«L’Italia sta veramente ripartendo»; «questa è davvero la volta buona»; con Juncker nessun problema, solo un suo «infortunio verbale»; sulla bad bank Padoan sta «facendo miracoli». Sono alcuni passaggi della lunga intervista rilasciata ieri dal presidente del consiglio Matteo Renzi al Sole24Ore. Se possibile ancora più ottimismo del solito.
Lo stesso che sembra trapelare da Davos, malgrado l’annuale Forum dell’Economia mondiale si sia aperto su una situazione a dire poco intricata. Il nostro Paese in particolare sembra trovarsi in una vera e propria tempesta perfetta, alla quale contribuiscono una serie di fattori.
Si tratta di sette principali punti di crisi.
1) Il crollo delle borse, partito dalla Cina, ha poi contagiato l’Asia e via via le altre piazze finanziarie. Un crollo iniziato alcuni mesi fa, dopo tre anni consecutivi di crescita vertiginosa, con aumenti ben superiori al 100% in un anno e decine di milioni di nuove posizioni aperte nella sola primavera 2015. Non era così difficile immaginare che si trattava di una bolla, e che, come tutte le bolle, prima o poi sarebbe scoppiata.
2) Lo scoppio e il contagio alle altre piazze finanziarie sono però rapidissimi per una finanza che ragiona in millesimi di secondo, nell’esasperato tentativo di anticipare gli andamenti dell’economia. Somme gigantesche si spostano sulla base di voci e di supposizioni amplificando, sia in positivo sia in negativo, i cicli e gli andamenti economici. Cresce l’instabilità nelle Borse mondiali, dove una buona notizia diventa un’irrefrenabile euforia, ma una cattiva si trasforma in un inarrestabile crollo. Meccanismi cavalcati da una speculazione che guadagna sulle oscillazioni dei prezzi e si nutre ed esaspera l’ instabilità dei mercati.
3) Il rallentamento dell’economia cinese e una crescita del Pil inferiore alle aspettative è un problema anche, se non soprattutto, per l’Europa, dove la ripresa stenta e dove la politica economica ha puntato tutto sull’export. Austerità e crescenti diseguaglianze deprimono la domanda interna, mentre la competitività diventa fine a se stessa nella gara globale per chi produce al prezzo più basso. Con il Quantitative Easing inondiamo il mondo di euro, svalutando la nostra moneta per rendere più convenienti le esportazioni. Il problema è che se l’Europa, che nel suo insieme già oggi ha il maggior surplus commerciale del pianeta, punta tutto su esportare sempre di più, un rallentamento del principale mercato di sbocco, i paesi asiatici e le economie emergenti, rischia di bloccare l’intera economia mondiale.
4) Su questo si innesta il crollo del prezzo del petrolio e delle materie prime. Un segnale doppiamente preoccupante. Da un lato è un sintomo del rallentamento della produzione industriale e della crescita economica, il che innesca ulteriore sfiducia. Dall’altro, si ripete il discorso fatto al punto precedente. Se il greggio continua a scendere, sono problemi per i paesi produttori, ma anche per quelli che basavano la loro economia sulle esportazioni, quindi per l’Europa. L’Italia importa petrolio, ma deve sperare che il prezzo non scenda troppo. Logico, no?
5) Problemi internazionali e decisioni economiche europee a cui si sommano questioni interne al nostro paese. Una disoccupazione che rimane intollerabile, diseguaglianze crescenti, l’inflazione più bassa da mezzo secolo a questa parte, una fiducia non esattamente ai massimi malgrado i continui proclami. Vari fattori che contribuiscono a deprimere domanda e consumi. Se però l’economia interna non riparte, le esportazioni si fermano, parlare di investimenti pubblici è un affronto al dio dell’austerità, chi dovrebbe trainare la famigerata ripresa?
6) Secondo il dogma neoliberista per cui la finanza pubblica è un problema e quella privata la soluzione, a trainarla dovrebbero essere mercati finanziari e banche. Di mercati finanziari in questi giorni è meglio non parlare, ma non è che le banche se la passino tanto meglio, anzi. Le sofferenze – i crediti che non vengono restituiti – superano il 10%. Per liberare le nostre banche da questa zavorra e rilanciare il credito e quindi l’economia servirebbe la bad bank. L’Ue non vuole però sentire parlare di aiuti di stato, e i piccoli «infortuni verbali» tra Juncker e Renzi rischiano di non semplificare le cose. Così come non le semplificano le lettere indirizzate dalla Bce alle nostre banche per informazioni su queste stesse sofferenze.
7) Se per le nostre banche questi problemi non fossero sufficienti, di nuovo l’Europa ci mette un carico non da poco, con l’entrata in vigore del bail-in, in assenza però di un meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie su scala continentale. Per l’ennesima volta una Ue in mezzo al guado, che impone regole uniche ma lascia poi i paesi più deboli a sbrigarsela da soli. Con l’attuale sfiducia è facile presumere il rischio di un bank run, ovvero che alla prima difficoltà i piccoli risparmiatori scappino a gambe levate dagli investimenti in azioni e obbligazioni bancarie.
Riassumendo. Le Borse calano; la finanza è rimasta il gigantesco casinò dell’epoca dei subprime; l’economia internazionale va male; quella italiana peggio; le diseguaglianze crescono; le politiche economiche sono pessime; l’Europa è un disastro; la sfiducia nelle banche ai massimi. Per fortuna che, alla faccia dei gufi, «l’Italia sta veramente ripartendo». L’unico problema è capire in quale direzione.
Andrea Baranes - Il Manifesto
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