Avendola fatta grossa, avendo di nuovo e spudoratamente aperto il suo
cuore nero per assolvere quel buon uomo di Mussolini e le sue gesta,
Berlusconi ha suscitato indignazione sdegno vergogna ripulsa sgomento - e
chi più ne ha più ne metta - in quasi tutti i principali protagonisti e
commentatori della politica nazionale. Per sovraprezzo, il Caimano ha
vomitato le sue indecenti parole proprio nel "giorno della memoria",
davanti a quel "binario 21" della stazione centrale di Milano da cui
partivano i vagoni piombati diretti al mattatoio di Auschwitz.
Così per un giorno, forse per due ancora, l'argomento della Shoah,
sudiciamente maneggiato dal capo indiscusso e idolatrato di tutto il
Pdl, ha tenuto e terrà banco. Ma - siatene certi - si inabisserà presto,
riassorbito nella "normale" dialettica politica di questo strano paese
dalla memoria cortissima.
La cosa più semplice da fare è parsa ai più quella di liquidare le
frasi pronunciate da Berlusconi come "delirio revisionistico". E di
questo certamente si tratta. Ma, a ben vedere, nessuna delle cose da lui
dette è una primazia.
Che Mussolini non ammazzò mai nessuno e che il confino dove venivano
rinchiusi gli antifascisti fosse un luogo di villeggiatura, che il Duce
abbia fatto anche cose buone, che l'Italia non ebbe la stessa
responsabilità della Germania e che si alleò con essa per evitare di
entrare in collisione con colui che sembrava destinato a divenire il
futuro padrone d'Europa: tutte queste aberranti farneticazioni, fra
pulsioni nostalgiche e negazionismo stile Casa Pound, le avevamo già
sentite. Tranne una. Quella con cui Berlusconi ha provato, come sua
consuetudine, a smarcarsi da se stesso. "Tutta la mia storia, passata e
presente - ha detto - documenta la mia condanna della dittatura
fascista".
Ecco, forse è proprio su questo che merita riflettere. Perché è
proprio tutta la storia di Berlusconi , quella passata e quella
presente, che rappresenta il filo nero, nerissimo, che lega la sua
"discesa in campo", il suo avvento al potere e la nascita della
cosiddetta Seconda repubblica, segnata, fin dai suoi esordi, dallo
sdoganamento non soltanto del fascismo risciacquato nelle acque di
Fiuggi, ma anche di quello più estremo e nazisteggiante, recuperato in
tutti i suoi rivoli e in tutte le sue frange. E reinserito con piena
legittimità nella vita istituzionale del paese.
Ma non si tratta solo di adiacenze pericolose, opportunisticamente
blandite da Berlusconi per estendere la propria base di consenso
elettorale. C'è infatti un fascismo sostanziale, che Berlusconi ha
coltivato in proprio in quanto consustanziale alle sue più profonde
convinzioni, nutrito con le sue personali frequentazioni e con i suoi
sodali politici più stretti: si pensi a quell'impasto di populismo
xenofobo e secessionista a reggimento monarchico che è stata e rimane la
Lega; si pensi ai concreti atti di governo, coerentemente rivolti ad
esautorare il Parlamento (vi ricordate l'insofferenza per la libera
dinamica democratica, per l'impaccio che questa arrecherebbe al lavoro
dell'esecutivo e la proposta di ridurre tutto al voto dei soli
capigruppo?); si pensi, ancora, all'attacco compulsivo portato a tutto
l'impianto costituzionale e, in primo luogo, al diritto del lavoro.
Il controllo e il sequestro di gran parte della stampa e di quasi
tutte le emittenti televisive, l'uso spregiudicato della legislazione
"ad personam", non rappresentano uno scivolamento verso una forma di
dominio integrale della vita politica, certo ancora incompiuta, ma
tendenzialmente totalitaria?
