Il ‘merito’ è una truffa. ‘Far progredire i migliori’, proclamano i
pasdaran del merito. Ma a chi spetta valutare le capacità altrui, se non
a coloro che, spesso tutt’altro che meritevolmente, stazionano in cima
alla scala sociale? Eppure, anche dal basso s’invoca il merito, fingendo
di non sapere che la valutazione finale spetterà agli inquilini dei
piani alti. Cioè ai privi di merito.
Un fantasma si aggira per l’Italia. E non è Angelino Alfano.
È
un fantasma che passa di bocca in bocca, che rimbalza dalle cronache ai
convegni, che entra ed esce dalle pieghe di ogni discorso, che fa da
premessa ad ogni ragionamento, che olia gli ingranaggi di qualsiasi
riflessione sul «rinnovamento» italiano.
È il fantasma del «merito».
È il fantasma del «merito».
Se ogni italiano potesse avere un euro per ogni volta che si evoca il merito, avrebbe il merito di diventare ricco senza alcun merito, esattamente come i ricchi che ad ogni passo gli sventolano la parola «merito» sotto il naso.
Se lo stesso italiano avesse un po’ di memoria storica, peraltro, saprebbe che la fregatura aleggia nell’aria, come ogni volta che una parola fa irruzione sulla scena politica e ne prende il controllo, ripetuta ossessivamente, mai spiegata o argomentata. Un dogma: il merito.
Erano gli anni Novanta quando passò a volo radente, bombardando a tappeto la popolazione, la parola «flessibilità». Dal ministro Treu (primo governo Prodi) in poi, quella febbre contagiò tutto e tutti, con il risultato di produrre quaranta diversi tipi contrattuali di paraschiavitù a tempo determinato.
Una volta diventato più moderno e flessibile, il paese ne avrebbe guadagnato in efficienza e ricchezza, e si è visto. Dopotutto anche farsi amputare una gamba è un buon sistema per perdere peso.
Quando si cominciò a pronunciare la parola «privatizzazioni» fu chiaro a tutti che i monopoli sarebbero diventati società per azioni pur restando monopoli.
Dunque, se avessimo un po’ di memoria nel nostro bagaglio, guarderemmo al nuovo mantra sul «merito» con almeno un pizzico di perplessità.
E invece: un tripudio.
Si pensa erroneamente che la satira prenda le parole della politica per stravolgerle e ribaltarle in paradosso. Si tende invece a sottovalutare come la politica rubi materiale alla satira e – con una giravolta ancor più paradossale – lo adatti alle sue esigenze e ai suoi disegni. Così, pochi sanno che la parola meritocrazia deriva da un’opera satirica del 1958, The Rise of Meritocracy 1870-2033, autore Michael Young, che smascherava e derideva, con verve e sarcasmo, la balzana idea di una società basata solo sul merito. La meritocrazia risultava così come la campana a morto della democrazia: non più il governo del popolo, ma il governo dei migliori.
Già, migliori a fare cosa? Allacciate le cinture, partiamo.
Se state decollando o atterrando con un aereo, un caro e accorato pensiero andrà, insieme all’ansia di non rovesciare il prosecco, al «merito». Anche se non ve ne rendete conto, un angolino del vostro cervello sta pensando al pilota, al fatto che è meglio che sia un tipo in gamba e non soltanto, per dire, il fidanzato della figlia dell’amministratore delegato o del capo del personale della compagnia aerea. È la stessa cosa che amiamo pensare del chirurgo che ci opera, dell’autista dello scuolabus dei nostri figli, del macchinista del Frecciarossa o del nostro consulente finanziario.
Il merito inteso come capacità di fare quello che si sta facendo, insomma, è un dato che si dà per acquisito, cui la popolazione tiene parecchio, se non altro per autodifesa.
Il discorso si fa più complesso nell’attuale situazione italiana, quando a reclamare merito sono le classi dominanti. Esse non invocano quasi mai il merito per sé (danno per scontato che, abitando in cima alla piramide sociale, il loro merito sia conclamato), ma per tutti gli altri, e segnatamente per quelli che potrebbero eventualmente, un giorno, prendere il loro posto.
