grado zero” del pensiero che nega ogni altro pensiero?
Il lettore continuerà a chiederselo
anche mentre legge la postfazione all’edizione italiana, mentre si
dipana il consueto, logoro, approssimativo racconto dell’Italia, un
paese nel quale “manca la cultura della legalità anche perché ci sono
troppe leggi assurde, che rendono difficile operare nel rispetto della
legge stessa”. D’altra parte, come non ricordare che “secoli di
dominazioni e soprusi stranieri non hanno aiutato”. No, non hanno
aiutato, certo, come non aiutano ora queste smarrite riflessioni sul
nostro difficile presente.
Ma, alla fine, secondo l’autore, gli
italiani riusciranno ad aprirsi un varco verso il futuro, verso la loro
ancora inesplorata “frontiera”. E ad aprirlo saranno i “giovani”, le
“donne” e gli “immigrati”, categorie di persone che secondo la segnatura
dell’autore “non hanno nulla da perdere da un cambiamento”, come i
diseredati di ogni tempo. Saranno loro a compiere la rivoluzione di cui
Zingales delinea un sintetico programma, riproponendo le astratte
categorie del pensiero neoconservatore, che conoscevamo e che abbiamo
già visto all’opera: fisco meno esoso, competizione e meritocrazia,
privatizzazioni e sistema elettorale uninominale. E sarà una rivoluzione
che certo salverà l’Italia – dopo aver salvato gli Stati Uniti e il
capitalismo.
*Luigi Zingales, Manifesto capitalista. Una rivoluzione liberale contro
un'economia corrotta, pp. 406, € 18, Rizzoli, Milano 2012
A. Calafati insegna economia urbana all’Università Politecnica delle Marche
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