Come spesso accade in Italia, dallo scandalo che ha investito il
Monte dei Paschi di Siena si stanno traendo le conclusioni sbagliate. Ed
è un vero peccato, perché si tratta di una vicenda emblematica, che ci
racconta un pezzo importante della storia di questo paese negli ultimi
20 anni. Proviamo quindi a mettere un po’ in fila i fatti.
Nei primi anni Novanta il Mps viene privatizzato, come l’intero sistema bancario italiano, attraverso le Fondazioni bancarie (società miste pubblico-private senza fini di lucro, secondo la Sentenza n. 300/2003 della Consulta), che ne assumono il controllo azionario. A fine decennio, non vi sarà praticamente più alcuna banca pubblica (mentre ancora all’inizio degli anni Novanta il 73% del sistema bancario italiano era in mano pubblica).
Allora si disse che quelle privatizzazioni erano necessarie non
soltanto per fare cassa e comprarsi il biglietto per l’Europa e la
moneta unica, ma anche per ammodernare il nostro sistema bancario e
renderlo più efficiente. Furono così privatizzate tutte le grandi banche
commerciali, tutte le banche a medio-lungo termine (che facevano
credito per gli investimenti delle imprese), e addirittura banche di
sviluppo come il Mediocredito Centrale (mentre nel resto d’Europa gli
Stati si guardavano bene dall’alienare le banche di sviluppo: si veda ad
esempio il KfW tedesco).
L’influenza dei partiti, sul Mps come su gran parte delle banche
privatizzate, non cessò. Quello che cambiò furono i principi guida
dell’attività bancaria: prevalse il criterio del profitto di breve
termine e della “creazione di valore per gli azionisti”, a sua volta
identificata con l’andamento in borsa del titolo. La gestione delle
banche cominciò a seguire tutte le “mode” che favorivano la crescita in
borsa del titolo relativo. Inclusi la speculazione finanziaria sempre
più spinta, l’uso di società veicolo fuori bilancio per aumentare la
leva finanziaria (ossia per fare più operazioni con sempre meno capitale
proprio) e l’utilizzo di prodotti finanziari derivati.
A metà anni 2000, la moda prevalente nel sistema bancario
internazionale fu quella della corsa alla crescita dimensionale
attraverso fusioni e acquisizioni. Anche il sistema bancario italiano si
concentrò molto. Troppo: nel senso che si creò un oligopolio di poche
grandi banche. Tra fine 2006 e fine 2007 si ebbero le ultime tre grandi
fusioni bancarie italiane: Unicredit compra Capitalia; Intesa compra il
San Paolo di Torino. E il Monte dei Paschi compra, strapagandola,
Antonveneta. L’iniziativa è del management e la Fondazione ne apprende
praticamente a cose fatte. Il prezzo pagato è di 9,3 miliardi di euro.
La crisi degli anni successivi colpisce il titolo e mette in luce
ancora più chiaramente (ma era già chiaro all’atto dell’acquisto) che la
Antonveneta era stata pagata troppo cara: oggi l’intero gruppo ha una
capitalizzazione di borsa di 2,6 miliardi (ma anche Unicredit, che
assieme a Capitalia valeva 100 miliardi, oggi quota sotto i 25). I
problemi del Montepaschi emergono con questo acquisto, che svuota le
casse dell’istituto senese. A questo punto, per migliorare i bilanci
occultando le perdite (ma al prezzo di maggiori perdite successive)
vengono effettuate le operazioni sui derivati di cui si è tornato a
parlare in questi giorni. (Che in ognuno di questi passaggi vi siano
state vere e proprie malversazioni è probabile, ma non è il punto
essenziale). Infine, la crisi del debito pubblico italiano si ripercuote
sul Monte dei Paschi, che – per avere rendimenti facili e ritenuti
esenti da rischio – aveva acquistato 25 miliardi di titoli di Stato
italiani, perlopiù a lungo termine. E quindi dall’estate 2011 viene
colpito dal crollo del prezzo di quei titoli. A fine 2011 l’Eba
(European Banking Authority) chiede a diverse banche italiane –
suscitando un vespaio – di effettuare un aumento di capitale: per Mps la
stima del capitale necessario si attesta sui 3,4 miliardi di euro, a
cui si aggiungono negli ultimi mesi altri 500 milioni (necessari proprio
per coprire anche le perdite dovute all’uso dei derivati).