Il paradosso del «merito» così come viene oggi sbandierato è assai divertente e istruttivo. Si tratta, sulla carta, di far progredire i migliori. Ma a decidere chi siano i migliori è la struttura gerarchica già in essere, spesso formatasi prima dell’avvento del discorso sul merito. Dunque, anziché l’apertura di una prospettiva, il merito diventa una corsa a ostacoli, con siepi, muri e barriere ben piazzati per scremare, selezionare, arrestare la corsa dei presunti «meritevoli» di cui si valuta il merito.
Ricordava Bruno Trentin, buonanima, in un suo lucidissimo articolo (l’Unità, 13 luglio 2006), che stabilire i criteri del merito è già un discorso sul merito. Faceva notare, il vecchio sindacalista, la funzione antisindacale degli assegni di merito nella struttura retributiva del mondo operaio. Un premio per i puntuali, per chi non sciopera, per chi non pianta grane, per chi non si mette in malattia nemmeno con la febbre, per chi accetta senza fiatare l’aumento dei tempi. Merita di più non chi «sa fare», ma chi ubbidisce.
Ma questo era il vecchio taylorismo, signori!
Entriamo invece ora in qualunque ufficio dell’Italia moderna, in quel terziario avanzato che arretra, nell’antica modernità dei contrattini a scadenza, dove migliaia di giovani laureati, colti, sapienti, maneggiano fotocopiatrici dando prova della loro perfetta conoscenza della lingua inglese (on, off, print).
Il merito potrà essere così valutato: disponibilità a lavorare oltre l’orario, disponibilità a restare a casa qualche settimana o mese tra un contratto e l’altro, svolgimento di mansioni da lavoratore dipendente anche senza le garanzie previste e, non di rado, disponibilità a sostituire con forte riduzione di diritti e salario i lavoratori espulsi.
Non c’è dubbio che, per l’azienda, siano gran meriti e che il refrain «premiare il merito» abbia qui una sua diretta e incontestabile validità.
Il «premio» al merito (naturalmente al merito così come lo intende l’azienda) non è più, come nelle vecchie fabbriche di cui parlava Trentin, un’aggiunta paternalistica a un diritto-base, ma la conferma stessa di quel diritto: il rinnovo del contrattino.
Del resto, parlare di merito in Italia appare un’operazione piuttosto complessa. Basta prendere l’elenco dei partecipanti ai convegni, simposi, assemblee e congressi dei giovani imprenditori italiani. La parola «merito» affolla i loro discorsi, spesso pronunciata con toni tribunizi, accenti da Savonarola, ultimatum. Premiare il merito! Riconoscere il merito! Valutare il merito! Il paese è fermo perché non si tiene nella dovuta considerazione il merito!
Poi, a scorrere i cognomi degli indignati domandatori di merito, si scopre che nove volte su dieci il merito della loro invidiabile condizione sociale è attribuibile alla rendita di posizione, all’eredità del babbo o del nonno che hanno fondato l’azienda, ai soldi di famiglia con cui hanno fondato la startup. Insomma ai meriti – o alle posizioni di privilegio – di altri.
Un paese ereditario, dove il 40 per cento degli architetti ha il padre architetto, dove le farmacie si tramandano di padre in figlio come nelle corporazioni del medioevo, dove fare il notaio è missione impossibile per chi non discenda da lombi di notaio – abbiamo notai dop, come vini e formaggi – si sta accapigliando per imporre la parola merito.
Un chiaro caso di intossicazione di massa: qualcuno ha sciolto dell’acido negli acquedotti e tutti sono ubriachi di meritocrazia.
Del resto, gli esempi storici di merito italiano sono essi stessi paradossi micidiali. Parlare di merito nel paese di Francesco Cossiga, per dire, è come parlare di felicità matrimoniale in casa di Barbablù. Un ministro dell’Interno che assiste al rapimento del capo del suo partito, che lo ritrova cadavere due mesi dopo, che guida le indagini con l’arguzia di un ispettore Clouseau contro non certo irresistibili geni del male, anziché essere pietosamente pensionato senza lodi, ed anzi cacciato con ignominia, viene premiato con la prima carica dello Stato, servito, riverito e ascoltato pure nei non rari momenti di follia.
