lunedì 4 gennaio 2016

Le vere radici del gruppo Stato islamico sono in Arabia Saudita di Kamel Daoud*

Le vere radici del gruppo Stato islamico sono in Arabia Saudita
Stato islamico nero, Stato islamico bianco. Il primo sgozza, uccide, lapida, taglia le mani, distrugge il patrimonio dell’umanità e detesta l’archeologia, le donne e gli stranieri non musulmani. Il secondo è meglio vestito e più pulito, ma non si comporta diversamente. Il gruppo Stato islamico (Is) e l’Arabia Saudita. Nella sua lotta al terrorismo, l’occidente è in guerra con l’uno ma stringe la mano all’altro.
È un meccanismo di negazione che ha un prezzo. Si vuole salvare la storica alleanza strategica con l’Arabia Saudita dimenticando che questo regno si fonda su un’altra alleanza, con una gerarchia religiosa che produce, legittima, diffonde, predica e difende il wahabismo, la versione dell’islam ultrapuritana di cui si nutre l’Is.
Il wahabismo, un movimento radicale messianico nato nel diciottesimo secolo, vuole restaurare un vagheggiato califfato intorno a un deserto, un libro sacro e due luoghi santi, la Mecca e Medina. È un puritanesimo figlio di massacri e del sangue, che si traduce oggi in un rapporto assurdo con le donne, in un divieto d’ingresso ai non musulmani nei luoghi sacri, in una legge religiosa intransigente, ma anche in un rapporto malato con le immagini, con la rappresentazione e, quindi, con l’arte, oltre che con il corpo, con la nudità e con la libertà. L’Arabia Saudita è un Is che ce l’ha fatta.
Colpisce la negazione che l’occidente opera nei confronti di questo paese: consideriamo questa teocrazia un alleato e fingiamo di non vedere che è il principale mecenate ideologico della cultura islamista. Le nuove generazioni estremiste del cosiddetto mondo “arabo” non sono nate jihadiste. Sono state nutrite dalla Fatwa valley, una sorta di Vaticano islamista dotato di una vasta industria che produce teologi, leggi religiose, libri e politiche editoriali e mediatiche aggressive.
Si potrebbe ribattere affermando che anche l’Arabia Saudita è un bersaglio potenziale dell’Is. È vero, ma insistere su questo punto significa trascurare l’importanza dei legami tra la famiglia regnante e le gerarchie religiose che ne assicurano la stabilità (ma anche, e in misura sempre maggiore, la precarietà). A trovarsi in trappola è una famiglia reale che, indebolita da regole di successione dinastica che accentuano il rinnovamento, si aggrappa dunque all’ancestrale alleanza tra re e religiosi. Il clero saudita produce l’estremismo islamico che minaccia il paese ma che assicura anche la legittimità del regime.
Bisogna vivere nel mondo musulmano per comprendere l’immenso potere esercitato dai canali televisivi religiosi sulla società attraverso i suoi anelli più deboli: le famiglie, le donne, gli ambienti rurali. La cultura islamista si è diffusa oggi in molti paesi: Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Egitto, Mali, Mauritania. Vi sono qui migliaia di giornali e di canali televisivi islamisti (come Echourouk e Iqra), oltre che religiosi che impongono la loro visione unica del mondo, della tradizione e dell’abbigliamento nello spazio pubblico, così come nei testi legali e nei riti di una società che considerano corrotta.
Bisogna leggere alcuni giornali islamisti e le loro reazioni agli attentati di Parigi. In essi l’occidente è presentato come il luogo “dei paesi empi”, gli attentati sono la conseguenza degli attacchi all’islam, i musulmani e gli arabi sono diventati i nemici dei laici e degli ebrei. La questione palestinese, la distruzione dell’Iraq e il ricordo del trauma coloniale vengono usati per convincere le masse con discorsi dai toni messianici. Mentre questo discorso si impone nella società, più in alto i poteri politici presentano le loro condoglianze alla Francia e denunciano un crimine contro l’umanità. Una situazione di totale schizofrenia, parallela alla negazione operata dall’occidente nei confronti dell’Arabia Saudita.
Tutto ciò suscita qualche perplessità di fronte alle roboanti dichiarazioni delle democrazie occidentali sulla necessità di lottare contro il terrorismo. Si tratta di una “guerra” miope poiché prende di mira l’effetto e non la causa. L’Is è una cultura prima di essere una milizia: come impedire che le generazioni future scelgano il jihadismo se non sono stati arginati gli effetti della Fatwa valley, dei suoi religiosi, della sua cultura e della sua immensa industria editoriale?
Un equilibrio illusorio
Guarire questo male sarebbe dunque un compito facile? Non esattamente. L’Arabia Saudita, sorta di Is bianco, resta un alleato dell’occidente nel gioco delle alleanze mediorientali. Viene preferita all’Iran, un Is grigio. Ma si tratta di una trappola che, attraverso la negazione, produce un equilibrio illusorio: il jihadismo viene denunciato come il male del secolo ma non ci si concentra su ciò che lo ha creato e lo sostiene. Questo permette di salvare la faccia, ma non le vite umane.
Il gruppo Stato islamico ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma anche un padre: l’Arabia Saudita e la sua industria ideologica. Se l’intervento occidentale ha fornito delle ragioni ai disperati del mondo arabo, il regno saudita gli ha offerto un credo e delle convinzioni. Se non lo capiamo, perderemo la guerra anche se dovessimo vincere delle battaglie. Uccideremo dei jihadisti ma questi rinasceranno nelle prossime generazioni, nutriti dagli stessi libri.
Gli attentati di Parigi rimettono in evidenza questa contraddizione. Ma come dopo l’11 settembre, rischiamo di cancellarla dalle analisi e dalle coscienze.
* http://www.internazionale.it Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul New York Times. Clicca qui per vedere l’originale (Traduzione di Federico Ferrone)

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