E la stessa origine inquietante del patrimonio economico del
Caudillo, la base materiale sulla quale egli ha costruito il suo regno,
lo scambio di inconfessabili favori e l'inestricabile groviglio
malavitoso con cui egli ha costruito il suo sistema di potere, non sono
la plastica rappresentazione di un paese la cui democrazia è già
collassata e a rischio di irreversibile entropizzazione?
Ora, il fatto è che tutta l'infelice parabola della nostra vita
pubblica, e la stessa denerazione partitica che tocca oggi il suo limite
estremo, non hanno trovato seria opposizione in quello che, già da
tempo, non era più l'"Arco costituzionale" che aveva dato vita al
compromesso resistenziale. Il fatto è che il nocciolo duro delle
politiche che si è intestato il Centrodestra nel corso della sua lunga
occupazione del potere era da tempo in incubazione e che la sconfitta
della Sinistra in quegli anni ha avuto piuttosto le caratteristiche di
una resa, culturale prima e politica poi.
E' proprio questa resa, questo smarrimento di orizzonti e di
autonomia della Sinistra che ha permesso a Monti di succedere a
Berlusconi per portare sino alle estreme conseguenze - sotto l'egida
della Bce e con il consenso del Pd - la definitiva archiviazione della
Carta e l'instaurazione di un dominio di classe che si esercita passando
con disivoltura attraverso schieramenti omologabili.
Questo spiega perché, qualche giorno fa, Mario Monti ha potuto
sostenere che un'alleanza del suo Centro con il Pdl non è per nulla da
considerarsi una bestemmia, solo che si tolga di mezzo (essenzialmente
per ragioni estetiche) quel relitto feudale che è Berlusconi. Non si
tratta di una butade da campagna elettorale e la cosa va presa sul
serio. Il populismo reazionario è una variante della dittatura del
finanzcapitalismo, ma si rivolge agli stessi interessi, milita nel
medesimo campo.
Il paradosso è semmai che il Pd, per un anno intero leale
soostenitore di Monti, partner fedele della dissennata manovra
iperliberista che ha spesso persino rivendicato ed esaltato, ora si
senta tradito dall'uomo della Trilateral. Il quale, comprensibilmente,
ora ambisce a proseguire in proprio nella strategia che gli ha fatto
guadagnare così entusiastici consensi nel Pd che, da par suo, aveva
investito tutto se stesso non nella critica al liberismo, ma
nell'antiberlusconismo. Il Pd non se ne capacita, protesta, strepita e
chiede (inutilmente) a Monti di onorare il patto di alleanza a cui si
era così generosamente immolato. Ma la politica, malgrado a volte sembri
procedere a zig-zag, segue logiche e geometrie precise.
Se i Democrat hanno sin qui sposato la linea dettata dall'Unione
europea, sino al punto da scartare - solo un anno fa - il ricorso alle
urne che li avrebbe probabilmente visti vittoriosi, perché mai colui che
di quella linea è il più pedissequo interprete dovrebbe ora levare il
disturbo? E su quale discontinuità politica può far leva, nella sua
proposta elettorale, quel Pd che nell'ultimo scorcio di legislatura ha
approvato letteralmente tutto: dalla liquidazione dell'articolo 18
all'abolizione delle pensioni di anzianità, dalla riforma che avvia
all'estinzione gli ammortizzatori sociali all'introduzione dell'Imu,
dalla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio al fiscal compact?
Ora tace anche il Grande Timoniere, l'inquilino del Quirinale, quel
Giorgio Napolitano che di Monti è stato l'inventore e mentore.
Oggi, con la sola eccezione di Rivoluzione civile, tutto il confronto
politico, al netto delle nebbie, dei diversivi, delle risse mediatiche
di cui si fatica ad intravedere l'oggetto, si muove nello stesso recinto
programmatico. sicché i competitor che si fronteggiano, Monti e
Bersani, propongono politiche le cui differenze si riducono a modeste
"variazioni sul tema", inscritte nel medesimo progetto di società.
Per questo né l'uno né l'altro riescono mai a liberarsi
definitivamente del Caimano, che nella desertificazione della democrazia
e nel pascolo dei poteri forti trova sempre fonti a cui abbeverarsi.
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