Si fosse seguito il ferreo criterio del merito, certo, non sarebbe successo, e non è che uno dei più mirabolanti paradossi italiani, cose vecchie e polverose.
Sui meriti attuali, invece, si tende a sorvolare. Non perché non se ne parli o perché non raggiungano l’onore delle cronache, ma perché si tende subito a correre in soccorso dei meritori, difendendoli dalla «colpa» d’essere figli di, nipoti di, mogli, cognati. Per dire, sui due lavori (non precari) della figlia della ministra Fornero (nella stessa università dove insegnano mamma e papà, peraltro) si è polemizzato non poco. Anche della liquidazione milionaria (3,6 milioni di euro), dopo un anno di lavoro, del figlio della ministra Cancellieri (presso Fondiaria-Sai di Salvatore Ligresti) si è detto, specie ricordando che la ministra aveva tuonato a suo tempo che i giovani d’oggi vogliono la pappa fatta e che «pretendono di lavorare vicini a papà e mamma» (ancora!). In questo caso ci si affretta a dire che sì, avranno avuto la strada spianata, ma sono tanto bravi, che colpa ne hanno? Si possono forse penalizzare? Gli altri, quelli bravi ma senza famiglia adeguata, che si arrangino. Diciamo dunque che c’è merito e merito: quello turbo, supportato dalle condizioni sociali, e quello semplice, magari eccellente e comprovato, ma – ahimè – non piazzato già in partenza su un poderoso trampolino.
Sulle prebende dei vari rampolli blasonati, sui fortunati eredi di rendite accumulate dalle precedenti generazioni, insomma, si argomenta ogni giorno, anche menando qualche scandalo, ma senza apparenti vie d’uscita.
Tutti giovani di merito, s’intende, e tutti con il merito di avere lussuose corsie preferenziali.
Ecco: non è vero che l’ascensore sociale è fermo, semplicemente è completo, occupato dalla nomenklatura, e la gente normale usa le scale, faticosamente e sbuffando. Mentre arranca, gradino dopo gradino, si sente gridare da chi sta salendo in ascensore: merito! Coraggio! Ci vuole merito!
Non risulta dalle mie pur capillari ricerche, un figlio di ministro o sottosegretario, o grande manager pubblico o privato, o maggiorente di ogni tipo, che frigga le patatine da McDonald o consegni pizze a domicilio. Sono pronto a fare penitenza se mi si dimostrasse il contrario, anzi, in quel caso ne prenderei due, con le acciughe.
Naturalmente il discorso del merito non è tutto qui. Anzi, quello descritto è solo un effetto collaterale. È proprio perché la classe dirigente italiana ha poco o nulla a che vedere con il merito che il discorso sul merito attecchisce rigoglioso.
Ed eccoci al secondo paradosso sul merito. La popolazione che non raggiunge i piani alti invoca il merito, il concorso non truccato, la posizione guadagnata per capacità e non per appartenenza castale, il duro lavoro anziché la strada spianata. Ne ha abbastanza dei privilegi, delle carriere già disegnate, delle corsie preferenziali. E dunque, ipnotizzata da una prospettiva di giustizia sociale basata sulla competizione, invoca il merito non sapendo o fingendo di non sapere che il suo merito verrà valutato proprio da chi sta in alto.
Lo schiavo costruttore di piramidi si indigna perché, portando due pietre, ha lo stesso trattamento dello schiavo che ne porta una. E chiede al guardiano armato di frusta di intervenire per senso di giustizia. Naturalmente, i concorsi pubblici per guardiano armato di frusta sono bloccati.
Ed è sulla valutazione del merito – di più, sulla gentile concessione di una valutazione del merito – che s’avanza il terzo enorme paradosso del merito, il più clamoroso, il più evidente e il meno esplorato.