Veniamo all’oggi: una settimana fa il governo Monti ha deciso di
prestare 3,9 miliardi al Montepaschi. Questo prestito sarà rimborsato
entro 5 anni. In caso negativo, e solo allora, le obbligazioni dell’Mps
acquistate dallo Stato (i Monti-bond) si trasformeranno in azioni della
società. Questo però significa che lo Stato non ha alcun modo per
verificare che i suoi soldi siano spesi bene. E infatti il 27 gennaio
Alessandro Profumo (presidente del Mps), in un’intervista al Sole 24
ore, ha affermato che è esclusa ogni ingerenza politica «perché non è
previsto alcun diritto di governance» per lo Stato.
La direzione di marcia preferita dallo stesso Profumo nell’intervista
citata è chiara: «Mi piacerebbe avere un socio finanziario di lungo
termine… La nazionalità non è un problema». L’obiettivo da conseguire?
Una banca «con molte meno agenzie ma una base di clientela importante e
ben radicata nei territori, in grado di soddisfare le esigenze delle Pmi
e delle famiglie». L’esito più probabile di tutto questo è un Mps che
taglia drasticamente i suoi sportelli (e quindi il personale), e che
presto o tardi sarà acquisito da una banca straniera. In questo modo il
territorio perderà una delle sue banche di riferimento, e un altro pezzo
del nostro sistema finanziario (dopo la Bnl, acquisita da Bnp Paribas)
se ne andrà all’estero, e sarà comprato a prezzo di saldo.
Siamo l’unico paese europeo che non è voluto entrare, neanche
nell’emergenza, nel capitale delle banche in difficoltà. Non si è mai
andati al di là di prestiti. Questo tabù va rotto.
Con la stessa cifra impegnata nel prestito al Monte dei Paschi, lo Stato potrebbe diventare di gran lunga il primo azionista della Banca. Se lo Stato salva una banca, deve poter entrare nel capitale di quella banca. E non per risanarla e rivenderla al miglior offerente, come oggi anche qualche liberista propone, con scarsa coerenza (ma come, non era lo Stato il problema e il mercato la soluzione?). Bensì con due altre finalità: tutelare il proprio investimento, e nel contempo ripristinare il principio secondo cui il credito è un “bene pubblico” di importanza strategica per il paese. Il principio secondo cui una banca non deve accontentarsi di conseguire la massima profittabilità di breve periodo, ma deve poter crescere nel tempo con il suo territorio.
Con la stessa cifra impegnata nel prestito al Monte dei Paschi, lo Stato potrebbe diventare di gran lunga il primo azionista della Banca. Se lo Stato salva una banca, deve poter entrare nel capitale di quella banca. E non per risanarla e rivenderla al miglior offerente, come oggi anche qualche liberista propone, con scarsa coerenza (ma come, non era lo Stato il problema e il mercato la soluzione?). Bensì con due altre finalità: tutelare il proprio investimento, e nel contempo ripristinare il principio secondo cui il credito è un “bene pubblico” di importanza strategica per il paese. Il principio secondo cui una banca non deve accontentarsi di conseguire la massima profittabilità di breve periodo, ma deve poter crescere nel tempo con il suo territorio.
Questo concetto, che in Italia è dimenticato quando non
ridicolizzato, è stato ripreso nei Paesi anglosassoni negli ultimi anni:
e persino l’insospettabile Regno Unito ha creato una banca pubblica per
il credito alle piccole e medie imprese. In Italia oggi abbiamo non
meno bisogno di banche pubbliche. Tanto di breve termine quanto – e
soprattutto – di credito a lungo termine.
La vicenda del Montepaschi ci insegna come una banca privatizzata
possa perseguire un orientamento al profitto di breve termine che si
rivela distruttivo, senza per questo perdere i condizionamenti politici e
le logiche clientelari che un tempo si rimproveravano alle banche
pubbliche. Il prestito a Mps non risolve questi problemi.
L’ingresso dello Stato nel capitale del Mps (direttamente o tramite la Cassa Depositi e Prestiti), non come socio finanziario interessato a un profitto immediato ma come azionista di riferimento di lungo termine, rappresenterebbe invece il salto di qualità di cui i lavoratori del Mps, i suoi clienti (imprese e risparmiatori) e il nostro sistema produttivo hanno bisogno in questo momento di forte restrizione del credito.
L’ingresso dello Stato nel capitale del Mps (direttamente o tramite la Cassa Depositi e Prestiti), non come socio finanziario interessato a un profitto immediato ma come azionista di riferimento di lungo termine, rappresenterebbe invece il salto di qualità di cui i lavoratori del Mps, i suoi clienti (imprese e risparmiatori) e il nostro sistema produttivo hanno bisogno in questo momento di forte restrizione del credito.
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