Prendete una gara olimpica, per esempio i cento metri piani. Mettete sulla linea di partenza Usain Bolt, il grintoso velocista giamaicano, e un giovane di pari età con una gamba ingessata e uno zaino di cento chili sulla schiena. Ecco: all’arrivo applaudite il vincitore e riconoscetegli il merito della vittoria.
Fatto? Perfetto: eccovi servita la squisita specificità italiana del discorso sul merito.
Perché con la stessa festante sicumera con cui si invoca il merito, si respinge, al contempo, qualunque possibile riferimento a una parola antica e desueta, poco moderna e impolverata, nostalgica e ideologica: uguaglianza.
Mio figlio, nato in una casa in cui si legge, si discute, si usa un decente italiano senza sterminare i congiuntivi, si vedono telegiornali, si viaggia nelle capitali europee, si visitano musei, si gioca, si fa normale uso di tecnologia, gareggia nello stesso campionato del suo compagno di classe, un giovane rom Sinti. Quello viene da una roulotte gelida d’inverno e rovente d’estate, magari periodicamente abbattuta dalle ruspe delle guardie comunali, frequenta la scuola un giorno su tre e ha la stessa confidenza con la lingua che ho io con la fisica quantistica. Che esito avrà questa nobile gara di merito? Chi dei due salirà più velocemente le scale dell’affermazione sociale? Scommettiamo? Vincerei senza problemi, ma come si può capire, con un certo merito.
Parlare di merito senza parlare di uguaglianza, dunque, si configura come una truffa con destrezza. Truffa, perché il discorso contiene un oggettivo premio di maggioranza per chi già è favorito per posizione sociale, tradizione familiare, disponibilità economica. E destrezza perché si tenta di convincere chiunque sia appena poco più che totalmente imbecille che il farsi strada nel mondo dipende da lui soltanto, dalla sua capacità, dal suo merito e non dalla struttura della società, dai suoi meccanismi profondamente ingiusti.
In pratica, qualunque discorso sul merito che prescinda dal discorso dell’uguaglianza non è altro che un chiaro disegno conservatore, volto a conservare, appunto, gli equilibri esistenti.
Non sfuggirà a nessuno, del resto, l’esilarante balletto delle previsioni che periodicamente indicano ai giovani i più fruttuosi e promettenti rami di studio. La laurea, il miraggio di promozione sociale dei baby boomers, non bastava più. Ci voleva il master. Possibilmente il master all’estero. Trovandosi poi un esercito di laureati e masterizzati a far fotocopie in ufficio, ci si pose il problema di consegnare a man bassa lauree brevi. Poi si disse che un buon diploma sarebbe stato meglio. Poi si arrivò a dire che un buon lavoro manuale avrebbe pagato di più. Ora, che abbiamo un gran bisogno di idraulici, di infermieri e di piastrellisti, dei quali sarà assai più facile valutare il merito. E soprattutto meno rischioso per chi potrebbe essere insidiato dalle loro capacità.
Bello, eh, il merito! Ma c’è un gran bisogno di proletari, e non di intellettuali pretenziosi. Gli attacchi al diritto allo studio, i tagli della signora Gelmini, le ironie della signora Fornero sui giovani «choosy» che è meglio si accontentino e l’aumento delle rette universitarie (quest’anno, 7 per cento in più rispetto all’anno scorso, in media) dicono proprio questo. Che il merito è una grande tosatura delle insulse pretese della piccola e media borghesia, che aspirava a diventare ceto medio e viene ricacciata in basso. Perché non merita.
E poi, per chiudere il cerchio, ecco l’ultimo paradosso dell’inganno del merito.
E quelli che non meritano? In una società così pervicace e feroce nel premiare il merito, che fine farà chi proprio non ci arriva? Chi non sa fare e forse non saprà mai, chi rimane indietro, chi rifiuta il meccanismo, chi non è dotato?
Un’enorme rupe Tarpea potrebbe essere una soluzione abbastanza moderna? Un grande penitenziario per i non meritevoli? Un’isola? Un confino?
Andiamo, in fondo non sarebbe un prezzo troppo caro per una società di tipo liberista basata sul nuovo-vecchio feticcio del secolo XXI. Il merito.
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